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Dalla parte dello scecco di senia

Tunisia (foto Giaramidaro)

Tunisia (foto Giaramidaro)

di    Nino Giaramidaro

«… e Riro il giovenco biondo come l’oro che tirava da sé senza benda e senza guida l’acqua dal pozzo, piano piano, com’egli l’aveva ammaestrato. La nòria a ogni giro della bestia dava un fischio lamentoso. Egli, da lontano, contava quei fischi; sapeva quanti giri ci volevano a riempire i vivai, e si regolava. Ora, addio Riro! E il fischio della nòria da quel giorno in poi, non l’avrebbe più udito…»

Sono poche righe di Pirandello nella novella Il vitalizio. Si possono dire accorate oltre la letteratura, come se Riro fosse suo nella realtà “effettuale”. Più che una bestia un quasi parente. E probabilmente scritte col presentimento che il giovenco, le vecchie mule e soprattutto gli eserciti di “scecchi di senia” sarebbero stati dimenticati, senza un sasso, un sasso solo che ne ricordasse il sacrificio di decine di secoli a far girare alla cieca quell’asta idrica.

Sì, perché oltre che della libertà lo scecco di senia veniva privato della vista, accecato da una benda perché non si ribellasse a quei passi sempre uguali, intorno a quel cerchio che durava per tutto l’orario rurale, da buio a buio, con la monotonia mitigata dallo stridìo angosciato degli ingranaggi del differenziale di legno. Che trasmetteva l’energia da una ruota orizzontale a un’altra verticale con al centro l’asse per far calare vuota e riemergere dal pozzo piena la lunga “cintura” di recipienti di zinco che versavano l’acqua nella gebbia.  Anche Lucignolo, diventato “ciuchino”, muore sotto gli occhi di Pinocchio stremato dallo spasimo di spingere l’asta del bindolo, come si chiama la senia in lingua. Un castigo definitivo che Collodi, avvertito dei decessi degli asini veri, aveva inflitto al somaro-bambino come uno dei più crudi dei quali sapeva.

Noria (foto Giaramidaro)

Noria (foto Giaramidaro)

Insomma, nati per morire in un’arena ingloriosa, uccisi dalla fatica insormontabile; oppure morti di volontaria morte: che ne sappiamo, noi ragionanti, se il cervello dell’asino gira nel senso contrario a quello della nòria, accendendogli un sentire di inutilità, di un andare vano, senza nessun arrivo dove gli occhi possano vedere qualcosa che provochi la soddisfazione del raglio. C’erano pure i somari più forti, ai quali il cuore resisteva ma le zampe non andavano più. Rimanevano fermi sotto la loro condanna. Interveniva, allora, implacabile la tardiva pietà umana che con una “misericordia” di legno e ferro trafiggeva la testa dell’animale impuntato e inutile.

Ora, dopo decenni di cavalli vapore, lo scecco è diventato specie che si vorrebbe proteggere dal terribile usa e getta: si studiano carte dei diritti e statuti etici del somaro. Ma c’è motivo di credere che ormai siano più numerosi gli asinelli del presepio che quelli in carne ed ossa. Bisognerebbe assegnargli il titolo di “bracciante agricolo ad honorem”, dedicargli strade, piazze, statue come quella che c’è a Marsala, città del vino e della campagna, nella quale Salvatore Fiume lo ha scolpito sorridente, scalciante con un barile addosso; insomma, ravvivato da quell’allegria alticcia, risarcitoria e postuma della incommensurabile tristezza dello scecco di senia.

Marsala, fontana di Fiume ( foto  Ingrasciotta)

Marsala, fontana di Fiume ( foto Ingrasciotta)

Si dedicano giornate a tante realtà passate e presenti, anche alle meno immaginabili, ma nessuna all’asino, compagno di sudore dei siciliani più poveri che lavorarono timbrando lo stesso suo cartellino. Per ora, “sceccu di senia” rimane nel lessico popolare ad indicare chi si ammazza di lavoro.

Molti studiosi dicono che il girare dello scecco sotto l’asta della senia si interruppe nei primi decenni dello scorso secolo, ma io ricordo gli orti mazaresi – lungo la riva sinistra del Mazaro, sovrastanti i misteri di Miragliano – con le loro gebbie, piccole o maestose, e gli ortolani che con destrezza di zappa chiudevano e aprivano i canali dove l’acqua scorreva per bagnare i brevi filari di broccoli, melanzane, zucchine (cucuzzeddri), angurie e meloni, e prezzemolo e basilico, sino alle troffe di finocchi e rarici (ravanelli). Raggiere geometricamente disegnate, nelle quali l’acqua riusciva a superare montarozzi e avvallamenti senza mai rinunciare al suo fioco gorgoglio arabo, quasi una lieve melodia, un sussurro di sirene interrate, dolce e ammaliante, struggente nella intermittenza della memoria vecchia. Oppure i verdissimi orti che a ridosso della via La Licata giungevano alla Makara per poi virare verso Santa Maria di Gesù (Santamaragesu). E gli altri lontani di Gorgorosso, con molte gebbie a lungo bombardate e tufi medicatori lasciati senza intonaco.

Un piccolo mondo arabo nella geometria dei filari che sembravano riprodurre ancora figure e simbolismi islamici nei loro saliscendi a emme minuscola; e nel correre di quell’incavo zappato dal quale se ne aprivano altri più stretti – ognuno con nome e cognome della perduta lingua della campagna – per raggiungere le piante in fiduciosa attesa. Sì, tutto venuto con lo sbarco a Quarara dell’Egira che si allargava.

noria

Noria

Nei “giardini di delizia” dove le piante ornamentali, aromatiche e gli alberi da frutto – lumincelle, azzeruoli, sorbi e fichidindia, mandarini e aranci e melograni “cartasi” – intersecavano le casedde dell’orto, gli odori si mischiavano come nell’arte profumiera, e bisognava avvicinarsi agli arabeschi delle piante per sentire la fragranza del gelsomino, o spezzare una foglia alla citronella, cogliere una lumincella dal sapore di un sentimento leggero. E l’acqua scorreva nei solchi, lenta e conturbante, sempre grazie al girare infinito di uno scecco di senia.

Negli anni Settanta ce n’erano tante alle porte posteriori di Tunisi, verso l’antica Kairouan, spinte dall’Equus africanus, cioè dallo scecco cugino di quello siciliano. Più si andava giù, più le “ggebbie” diventavano piccole; e si incontravano cavalli e mule al palo che in terna correvano sopra le spighe: per trebbiare, separare i chicchi dalla paglia, così come a metà del secolo scorso si faceva nel latifondo siciliano. E dopo gli ultimi giardini, la sabbia. Col vibrare basso dello scirocco del deserto: il simun, teso e sabbioso, che a volte viene a morire nell’umidità del Mediterraneo. Viaggiatori recenti dicono che ce ne sono di sopravvissute.

Tunisia (foto Giaramidaro)

Tunisia (foto Giaramidaro)

«Il giardino arabo è un’anticamera del paradiso», scrisse Enrique Sordo, critico letterario e autore di libri di cucina, mentre il Corano lo ritiene “Metafora del paradiso”. E gli odori, i suoni delle acque, le atmosfere dei giardini di delizia siciliani si incontrano nel verde dell’Alhambra, a Granada, regno dei mori per oltre cinquecento anni, di coloro che perfezionarono le agricolture e i giardini persiani e bizantini. Acque fruscianti che avvolgono fra canali, zampilli, gradoni, vasche e fontane; che girano, si inerpicano e poi scendono in un incessante scorrere, come se il corso fosse volto verso il labirinto dell’eternità, tra brusii ora più forti ora più lievi, toccando note dello spartito del sapere botanico e idraulico.

Ma ovunque ci fosse una sorgente che aveva bisogno di artifizi per dare l’acqua, c’era il laborioso asino, quell’animale – dicono esperti di biodiversità zootecnica – capace di provare «affetto per coloro che lo trattano in modo conveniente, sapendo riconoscere il padrone anche da molto lontano». Una fiducia inestinguibile e mal corrisposta, come nei grandi drammi della storia. Per questo se tanti popoli hanno un “passato irrisolto” con altri popoli, noi siciliani – ma anche tanti altri – lo abbiamo con gli asini.

Dialoghi Mediterranei, n.10, novembre 2014

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Nino Giaramidaro, giornalista prima a L’Ora  poi al Giornale di Sicilia – nel quale, per oltre dieci anni, ha fatto il capocronista, ha scritto i corsivi e curato le terze pagine – è anche un attento fotografo documentarista. Ha pubblicato diversi libri fotografici ed è responsabile della Galleria visuale della Libreria del Mare di Palermo. Recentemente ha esposto una selezione delle sue fotografie degli anni sessanta in una mostra dal titolo “Alla rinfusa”.

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