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“Antropologia”: miti e costruzione di una rivista

figura-1di Silvia Barberani, Silvia Vignato

Il ritardo con cui entriamo nel dibattito in corso su Dialoghi Mediterranei in merito alle riviste di antropologia ci offre una posizione comoda perché i temi fondamentali dell’editoria scientifica italiana sono già stati ben esposti e analizzati nei numeri precedenti e a noi non resta dunque che ringraziare DM per l’invito e contribuire alla riflessione situandoci rispetto alle coordinate tracciate. Il panorama fin qui illustrato mostra infatti un notevole fermento culturale su varie scale, dalle iniziative locali alle maggiori istituzioni universitarie. 

La fondazione di un ambiente accademico: il mito dell’Annuario 

La rivista Antropologia, annuario diretto da Ugo Fabietti è nata nel 2001 in seno al Dipartimento di Epistemologia ed Ermeneutica della Formazione, all’Università di Milano-Bicocca, allora di recentissima istituzione, per l’editore Meltemi. Dal 2010 la rivista è passata alla casa editrice Ledizioni. Nel primo decennio degli anni Duemila molte università italiane vivevano un momento di grande consolidamento e sviluppo dell’antropologia: si istituivano nuovi dottorati, i corsi di laurea triennali e magistrali e i corsi di perfezionamento e si cominciava a formare sistematicamente e programmaticamente una nuova generazione di antropologi che non dovevano necessariamente emigrare per completare il percorso di studi. Pienamente partecipe di questo contesto espansivo e fondativo, Ugo Fabietti ha dato vita a una collana di saggi a uscita regolare per analizzare temi salienti della contemporaneità in un’ottica antropologica. Curati da una redazione giovane e appassionata, dal 2001 al 2013 sono così usciti 16 numeri monografici di Antropologia: Possessione, Colonialismo, Corpi, Scuola, Rifugiati, Emozioni, Patrimonio culturale, Sofferenza sociale, Violenza, Giustizia, Nascita, Arte, Storie di vita, Migrazioni e asilo politico, War. Benché sin dall’inizio il nome ufficiale fosse solo Antropologia, come oggi, era conosciuta familiarmente come “l’Annuario”. Ovviamente, data l’epoca, era stampata e venduta in libreria.

Ugo Fabietti

Ugo Fabietti

Numero dopo numero, con l’Annuario si è venuto a costituire un patrimonio di riferimento per la disciplina, allora indispensabile ma anche oggi significativo, come spesso constatiamo nella didattica e nella formazione. Nella redazione attuale, almeno per i suoi componenti di più lunga data, l’Annuario resta comunque un modello rispetto al quale situarsi, il racconto di un mito fondativo. Come anche negli scritti di altri colleghi che evocano i propri esordi editoriali, nel mito dell’Annuario si confondono gli anni di formazione giovanile individuale, il contesto di gran fermento, un certo fascino di “quando non c’era internet” (c’era, ma in nuce) e considerazioni sui propri maestri. Ugo Fabietti è morto nel 2017.  Anche oggi la domanda “Cosa avrebbe detto Ugo?” assume gradualmente la qualità di mantra arcaico. 

figura-2jpegLa Nuova Serie: il mito del numero di articoli liberi 

Al volgere del secondo decennio del XXI secolo, i profondi cambiamenti ormai manifesti nel contesto editoriale nazionale e internazionale, in sintonia con il rivolgimento in atto nelle strutture accademiche e ministeriali italiane, hanno reso indispensabile una svolta anche nel nostro settore. Nel 2014 Antropologia, già insignita di un marchio di classe A ispirato a una visione concorrenziale del mercato accademico, ha intrapreso una trasformazione organizzativa e strutturale che la rinnovasse e la mantenesse, appunto, in quel mercato (un mercato senza denaro, come sappiamo) ma anche la aprisse a una diversa visione del sapere e delle sue forme espressive. Innanzitutto, abbiamo istituito un comitato scientifico internazionale e ampliato la redazione, da allora composta in parti uguali da antropologi di Milano-Bicocca e di altri dipartimenti e contesti universitari. Inoltre, abbiamo messo a punto un sistema di revisione in doppio cieco, o peer review, in aggiunta alla lettura redazionale degli articoli. Abbiamo affiancato il formato digitale a quello cartaceo e compiuto la scelta di rendere tutti gli articoli accessibili gratuitamente online da chiunque, cioè un reale open access. In continuità con il progetto iniziale, abbiamo inoltre convertito in formato digitale tutti gli articoli dei 16 numeri dell’Annuario, ora disponibili gratuitamente sul sito della rivista, nella sezione Archivio.

Così, il nuovo gruppo di lavoro che si è costituito allora sotto la direzione di Fabietti e anima ancora la nostra rivista ha ereditato sì il sapere editoriale dell’Annuario ma ha anche dovuto mettere a punto strumenti capaci di soddisfare i requisiti dell’editoria scientifica internazionale, incoraggiando (per esempio) la pluralità linguistica (su 20 numeri della Nuova Serie, 8 sono in inglese) e adeguandosi, nel bene e nel male, alle regole di trasparenza.

Il cambiamento strutturale si è accompagnato a una riflessione sulla vocazione della nostra pubblicazione. Senza metterne in discussione il carattere scientifico e il forte radicamento etnografico, ci siamo chiesti come coniugare la fedeltà all’ispirazione monografica degli esordi con un approccio aperto alla ricchezza dei contributi spontanei, i cosiddetti “articoli liberi”. L’idea di partenza era di alternare i tradizionali numeri monografici curati da redattori ospiti a volumi interamente costituiti da articoli liberamente inviati, vagliati dalla redazione e in seguito sottoposti a revisione esterna. Di fatto, le difficoltà intrinseche al processo editoriale (tempi di consegna e di revisione esterna, gestione delle comunicazioni, diverso peso delle valutazioni e altri elementi ben descritti da chi ci ha precedute su queste pagine) hanno fatto sì che la doppia aspirazione del progetto iniziale si sia concretizzata nella veste attuale: ogni numero è composto da un nucleo tematico affidato a un curatore ospite ed è seguito da “articoli liberi”, spontaneamente inviati alla rivista da chiunque abbia voglia di pubblicare. A ciò si aggiungono le recensioni di libri.

Gli “articoli liberi” sono problematici, certo. Abbiamo ben chiara la faticosa cura editoriale necessaria a garantire il livello scientifico, espressivo e linguistico di ogni contributo alla rivista e siamo consapevoli che, levando ogni vincolo tematico e il filtro dei curatori, corriamo il rischio di catalizzare proposte irrimediabilmente inadatte alla pubblicazione: articoli appena abbozzati, male argomentati, di discipline lontane dalla nostra, già presentati altrove eccetera. A ogni riunione di redazione, si arriva al momento di chiedere quanti articoli liberi abbiamo e come sono, un momento di scoramento. Eppure fa parte del mito di una rivista di solida ispirazione metodologica ma aperta alla trasformazione: accogliere contributi inaspettati per tematica, approccio e originalità ci sembra necessario a preservare uno spazio di serendipità e agire così “per caso e per sagacia”. 

figura-3Scrivere di antropologia: il mito del lettore non accademico 

Come già osservato in precedenza nel corso di questo dibattito, si leggono poco le riviste scientifiche. Tuttavia, produrre Antropologia all’interno di una comunità scientifica, accademica, studentesca o di altra natura, mantiene ai nostri occhi un suo senso per sé.

Innanzitutto contribuisce a costruire un sapere comune e relazionale oltre i conflitti e le fratture che inevitabilmente affliggono gli ambienti di lavoro accademico. All’interno della redazione infatti si incontrano e si confrontano colleghi di orizzonti, generazioni e istituzioni diverse, inclusi antropologi in formazione provenienti dalle scuole di dottorato. Il ruolo di costruzione di comunità della rivista evidentemente travalica il gruppo di lavoro interno. Ogni numero si fonda su uno scambio proficuo (così ci sembra) fra la redazione e gli autori e i curatori lungo tutto il processo di realizzazione editoriale.  La redazione invita i guest editor a presentare e discutere in un incontro preliminare le loro proposte di numeri speciali; poi, i redattori a cui è affidato il numero affiancano i curatori nel processo di costruzione. Inoltre, numero per numero, i responsabili di redazione forniscono suggerimenti agli autori di articoli liberi un po’ problematici per migliorare il testo prima di sottoporlo, se accettato, a revisori esterni. Insomma, “passare” per Antropologia non significa solo scrivere una cosa e spedirla ma fare parte di una rete.

Tuttavia, resta l’interrogativo sul senso di scrivere e pubblicare dal momento che pochi leggono. Per chi scriviamo? Esiste dunque un lettore oltre al collega con cui si cura il numero e al valutatore del concorso a cui partecipiamo?

Certo, ci sono gli studenti che, per scelta o per forza, leggono, come mostrano i picchi delle statistiche relative alla consultazione degli articoli della rivista in prossimità delle date d’esame, ma stiamo ancora restando in ambito universitario. Diversamente, ci sembra che il nostro lavoro acquisisca un senso perché ciò che si scrive e si pubblica circola anche intorno e accanto al mondo accademico in modi che non sono riconducibili alla contabilità del numero di visualizzazioni di un articolo. La scrittura, come già osservato nel corso degli interventi in questo dibattito, non è solo il risultato di una riflessione e di un approfondimento ma, quasi sempre, ne è anche la condizione. Chi ha scritto un articolo scientifico insegnerà, parlerà, sarà presente su social media e in pubblici incontri facendo tesoro di un nuovo sapere che contribuirà a diffondere.

Il leggendario “lettore non accademico” quindi ci sembra che possa essere raggiunto in modo indiretto senza per forza essere designato come destinatario ideale della nostra produzione scientifica. È un mito ambiguo: la figura dell’innocente assetato di sapere che, tuttavia, non conosce il linguaggio dell’iniziato. 

cover_3dDipendenza economica e indipendenza intellettuale: il mito della purezza 

I contributi al dibattito sulle riviste italiane di antropologia ci hanno fornito l’occasione di confrontare le loro diverse collocazioni all’interno di università, altre istituzioni o forme associative. Antropologia è proprietà di un’associazione, con direttori e redattori incardinati in varie istituzioni, una sede in un ateneo e un piccolo finanziamento da parte di uno specifico dipartimento. In molti sensi, possiamo considerarci liberi di fare ciò che riteniamo più opportuno ma anche totalmente sottomessi all’aleatorietà delle scelte di un dipartimento.

Il nostro status attuale risulta da una concatenazione di eventi imponderabili. Alla morte del fondatore, ispiratore e direttore Ugo Fabietti, infatti, la redazione si è chiesta come continuarne il progetto e ha deciso, da un lato, di modificare lo statuto e di condividere la responsabilità della direzione fra 5 membri strutturati afferenti a diversi dipartimenti e Università (Bicocca e Statale); dall’altro, di costituire un’associazione culturale (Associazione Culturale Antropologia Open Access) il cui unico scopo fosse permettere la continuità del progetto editoriale, assumendone la proprietà. Il Dipartimento di Scienze Umane per la Formazione “R. Massa” e alcuni fondi di ricerca hanno continuato a contribuire economicamente alla vita della rivista.

Questo statuto ci conferisce indipendenza intellettuale e al contempo incertezza esistenziale. Abbiamo come si diceva un modesto finanziamento ma restiamo una rivista di proprietà di una piccola associazione e basata sul lavoro non remunerato di molte persone eterogenee. La dedizione e l’impegno profusi in questi anni da chi ha lavorato ad Antropologia attraverso le sue fasi critiche sono stati fondamentali.  Se la nuova direzione è stata scelta fra strutturati per assicurare stabilità, il lavoro redazionale è stato ed è tuttora curato in grande misura anche da precari.

Questo impegno collettivo è determinante nelle scelte editoriali fondamentali così come nella fabbricazione di ogni singolo numero. Nella commistione di finanziamenti diretti e forza-lavoro a volte liberamente donata dai precari, in altri casi indirettamente finanziata dai datori di lavoro istituzionali degli strutturati, nell’impurità dunque della relazione produttiva risiede per noi la possibilità di pensiero libero.  

ultimoIl futuro 

Per venire infine al futuro delle riviste italiane di antropologia dunque, al nostro futuro, vorremmo riprendere alcuni interrogativi esposti da Fabio Dei nel numero 61 di DM. Dei riflette su come conciliare la standardizzazione dei testi scientifici richiesta dal mercato accademico ed editoriale con la vocazione primaria delle riviste a farsi luogo di espressione di idee e stimoli originali. Al netto del racconto storico e culturale che abbiamo già dettagliato, raccogliamo uno dei numerosi spunti di Dei e già inaugurato proprio da questo dibattito su DM: la necessità di istituire una rete di coordinamento tra le riviste italiane di antropologia.

All’interno del nostro gruppo variegato ci siamo posti più volte la domanda sull’opportunità di usare nuove forme di comunicazione che travalichino la pagina scritta e digitalizzata o stampata e per esempio, in un numero abbiamo raccolto la sfida metodologica ed editoriale posta da una realizzazione in parte multimediale (Antropologia 9, 3 2022). È stata un’impresa ricca e interessante ma sperimentazioni più articolate e di lunga durata stanno avvenendo su altre riviste con maggiore esperienza e competenza in materia. Accogliamo dunque con entusiasmo la proposta di un coordinamento tra riviste dove si possano scambiare le esperienze, per esempio di questo tipo ma non solo, ed esserci reciprocamente di ispirazione. Variando e ampliando i piani dello scambio, sarebbe auspicabile anche affrontare insieme questioni sia di ordine tecnico amministrativo (standard per concorsi, valutazioni di contributi quali recensioni o curatele) sia di ordine più fondamentale (relazione fra noi e ANVUR, collaborazioni su temi specifici ecc.).

In chiusura, proponiamo di sfruttare un simile consesso per porre un interrogativo sull’esistenza di voci autorevoli in antropologia. Su queste pagine, molti di noi hanno evocato anche con una certa nostalgia la pratica redazionale in passato ampiamente diffusa di prendere un testo esemplare per la scena antropologica internazionale e suscitare commenti. Però, se oggi dovessimo scegliere un testo, un autore, un’idea da commentare, chi sceglieremmo? Chi sono gli autori, le autrici, lə autorə che considereremmo influenti? E… ha senso chiederselo? 

Dialoghi Mediterranei, n. 63, settembre 2023  
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Silvia Barberani insegna Antropologia della contemporaneità e Antropologia del turismo all’Università di Milano-Bicocca. Ha recentemente pubblicato:.Antropologia e turismo: scambi e complicità culturali nell’area mediterranea. Milano, Torrossa, 2006 
Silvia Vignato insegna antropologia della contemporaneità e antropologia dell’Asia all’Università di Milano-Bicocca, dove è presidente del CdL in Scienze antropologiche ed etnologiche. Le sue pubblicazioni recenti: Dreams of Prosperity: Inequality and Integration in Southeast Asia, Chiang Mai, Silkworm, 2018; Searching for Work: Small-scale Mobility and Unskilled Labor in Southeast Asia, Chiang Mai, Silkworm, 2019; Le figlie delle catastrofi. Etnografia della crescita nella ricostruzione di Aceh (Milano, Ledizioni, 2020); con Monika Arnez (ed.) Worlding Sites and Their Ambiguity. European Journal of East Asian Studies21(2), 129-141, 2022. Film: Rezeki. Gold and stone mining in Aceh (2016; a disposizione in streaming al link https://youtu.be/lXWRMK863VE) e Aceh, After (2020).

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