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Ali Douagi: attualità sociopolitica di un autore tunisino “marginale”

Ali Douagi

Ali Douagi

  di Michele Marangon

Era un tiepido pomeriggio del novembre 2011, e in Tunisia la prima libera sfida elettorale, dopo la rivoluzione del 14 gennaio, aveva appena sancito la vittoria di an-Nahḍa, movimento politico che – ispirandosi esplicitamente al turco AKP – si presentava all’opinione pubblica come partito islamico moderato. Mosso dagli echi di una polemica che, da qualche tempo, aveva destato la mia curiosità, avevo scelto di acquistare una raccolta delle novelle di Ali Douagi (o ‘Alī ad-Dū‘āǧī [1]), intitolata Sahirtu minhu al-layālī (“Ho vegliato le notti per lui”), dopo aver lungamente esplorato gli scaffali di una deserta libreria di Tunisi. La controversia era scaturita a partire da alcune dichiarazioni rilasciate nel 2006 da Moncef Ben Salem (al-Munṣif Ibn Sālim, 1953-2015), illustre matematico ed esponente di an-Nahḍa. Nel 2011, quando costui era stato indicato dal suo partito come candidato alla carica di Ministro dell’Insegnamento Superiore, tali affermazioni – che riguardavano proprio Ali Douagi – avevano suscitato vivaci reazioni da parte di numerosi intellettuali tunisini. Nel contesto di un’intervista rilasciata al sito web indipendente Nawaat (http://nawaat.org/), era stato chiesto a Ben Salem se, durante il regime di Zine El-Abidine Ben Ali, il peggioramento della qualità dell’insegnamento, nell’ambito della scuola pubblica tunisina, fosse – a suo avviso – dovuto ad una precisa volontà politica. Egli aveva risposto nei seguenti termini:

«In effetti, l’intervento politico è chiaro ed evidente, in particolare per quanto concerne le materie letterarie. Esiste un testo di Ali Douagi che viene proposto al quinto anno della Scuola Primaria, all’ottavo anno Preparatorio e al terzo anno della Scuola Secondaria. Perché affrontare lo stesso brano in tre differenti livelli [del percorso scolastico]? Perché si prende gioco della religione. Questo testo schernisce un uomo che insegna il Corano e percepisce un contributo finanziario da parte dei suoi alunni. Chi è questo Ali Douagi? Faceva parte del gruppo Taḥta as-Sūr: degli ubriaconi che sgozzavano gatti per mangiarli e raccoglievano mozziconi di sigaretta […]. Ali Douagi ha ricevuto un’onorificenza culturale durante l’era del 7 novembre, al più alto livello del potere. Vergogna ad una Tunisia che decora i vagabondi e gli idioti, ignorando gli scienziati! Io non ho beneficiato di alcuna onorificenza, al contrario di questo Ali Douagi!» [2].

Mi sembra opportuno, a questo punto, fornire qualche informazione a proposito di Ali Douagi, dato che in Italia – come già abbiamo letto in un articolo di Bianca Cusumano [3] – costui è noto perlopiù ad un pubblico di specialisti. D’altra parte, nemmeno in Tunisia – malgrado la martellante riproposizione tra i banchi di scuola del brano citato da Moncef Ben Salem – l’autore gode della fama che probabilmente meriterebbe [4]: anche per questo motivo è stato soprannominato dai critici le Marginal tunisien. Nato nel 1909 in seno ad una famiglia borghese di origine turca, e rimasto orfano di padre in tenera età, Ali Douagi non conseguì nemmeno la licenza elementare, pare a causa della sua natura ribelle. Nondimeno si appassionò alla lettura, divorando classici della letteratura araba ed europea. Sebbene potesse concedersi una vita spensierata, grazie alle rendite derivanti dalle proprietà fondiarie ereditate dal padre, egli lavorò per un breve periodo come apprendista presso un tessitore. Già a partire dagli anni dell’adolescenza, iniziò a scrivere testi di canzoni umoristiche e a disegnare caricature. Successivamente si unì alla cerchia letteraria denominata Taḥta as-Sūr (“Sotto le mura”, dal nome di un caffè di Bab Souika / Bāb as-Suwayqa, nella medina di Tunisi), che riuniva i maggiori letterati ed artisti dell’epoca, dal poeta Abou el Kacem Chebbi (’Abū l-Qāsim aš-Šābbī, 1909-1934) al musicista Hédi Jouini (al-Hādī al-Ǧuwīnī, 1909-1990), e che costituì la base della rinascita culturale e politica tunisina nel periodo tra le due Guerre.

Moncef Ben Salem

Moncef Ben Salem

Ali Douagi collaborò con diverse riviste letterarie, pubblicando articoli, traduzioni, novelle, pièces teatrali e vignette caricaturali; quindi, nel 1936, fondò – insieme all’amico Hédi Laâbidi (al-Hādī al-‘Abīdī) – la rivista umoristica as-Surūr. Affiliato all’istituto musicale de La Rachidia (al-Ma‘had ar-Rašīdī lil-Mūsīqā at-Tūnusiyya), egli compose inoltre testi, e talvolta anche melodie, per alcuni celebri cantanti. La sua vita privata fu caratterizzata da trasgressioni ed eccessi; pare sia proprio questa la ragione per cui alle sue esequie – morì per tubercolosi nel 1949 – partecipò soltanto una dozzina di persone [5].
Ma ritorniamo ora alla raccolta di Ali Douagi, pubblicata postuma nel 1969 a cura di Ezzedine Madani, focalizzando la nostra attenzione sulla novella bersagliata dagli strali scoccati da Moncef Ben Salem. Il significato del suo titolo, ’A min taḏakkur ǧīrān biḏī sullam, che si potrebbe tradurre con “[Qualcuno] ricorda ancora i vicini di quello della scala?”, può essere compreso appieno solamente attraverso una completa lettura del testo. L’autore inizia il racconto dipingendoci il ritratto di un insegnante (mu’addib) di una scuola coranica (kuttāb), a cui si accede tramite una scala esterna. Dobbiamo quindi attribuire a questo mu’addib l’allusivo nomignolo di ḏū sullam, (“quello della scala”): egli è «un uomo buono, ma molto severo; timoroso di Dio, ma avaro» [6]. Essendo vedovo, il maestro sposa una vicina, a sua volta vedova e madre di due bambini: pare dunque che una seconda allusione contenuta nel titolo della novella debba essere riferita a lei e ai suoi figli. Il mu’addib, precisa Ali Douagi, non ha che «un difetto, o – per meglio dire – una debolezza: l’amore per la raccolta del denaro» [7]. Questo tratto – avverte il narratore – lungi dallo smentire il suo zelo religioso, ne rappresenta invece una conferma: l’insegnante ritiene infatti che la pietà non possa essere messa in pratica se non mediante i beni terreni. Il giorno precedente la festività del Mouled (‘Īd al-Mawlid, anniversario della nascita del Profeta), i bimbi del kuttāb stanno cantando alcuni tipici inni religiosi. Cantano con entusiasmo, poiché sanno che, alla vigilia della festa, giungerà il funzionario (mufarriq) responsabile delle fondazioni pie (awqāf, sing. waqf [8]) per distribuire ad ognuno di loro la somma di mezzo riyāl : al momento dell’arrivo del munifico ospite, le loro voci si levano «sulla scala musicale armonizzandosi ai passi del mufarriq sulla scala del kuttāb» [9]. Una volta partito il funzionario, però, il mu’addib sottopone i fanciulli ad un rigoroso esame, interrogandoli sui versetti coranici studiati, ed eventualmente multandoli in caso di errori o imprecisioni. Sanzioni cospicue vengono però di norma attribuite soltanto ai figli dei benestanti. I genitori degli alunni, peraltro, non manifestano alcuna contrarietà nei confronti di tale metodo, poiché ai loro occhi esso conferma la solerzia e la serietà per le quali è noto il mu’addib. L’esame – spiega la voce narrante che si esprime in prima persona, come se si trattasse delle rimembranze di uno dei bimbi del kuttāb [10] – viene svolto in occasione del Mouled anche perché gli allievi beneficiano di una settimana di vacanze scolastiche, e dispongono perciò di più tempo per concentrarsi sullo studio del Corano.

Questo è lo scenario in cui si colloca il fulcro del racconto, il cui vero protagonista è Ibrāhīm, un bambino povero, assai intelligente ma timido, il quale dimostra incertezza nel recitare i versetti memorizzati, temendo i rimproveri del mu’addib e i colpi del suo bastone. Per questa sua emotività viene multato e costretto a cedere all’insegnante la quasi totalità della somma ricevuta dal funzionario. Al poveretto non restano che «ǧūz ṣūrdī» (“due soldi”) [11], con i quali non potrà aggiungere né smen [12] né miele alla sua ‘aṣīda [13]. Ibrāhīm, dunque, rientra a casa in lacrime. Ma Aḥmad, uno dei due figli nati dal precedente matrimonio della moglie del mu’addib, corre a raccontare alla madre ciò che è successo; ed ella, consapevole delle ristrettezze a cui debbono far fronte Ibrāhīm e suo padre, decide di sottrarre di nascosto al marito cinque riyāl per donarli allo sventurato fanciullo. Quest’ultimo, il giorno seguente, giunge al kuttāb – ove si sono riuniti gli alunni per festeggiare insieme il Mouled e condividere una sontuosa colazione – recando un piatto colmo di prelibatezze che lascia tutti i bambini a bocca aperta.

Ali Douagi effigiato in francobollo

Ali Douagi effigiato in francobollo

Il racconto si conclude con la vivida descrizione di una scena ambientata in un cimitero, molti anni più tardi, sempre nel giorno del Mouled. Un uomo ricco, elegantemente abbigliato, sta seduto accanto ad una tomba, recitando uno di quegli inni che un tempo erano soliti cantare i ragazzini del kuttāb, e versa di tanto in tanto una lacrima. «La tomba – ci viene spiegato – è di colei che aveva rubato i cinque riyāl – Dio ne abbia misericordia e la perdoni. E l’uomo che non ha smesso di piangerla da trent’anni… È Ibrāhīm» [14]. Appare chiaro, a questo punto, chi sia a ricordare ancora i vicini di quello della scala.

Ad un’attenta lettura, dunque, l’attacco sferrato da Moncef Ben Salem, nell’intervista che abbiamo precedentemente citato, appare difficilmente sostenibile: emerge infatti dalla narrazione una dimensione etica che non si può certo definire offensiva o denigratoria nei confronti dell’insegnante o della religione islamica. Il mu’addib non è responsabile del fallimento del fanciullo all’esame, né si può affermare che la sua avidità sia connessa a brame di arricchimento personale: abbiamo già notato come Ali Douagi, nel delineare la personalità del docente, ponga in particolare evidenza la sua volontà di compiere opere pie, il che implica necessariamente – dal suo punto di vista – l’utilizzo del denaro. Il mu’addib non è un corrotto, né la sua buona fede viene disconosciuta. Alla sanzione che egli infligge a Ibrāhīm – sebbene insopportabile per gli alunni – viene attribuito un intento essenzialmente didattico. Le lacrime di Ibrāhīm, d’altra parte, non derivano dalla coscienza di aver perduto un’occasione per alleviare temporaneamente le proprie difficoltà economiche, ma dalla vergogna di non essere in grado di partecipare, nel giorno della festa, all’agape organizzata dalla piccola comunità a cui egli sente di appartenere. Il fanciullo si dispera poiché sa di non essere in grado di soddisfare un’esigenza che ha un carattere eminentemente religioso, se si considera la religione in quanto componente essenziale della dimensione sociale ed identitaria di una collettività. Tale bisogno, d’altronde, trova risposta nel dono offerto a Ibrāhīm dalla moglie del mu’addib: un atto che, pur conseguente al furto dei cinque riyāl – da condannare in quanto “peccato” – costituisce, nel caso specifico, un gesto di genuina pietas.

Il finale del racconto sembra suggerirci che l’indebita appropriazione del denaro da parte della donna ha consentito ad Ibrāhīm di acquistare maggiore fiducia in se stesso e nel mondo circostante, tanto da renderlo capace di poter pervenire, in età adulta, ad una condizione agiata, presumibilmente sfruttando la vivace intelligenza che lo caratterizzava fin da bambino. Appare plausibile cogliere un riferimento autobiografico nell’umiliazione a cui viene sottoposto il piccolo Ibrahim: Ali Douagi, rievocando le negative esperienze scolastiche vissute durante la sua infanzia, intendeva forse criticare le metodologie didattiche proprie di un sistema educativo che non teneva in alcun conto le problematiche connesse al fenomeno dell’innalzamento del filtro affettivo da parte dei discenti [15], spesso cagionato da atteggiamenti di eccessiva severità dimostrati dagli insegnanti. In ogni caso, benché sia effettivamente possibile leggere nella vicenda l’implicita deprecazione di certi orientamenti pedissequi e bigotti nell’interpretare i precetti musulmani, non trova, d’altro canto, alcun fondamento l’accusa di Ben Salem che grida contro la presunta irrisione della figura dell’insegnante di scuola coranica e quindi della religione.

 Un vicolo della medina di Tunisi (foto Marangon)

Un vicolo della medina di Tunisi (foto Marangon)

Nel rappresentare l’offerta del denaro da parte della moglie del mu’addib come gesto di solidarietà nei confronti di una famiglia bisognosa, si denunciano contemporaneamente le miserevoli condizioni in cui versavano i ceti più poveri della popolazione tunisina durante il protettorato francese. L’engagement di Ali Douagi costituisce una caratteristica saliente della sua produzione narrativa, e corrisponde ad una velata espressione del suo patriottismo, confermato dalla sua frequentazione del già citato gruppo di artisti e letterati denominato Taḥta as-Sūr. Ritroviamo espressa questa sensibilità verso le condizioni degli indigenti in altre novelle della raccolta Sahirtu minhu al-layālī, tra le quali spiccano Kanz al-fuqarā’ (“Il tesoro dei poveri”) e ar-Rukn an-nayyir (“L’angolo luminoso”). In quest’ultimo racconto, incontriamo, tra i vicoli della medina di Tunisi, due giovani e squattrinati intellettuali, editori di una rivista letteraria indipendente, i quali, impietositi dalle lacrime di un vecchio che non può permettersi di acquistare un agnello per la Festa del Sacrificio (‘Īd al-’Aḍḥā), lo indirizzano – munendolo di un’apposita lettera di presentazione – presso una facoltosa cantante, che è peraltro oggetto delle loro più aspre critiche. Il dolore dell’uomo deriva principalmente dal cruccio di non poter offrire ai suoi tre figlioletti un animale con cui giocare durante i giorni precedenti la festività [16]. Come nella novella precedente, di fronte alla rappresentazione del pianto di bambini indigenti – provocato dall’impossibilità di soddisfare un bisogno di natura socio-religiosa – interviene una donna, compiendo un gesto imprevedibile: l’artista, commossa dalla preghiera del vecchio, provvede senza esitare ad esaudire la richiesta, accantonando ogni rancore nei confronti dei due giornalisti. Il poveretto ritorna infine presso costoro per comunicare il buon esito della vicenda ed esprimere la sua gratitudine. Senonché, colui che – tra i due – è il direttore della rivista, con parole che potrebbero scaturire dalle labbra di un mistico, replica:

«Non ringraziarmi per nulla: il ringraziamento va soltanto a Dio, il quale ha consentito che permanesse nel cuore di quella soubrette [17] un angolo candido, immacolato, illuminato dalla luce della compassione. Egli è Colui che fa splendere le luci, e ne moltiplica l’irradiamento» [18].

La miseria si propone ancora come tema principale nella novella Kanz al-fuqarā’, traduzione araba di un omonimo racconto di Gabriele D’Annunzio (Il tesoro dei poveri), contenuto nel volume Parabole e novelle [19]. Per la stesura dell’intera raccolta, D’Annunzio si era ispirato al patrimonio delle tradizioni popolari, trascrivendo leggende contadine abruzzesi, fino ad allora tramandate oralmente. Queste radici erano forse ignote al nostro autore tunisino, il quale traduce la frase introduttiva della versione dannunziana: «Racconta un poeta:[...]» [20] con ’Anṣitū ’ilā aš-šā‘ir (“Ascoltate il poeta”). Sarebbe tuttavia azzardato dedurre che tale scelta interpretativa dell’incipit – nonché, più in generale, la decisione di tradurre in arabo questo brano – corrisponda ad un intenzionale omaggio al “Vate”, dal momento che non siamo in grado di ricostruire i canali attraverso cui il testo pervenne ad Ali Douagi, né ci risulta che egli fosse particolarmente influenzato da letture dannunziane. Dal nostro punto di vista, confrontando Kanz al-fuqarā’ con la produzione originale dello scrittore tunisino, ci sembra più coerente ritenere che lo stimolo a tradurre la novella possa essere derivato dalla tematica trattata, dalla melanconica atmosfera che la pervade e dall’amara frase che la conclude, rivelando al lettore che il tesoro dei poveri non è che wahm, illusione.
In queste commoventi narrazioni – dove sovente i protagonisti sono diseredati ai margini della collettività – è riscontrabile una tensione etica che si può cogliere anche nella produzione satirica di Ali Douagi, genere che più di ogni altro lo ha reso celebre tra i critici letterari. L’autore si accanisce particolarmente nello schernire quella piccola e media borghesia tunisina che dimostra un’adesione – tanto supina quanto goffa – al modus vivendi imposto dall’egemonia europea, rinnegando la propria identità culturale araba. Emblematica, da questo punto di vista, è la novella intitolata ‘Alā šāṭī’ Ḥammām al-’Anf (“Sulla spiaggia di Ḥammām al-’Anf”): la vicenda, narrata dal protagonista in prima persona, prende avvio con la descrizione del viaggio verso una nota località balneare a sud di Tunisi, ancora oggi indicata da mappe e segnaletica con il toponimo – storpiato dai colonizzatori francesi – di Hammam Lif. In treno, il protagonista viene infastidito dalla presenza di una donna«dal peso assai considerevole» [21] e di suo figlio, altrettanto grasso ed insopportabilmente capriccioso. Il bimbo urla, come se stesse piangendo, ma non versa le lacrime che abbiamo visto riempire gli occhi di Ibrāhīm: sono solamente grida, ed esprimono un’insoddisfazione che non può essere colmata né dal cibo, né dai giocattoli offerti al fanciullo dagli altri viaggiatori, esasperati dal chiasso. Quindi il protagonista cambia carrozza, imbattendosi in una coppia di innamorati, «ovvero quelli che noi chiamiamo, nella nostra lingua classica, Romeo e Giulietta» [22]: lui è arabo e lei è un’immigrata siciliana. Parlano sottovoce, forse perché coscienti del fatto che il loro è un rapporto clandestino, osteggiato dalle rispettive famiglie e comunità: ciò, almeno, può ipotizzare l’osservatore, interpretando la loro enfatica gestualità. Non essendo in grado di tollerare nemmeno la compagnia dei due amanti, il protagonista conclude il viaggio seduto su una scaletta esterna del treno, sforzandosi di contare gli innumerevoli pilastri del telegrafo posti lungo la ferrovia: la sua scelta rappresenta chiaramente il rifiuto di adeguarsi alla società tunisina europeizzata, caratterizzata da nevrosi ed insostenibili contraddizioni.

Veduta della spiaggia di Hammam el-Anf (foto Marangon)

Veduta della spiaggia di Hammam el-Anf (foto Marangon)

Tale malessere viene posto in evidenza anche nella descrizione dei bagnanti, i quali trascorrono la loro giornata tra il calore dell’afosa spiaggia soleggiata e il freddo eccessivo dell’acqua marina, al fine esclusivo di riconoscersi fra l’élite degli “interni” (rimarcabile qui è l’uso del termine ’antīrn, trascrizione araba dell’aggettivo francese internes), in opposizione agli ’ikstirn (cfr. francese externes), ossia coloro che non possono permettersi più di una fugace mezz’ora di balneazione. Le figure seminude dei bagnanti contrastano con i profili delle cosiddette “lenzuola bianche”: «creature che seguono la tradizione delle loro nonne nel coprire i loro soffici corpi con queste lenzuola, ma seguono la moda contemporanea nel recarsi alla spiaggia» [23]. Una di esse, all’improvviso, si distrae, scoprendo il suo bel volto; ma subito si affretta a nasconderlo nuovamente, «dopo aver elettrizzato i corpi di quattro giovanotti […] che la stavano osservando da mezz’ora» [24]. Balza immediatamente all’occhio un possibile confronto tra queste ragazze tunisine che frequentano la spiaggia indossando il safsārī [25] ed il grottesco ritratto di un contadino turco occidentalizzato, abbozzato da Ali Douagi già nell’opera giovanile Ǧawla bayna ḥānāt al-baḥr al-mutawassiṭ [26]. Già in quelle pagine, peraltro, l’autore irrideva l’occidentalizzazione della Turchia, innaturale ed incompleta, affermando che le riforme di Kemal Atatürk l’avevano trasformata in uno «stato moderno, forte e […] comico» [27].

Con approccio libero da pregiudizi, quindi, sarebbe auspicabile estendere la disamina dell’intera produzione di Ali Douagi, evidenziando tutte le sfaccettature della personalità di questo scrittore fuori dagli schemi, che sa divertire il lettore con il suo mordace sarcasmo, ma che – al tempo stesso – lo commuove con una profonda umanità, non di rado permeata da un sincero spirito religioso. In seguito alla sua morte, la nuova ideologia repubblicana, nazionalista e comunque europeizzante – sviluppata nella seconda metà del Novecento dall’intellighenzia dei regimi di Habib Bourguiba e Zine El-Abidine Ben Ali – ha voluto trasformare Ali Douagi in alfiere della nuova Tunisia laicista e femminista. Riguardo a questo secondo aspetto, non a caso, il titolo del racconto Sahirtu minhu al-layālī – l’unico, in verità, a trattare la scottante tematica della violenza domestica sulle donne – fu scelto dal già menzionato Ezzedine Madani per battezzare l’intera raccolta postuma dell’autore. Nelle scuole tunisine, come già abbiamo appreso dall’intervista a Moncef Ben Salem da cui siamo partiti, il solo brano di Ali Douagi proposto agli studenti – per ben tre volte nel percorso d’istruzione – risulta essere quel ’A min taḏakkur ǧīrān biḏī sullam che già abbiamo analizzato. Ci appare verosimile l’ipotesi che esso sia stato e sia tuttora presentato da non pochi insegnanti in chiave laicista, snaturandone il senso. Non si spiegherebbero, altrimenti, né l’attacco sferrato dall’esponente di an-Nahḍa nel 2006, né – soprattutto – successivamente alla rivoluzione del 2011, le reazioni in merito che taluni docenti e giornalisti tunisini hanno espresso, volte a difendere un principio astratto, ovvero la legittimità d’inserire nelle programmazioni scolastiche lo studio di autori atei o dalla condotta riprovevole dal punto di vista religioso.

Sono stati in tal senso citati, associandoli arbitrariamente a Ali Douagi, i trasgressivi o miscredenti Baudelaire, Nietzsche, Sartre, etc., nel contesto della letteratura europea, ma anche Abū Nuwās, Abū al-‘Alā al-Ma‘arrī e ‘Omar Ibn Abī Rabī‘, tra gli astri della poesia araba medievale [28]. Sarebbe stato opportuno, piuttosto, smentire Moncef Ben Salem dimostrando, mediante l’analisi del testo, che la sua interpretazione della novella era alterata e tendenziosa. E sarebbe stato politicamente conveniente dare ulteriore risalto – tramite l’opera di un talentuoso scrittore, annoverabile tra gli ispiratori del più autentico Risorgimento del popolo tunisino [29] – alla pluralità dei volti di un Islam che, dai suoi primordi fino a tutto il secolo XX, non ha certo trovato il suo fulcro nell’oscurantismo, nell’intolleranza e nel fanatismo. Al contrario, una dogmatica, aprioristica ed autoreferenziale difesa del laicismo – assunta da molti intellettuali della Tunisia contemporanea – ha soltanto incrementato l’abissale voragine che, già da diversi decenni, li ha progressivamente separati dalle masse diseredate, alle quali nulla più è rimasto se non l’illusione, il tesoro dei poveri.

Dialoghi Mediterranei, n.18, marzo 2016
Note
[1] Nel contesto del presente contributo, la traslitterazione dall’Arabo si attiene allo standard DIN 31635. Tuttavia essa, per quanto riguarda i nomi propri, è stata soltanto indicata tra parentesi,  considerando il fatto che la trascrizione basata su un modello d’ispirazione francofona è sentita – in Tunisia – come una versione parallela, ma altrettanto ufficiale, dei nomi scritti utilizzando l’alfabeto arabo.
[2] http://nawaat.org/portail/2006/05/01/2-entrevue-avec-le-professeur-moncef-ben-salem/
[3] In Dialoghi Mediterranei n° 6 del marzo 2014: http://www.istitutoeuroarabo.it/DM/voci-mediterranee-cosi-vicine-cosi-lontane/
[4] Per il lettore in grado di comprendere la variante dialettale tunisina dell’Arabo, può risultare  interessante la visione di questo breve documentario: https://www.youtube.com/watch?v=g3Nh0fQi-x4
[5] Questi cenni biografici sull’autore sono tratti dal sito http://chkoun.overblog.com/ali-douagi-1909-1949
[6] ad-Dū‘āǧī ,1996: 43.
[7] Ivi.
[8] Per una definizione dell’istituzione giuridica del waqf nel diritto islamico, cfr. ad es. Schacht, 1995: 134-135 e passim.
[9]  ad-Dū‘āǧī, 1996: 44.
[10] L’uso del discorso indiretto libero venne forse mutuato da Flaubert, un autore che – a quanto ci risulta – esercitò una forte influenza su Ali Douagi.
[11] Interessante italianismo ancora attestabile ai nostri giorni nelle campagne della Tunisia settentrionale.
[12] Burro chiarificato (samn).
[13] Crema a base di farina e acqua che viene tuttora preparata tradizionalmente per la festività del Mouled.
[14] ad-Dū‘āǧī, 1996: 47.
[15] Per una definizione di “filtro affettivo”, cfr. Krashen, S.D., 1982: 30-32 e passim.
[16] Una consuetudine, questa, ancora assai diffusa nella Tunisia odierna.
[17] Traduco qui con un francesismo il termine qayna, che in Arabo classico indica una “schiava cantante”.
[18] ad-Dū‘āǧī, 1996: 42.
[19] D’Annunzio G., 1916. La prima pubblicazione della novella risale al 22 dicembre 1887 ne «La Tribuna», rubrica Favole di Natale, testo siglato dal Duca Minimo (cfr. http://www.docsity.com/it/g__dannunzio_il_tesoro_dei_poveri/541219/).
[20] ad-Dū‘āǧī ,1996: 3.
[21] Ibidem: 12.
[22] Ivi. Non è da trascurare la portata di questa fugace provocazione di Ali Douagi: sottolineando il fatto che il riferimento agli “europei” Romeo e Giulietta sia divenuto ormai corrente nel contesto della lingua e della cultura popolare tunisina, l’autore pone implicitamente in evidenza la desuetudine di modelli analoghi appartenenti al patrimonio letterario arabo classico, ovvero le coppie di amanti rese celebri dalla cosiddetta poesia ‘uḏrita (Ǧamīl e Buṯayna, Maǧnūn e Laylā, etc.) – cfr. ad es. Amaldi, 2004: 63-64.
[23] ad-Dū‘āǧī, 1996: 15.
[24] Ivi.
[25] Abito tradizionale femminile costituito da un lungo velo bianco (cfr. ad. es. https://fr.wikipedia.org/wiki/Sefseri).
[26] Cfr. Camera D’Afflitto, 1998: 211.
[27] Ivi.
[28] Cfr. http://nawaat.org/portail/2011/05/03/le-professeur-moncef-ben-salem-ministre-de-lenseignement-public/
[29] Si noti che lo sviluppo delle correnti letterarie e artistiche che furono alla base della rinascita della lingua e dell’identità araba tra i secoli XIX e XX, offrendo un necessario fondamento culturale ai movimenti politici che aspiravano all’indipendenza dai vari “protettorati” europei, è generalmente noto con l’appellativo di an-Nahḍa al-‘arabiyya.
Riferimenti bibliografici
Amaldi  D., (2004), Storia della letteratura araba classica, Bologna: Zanichelli.
Camera D’Afflitto  I., (1998), Letteratura araba contemporanea, Roma: Carocci.
D’Annunzio G., (1916), Parabole e novelle, Napoli: Bideri.
ad-Dū‘āǧī ‘A., (1996), Sahirtu minhu al-layālī, Tūnus: Sirās lin-Našr (Tunis: Editions Cérès).
Krashen S.D., (1982), Principles and Practise in Second Language Acquisition, Oxford: Pergamon.
Schacht J., (1995), Introduzione al diritto musulmano, Torino: Fondazione Giovanni Agnelli. 
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Michele Marangon, laureato con lode a Ca’ Foscari in Lingua e Letteratura Araba, è docente di Arabo presso l’Istituto Scolastico Italiano «G. B. Hodierna» di Tunisi. Specializzato anche in Didattica dell’Italiano LS, ha insegnato Lingua e Civiltà Italiana presso l’Università de «La Manouba», a Tunisi, e ha collaborato con la locale sede della Società Dante Alighieri.

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