Salute e fitness potranno anche sembrare sinonimi, entrambi infatti si riferiscono in generale a tutta una serie di pratiche da seguire per mantenere una condizione ottimale; tuttavia, andando in profondità, è possibile intuire come i due termini rispondano a esigenze diverse. Il primo, infatti, fa riferimento ad una norma stabilita in base a parametri costanti e misurabili, il secondo rappresenta invece una nozione carica di soggettività. Se la salute è quindi uno stato, il fitness sembra essere un compito, una ricerca, «una condizione di perpetuo autoscrutinio» (Bauman, 2011: 25).
La nozione di fitness sembra presentarsi come un bene, un modello di consumo che mette continuamente alla prova chi lo insegue e che in alcuni casi rischia di alimentare ansia e inadeguatezza, soprattutto a causa del forte legame con i canoni estetici. Si tratta in pratica di uno stile di vita che si compone di un insieme di aspetti apparentemente connessi da un comune denominatore: la ricerca di un benessere psico-fisico.
Un corpo “perfetto” è diventato un’immagine potente della cultura di consumo e con esso lo sport, l’esercizio fisico e la palestra si sono imposti come ambiti di azione carichi di significato ed emozione (Sassatelli, 2000). Numerosi autori riportano, ad esempio, come nelle società consumistiche odierne la ricompensa connessa a un disciplinato lavoro sul corpo non sia più di tipo spirituale, bensì del tutto materialistica: l’ottenimento di un aspetto fisico reputato migliore, in quanto più appetibile e pertanto sfruttabile sul piano sociale. Le pratiche di cura e trasformazione del corpo, secondo questo modo di pensare, non sarebbero altro che azioni al servizio del corpo stesso, contro nemici puramente fisici (Bordo, 1997), i quali risultano essere veri e propri limitatori dell’azione sociale. In quest’ottica il fitness non risulterebbe quindi diverso, ad esempio, dalle pratiche di chirurgia estetica, le quali si fondano proprio sulla plasmabilità del corpo e sulla possibilità di manipolarlo, con lo scopo di portare benefici psicologici e socialmente spendibili. All’interno del contemporaneo contesto occidentale queste operazioni di chirurgia plastica potrebbero essere definite come pratiche di “chirurgia sociale” vera e propria.
Il “culto” del corpo nella società contemporanea è un fenomeno osservabile e analizzabile da studiosi delle più diverse discipline; uso di proposito il termine culto visto il crescente numero di personaggi, dello sport ma anche dello spettacolo, idolatrati per le loro capacità atletiche e per il loro aspetto fisico. Ci ritroviamo oggi di fronte ad un nuovo pantheon greco, dove le divinità più che essere uniche e caratteristiche sembrano cloni di un unico Apollo o di un’unica Venere. Si assiste alla continua esibizione, soprattutto attraverso i media, di corpi considerati perfetti e celebrati come tali. Pertanto, in tal modo stimolate, risulta comprensibile il perché persone “comuni”, nel tentativo di emulazione, dedichino gran parte del proprio tempo alla manutenzione e alla trasformazione del proprio corpo con lo scopo e la speranza di ascendere all’Olimpo.
Ma cosa si cela dietro alla smania di perfezione corporea? Cosa spinge alla fatica e alla rinuncia? Sbaglia chi pensa che simili comportamenti siano dettati da superficialità, soprattutto se si comprende lo stretto rapporto che intercorre non soltanto tra corpo e cultura, ma anche tra corpo e potere. Gli stessi approcci e le posizioni che mettono fortemente in relazione diretta il fitness con la cultura commerciale rischiano, come suggerisce Roberta Sassatelli (2000), di fornire una visione distorta del fenomeno, ad esempio riducendo arbitrariamente pratiche fisiche e comportamentali, diversissime tra loro, ad una semplicistica rappresentazione pubblicitaria del corpo.
Per evitare di cadere in un facile stereotipo, occorre quindi un’analisi approfondita, basata sull’osservazione diretta dei “costruttori di corpi” all’interno del loro habitat culturale e cercare di capire quali siano tutte le motivazioni che spingono ad un determinato comportamento. All’interno di questo contributo propongo alcune riflessioni basate sull’osservazione di un gruppo di bodybuilders, tutti utenti e regolari frequentatori di una palestra che ho individuato come possibile fieldwork, in quanto proprio la palestra si presenta in effetti come luogo ideale se si vuole osservare ed analizzare la subcultura del bodybuilding.
La palestra è il luogo dove si palesa [1] il lavoro sul corpo. Al suo interno viene promosso un ideale di esso ben preciso che spesso non corrisponde tuttavia alle iniziali speranze di chi vi si avvicina. Analizzando le storie dei frequentanti è evidente infatti un mutamento di enfasi rispetto agli obiettivi iniziali. Un tema ricorrente è quello del peso corporeo (in eccesso o in difetto che sia), assieme alla ricerca di una maggior sicurezza (molti intervistati, vittime di bullismo, aspiravano ad un “corpo armatura”).
Si comincia quindi per un certo motivo specifico, che porta ad un certo risultato, tuttavia ascoltando le varie storie personali diventa evidente che, al palesarsi dei primi risultati percepibili, il corpo inizialmente ottenuto (ad esempio semplicemente tonificato) sembra non essere più sufficiente ed é in quel momento che solitamente avviene il passaggio mentale alla fase di vero e proprio desiderio di “scultura”, alla pratica del bodybuilding. «Le aspirazioni convergono nella nozione di forma: essa [...] raccoglie un insieme di aspirazioni relative al corpo come strumento da usare nel mondo» (Sassatelli 2002: 448). “Così è come sarei dovuto essere” o “essere così mi fa sentire me stesso”, “migliore”, sono frasi ricorrenti. Come ho direttamente osservato sembrerebbe quindi palesarsi in che modo, rispetto ad altri frequentatori di palestra, la vita di un bodybuilder prenda un corso diverso: un culturista vive tra la voglia di plasmarsi a suo completo piacimento, cosa che una volta raggiunti i risultati può non renderlo automaticamente soddisfatto, e la continua ansia per il dover mantenere il suo nuovo corpo soddisfacente, un’ansia che nonostante venga riconosciuta dal builder, allo stesso tempo sembra venga anche tollerata.
La palestra ovviamente non è un qualcosa che nasce all’improvviso nell’epoca moderna, piuttosto è il risultato di un’architettura non solo edile ma soprattutto sociale. Si può affermare che la sua lunga storia affondi le radici già nella cultura greco-romana[2], tuttavia è solo a partire dagli anni Settanta del Novecento che se ne è registrata la forte crescita come esercizio commerciale. Nascono luoghi che non hanno come obiettivo la salute pubblica, bensì stimolano e sfruttano l’individualismo e col tempo precise esigenze estetiche, promosse soprattutto dai media attraverso la pubblicità e dal fiorente cinema hollywoodiano; sono questi gli anni di Rocky, Conan il barbaro, Terminator e della serie televisiva Baywatch. Un esempio in questa direzione è proprio il precoce sviluppo del culturismo che si connota inizialmente come una pratica maschile di fortificazione del corpo, tesa a ottenere uno sviluppo estremo delle masse muscolari.
Attraversata la porta d’ingresso ci si trova immersi in un ambiente separato dal mondo esterno e in un certo senso protetto; le palestre si configurano in pratica come realtà separate che esistono in sé stesse e per sé stesse, dove l’esperienza della frequentazione viene smistata in aree funzionalmente differenziate.
Solitamente all’interno di una palestra se ne possono individuare almeno quattro:
- La reception, dove chi vuole iscriversi ha la possibilità di ottenere tutte le informazioni preliminari o dove gli utenti già iscritti gestiscono il loro rapporto, soprattutto economico, con la struttura. Per chi vi entra per la prima volta è fondamentalmente il luogo della conoscenza, delle presentazioni, nonché il luogo delle prime impressioni. Solitamente questa sezione è collocata all’ingresso della struttura e cerca di mantenersi il più possibile separata dalle zone dove si svolgono le attività.
- Gli spogliatoi, i luoghi dell’omologazione ma paradossalmente anche del confronto più diretto. Essi sono gli spazi della nudità, dell’esposizione massima del corpo, un’esposizione molto più profonda rispetto a quella nelle sale dedicate alle attività, dove ciò che viene mostrato è decisamente più controllabile e controllato, spesso nel dettaglio. Ovviamente anche l’esposizione all’interno dello spogliatoio è sotto il controllo dell’attore sociale, infatti egli può scegliere liberamente se denudarsi o no. C’è chi dopo l’allenamento preferisce evitare di farsi la doccia, limitandosi a cambiarsi gli abiti e tenendo indosso gli indumenti intimi; c’è chi viene in palestra già vestito con gli abiti che userà durante l’allenamento e pertanto si limita, una volta terminato, a rimettersi la giacca ed uscire; c’è chi invece decide di usufruire delle docce messe a disposizione. Appare evidente dall’osservazione come il comportamento di questa ultima tipologia di utenti si biforchi fondamentalmente in due direzioni: coloro che sono condizionati dal “rischio” della nudità e coloro che non lo sono e come a queste diverse situazioni corrispondano diverse strategie. Nel primo caso si può notare come gli interessati facciano di tutto per non attirare l’attenzione: essi si rivolgono soprattutto in direzione del muro durante la svestizione e la successiva rivestizione ed eseguendo movimenti rapidi e ben calcolati tentano di diminuire considerevolmente il tempo di permanenza nudi. Uno degli spogliatoi da me frequentato prevedeva delle docce non separate tra loro, pertanto nonostante tutte le accortezze, almeno durante il lavaggio vero è proprio l’esposizione del corpo era inevitabile e anche in questo caso si potevano osservare tutta una serie di accorgimenti, come ad esempio il tentativo di tenere gli asciugamani a portata di mano e la consueta propensione a dare le spalle agli altri, oppure scegliere di frequentare in orari poco affollati. Non è da escludere pertanto che la scelta della palestra possa essere influenzata in qualche modo anche da come siano strutturati gli spogliatoi. Per quanto riguarda coloro che invece non trovano disagio nella propria nudità lo spogliatoio può divenire il teatro di una vera e propria auto-rappresentazione dove è anche possibile assistere a tutta una serie di tecniche di auto-promozione. Va ricordato come ci si trovi sempre all’interno di una palestra, un luogo dove si ha l’ambizione di costruire un corpo perfetto, un corpo che poi andrà esibito. Non aver paura nel mostrarsi nudi agli altri è un sintomo di un elevato grado soddisfazione acquisita nei confronti del proprio corpo. Chi si denuda senza problemi probabilmente si sente bene vestito del proprio corpo e questo osservando lo si nota: la stessa persona che passa molto tempo davanti lo specchio della sala pesi spesso la passa davanti lo specchio dello spogliatoio.
- La sala cardio [3], che potremmo definire come la zona più neutrale della palestra. Essendo dedicata soprattutto a pratiche di riscaldamento muscolare, per il dimagrimento e per il miglioramento della funzionalità cardio-respiratoria è una zona che potenzialmente può essere sfruttata da tutte le discipline ospitate dalla palestra e soprattutto risulta funzionale a tutti gli utenti a prescindere dal tipo di allenamento messo in atto. Ciò che si definisce un crocevia.
- La sala pesi, il luogo dove il bodybuilder esprime veramente sé stesso. Potremmo definirla la bottega, il laboratorio, dello scultore, dove martello e scalpello vengono sostituiti da panche e bilancieri e dove la creta e il marmo diventano metafore di un corpo che si appresta a diventare un’opera d’arte. È giusto tuttavia precisare come anche questa area possa definirsi mista, frequentata quindi non solo dai culturisti ma anche dai semplici utenti che necessitano di abbinare l’esercizio cardio-vascolare a quello prettamente muscolare.
Tra le aree della palestra esiste tuttavia un filo conduttore che merita una particolare menzione: lo specchio. In ogni palestra non possono mancare le pareti coperte da specchi, uno di quei tratti universali che caratterizzano l’ambiente ovunque esso sorga. Essi non sono però da intendere esclusivamente come meri accessori di bellezza, almeno per due motivi:
- il corpo che si costruisce in palestra è un corpo che va anche mostrato, che va soprattutto mostrato;
- all’interno di una palestra uno specchio è da considerarsi uno strumento al pari di macchinari e bilancieri, quindi necessario e funzionale alla pratica. Lo specchio è il principale strumento di controllo e verifica del percorso corporeo. Quando un culturista si pone davanti lo specchio e gonfia i bicipiti non necessariamente lo fa per puro esibizionismo, lo fa anche per controllare effettivamente le misure acquisite e il livello di definizione raggiunto, in un’ottica in questo caso non narcisistica ma analitica; lo specchio è inoltre un utile strumento che serve per mantenere corrette le posizioni durante gli esercizi, soprattutto se si è all’inizio della pratica e il corpo non ha ancora immagazzinato le posture e sviluppato una sorta di sensibilità che permette di stabilire l’accuratezza di un esercizio.
Lo specchio è quindi una componente di quell’ansia (forse proprio il combustibile) che sembra permeare la vita di coloro che decidono di immergersi nel fitness, in particolare nel bobybuilding.
Lavorare col corpo, per il corpo
Esiste tutto un universo di condotte implicite e di atteggiamenti che esprimono il modo in cui gli attori sociali mostrano il proprio coinvolgimento, ma soprattutto, praticando, risulta evidente come con il tempo si acquisiscano, per usare l parole di Mauss (1936), tutta una serie di tecniche del corpo (dove per tecniche del corpo si intende, in senso ampio, tutto ciò che il corpo rende possibile in termini di movimento, di capacità di manipolazione, di capacità organiche e di espressività generale) necessarie e indispensabili per rendere l’allenamento funzionale.
Chi si allena deve, nella fase iniziale, poter imparare a svolgere gli esercizi nel modo migliore, indipendentemente dalle prestazioni degli altri utenti e dai risultati che otterrà; osservando i più esperti, facilmente riconoscibili anche ad occhio nudo, è evidente come essi abbiano imparato non solo la corretta esecuzione biomeccanica ma anche come si siano ormai appropriati degli spazi della palestra: i loro gesti sono sicuri, sanno esattamente dove si trovi il materiale che occorre, non guardano ormai neanche più le schede personalizzate degli esercizi e soprattutto non è più indispensabile il confronto con gli istruttori.
Attraverso l’osservazione si possono individuare almeno 4 differenti tecniche del corpo:
- La respirazione. In palestra gli istruttori insegnano ad associare l’espirazione alla fase concentrica del lavoro (ovvero quando si è in carico) e l’inspirazione in quella eccentrica (cioè nella fase di scarico quando il peso ritorna alla posizione di partenza). Queste due fasi garantiscono una corretta ventilazione durante lo sforzo e allo stesso tempo fanno sì che il soggetto sia effettivamente concentrato sulla corretta esecuzione dell’esercizio, ma non solo, durante la contrazione si ha l’accumulo di metaboliti negativi nel muscolo per cui l’espirazione favorisce l’eliminazione di queste sostanze, al contrario nella fase di scarico l’inspirazione garantisce l’ossigenazione e l’accumulo di sostanze nutritizie.
- La postura. Uno degli aspetti più sottovalutati, nonostante essa rappresenti l’indicatore della condizione scheletrica in rapporto ai muscoli del soggetto (Rillo, 2013). L’allenamento in sala pesi prevede l’utilizzo di carichi che vanno mediamente dal sessanta all’ottanta percento del proprio massimale e la contrazione delle fibre muscolari con il passare del tempo può causare retrazioni a carico di quei muscoli che vengono sollecitati eccessivamente durante gli allenamenti. Se determinati muscoli si trovano perennemente in stato di tensione ed accorciamento si corre il rischio di alterare in maniera significativa la postura del soggetto (Losi, 2017). Un soggetto che abbia dei problemi posturali al momento dell’esecuzione dell’esercizio andrà a svolgerlo assumendo un assetto completamente erroneo, attivando dei muscoli differenti rispetto a quelli per i quali lo stesso esercizio era stato ipotizzato. Risulta fondamentale una rieducazione della postura e ho scelto di utilizzare il termine “rieducazione” non a caso: la postura è uno degli atteggiamenti corporali fortemente determinato dalle componenti culturali, si modella giorno per giorno durante la nostra esistenza. Si pensi ad esempio alle posture assunte in ufficio o dagli studenti durante le lezioni. La moda stessa può condizionare gli assetti posturali, attraverso l’utilizzo di tacchi o di scarpe particolari o addirittura slacciate. In palestra l’atteggiamento posturale è quindi rilevante e particolarmente curato per motivi salutistici e funzionali.
- L’utilizzo dei pesi. L’allenamento con i pesi è senza dubbio la pratica principale nel culturismo e si basa sul concetto di “vittoria contro una resistenza”. Quattro sono i movimenti fondamentali che allenano la muscolatura: flessione, estensione, adduzione e abduzione. Ogni movimento specifico ha un suo scopo, cioè agire su un determinato muscolo o insieme di muscoli, e pertanto una sua efficacia ben precisa, perché pensato e studiato ad hoc, non a caso si parla di “allenamento scientifico”, termine che ricorre nelle interviste. I movimenti vanno ripetuti più volte costituendo una “serie” di ripetizioni. La ripetizione, la serie, è l’abc dell’universo culturista, è il nucleo di un sistema di allenamento. Il corpo umano per potenziarsi necessita della ripetizione, grazie alla quale si diventa padroni del movimento memorizzato attraverso la memoria muscolare.
- Il controllo della velocità di esecuzione. Una singola ripetizione va eseguita lentamente sia nella fase “positiva”, dove le fibre muscolari si accorciano, sia nella fase “negativa”, dove le fibre si allungano. Tale osservanza è importante per vari motivi: si minimizza la possibilità di traumi muscolari, si ottimizza la qualità del lavoro perché procedendo lentamente aumenta il tempo di contrazione e di conseguenza la produzione di acido lattico, sostanza importante nei processi ipertrofici e perché si riesce ad isolare la parte muscolare interessata azzerando le forze dello slancio (Campitelli, 2010). Giunti alla fine della fase concentrica, si è soliti fermarsi un paio di secondi in quella posizione, che a parere di svariati culturisti dona compattezza e definizione al muscolo, ma soprattutto una grande sensazione a livello muscolare della contrazione che è in atto. È in questa fase che si viene ad attuare una sorta di blocco circolatorio, con finalità di non far arrivare ossigeno e quindi di creare la condizione di acidità in grado di favorire l’ipertrofia muscolare. Ovviamente anche durante la successiva fase è necessario un controllo della velocità, anzi è più importante, perché è nella fase negativa che il muscolo rischia di venir danneggiato. Questa cautela è spesso trascurata, soprattutto dai principianti che si ritrovano per le prime volte un manubrio o un bilanciere tra le mani, i quali lasciano praticamente precipitare il peso sotto il richiamo della gravità. Proprio per questo è possibile osservare una vera e propria collaborazione, che può essere tra colleghi di allenamento o tra cliente e istruttore, nel controllo della velocità di esecuzione: solitamente chi esegue l’esercizio con carichi particolarmente elevati viene assistito da un’altra persona che nel momento di maggior sforzo o fatica interviene “donando” parte della sua forza e contribuendo ad una lenta e controllata fase di discesa.
Le strategie di allenamento sono decisive perché ogni tipologia di programma prevede dei pro e dei contro, ma in ogni caso si esige una pianificazione, la progettazione di un programma di allenamento, pratica alla quale fanno attenzione soprattutto i culturisti che decidono di partecipare alle competizioni. Nella progettazione vanno considerati alcuni aspetti fondamentali:
- la quantità di lavoro, che comprende la durata dei singoli allenamenti, i carichi che si solleveranno, il numero di esercizi per seduta e il rapporto serie/ripetizioni;
- l’ordine degli esercizi, essendo necessario alternare i gruppi muscolari che si desidera potenziare al fine di assicurarne un miglior recupero.
- gli intervalli di recupero tra le singole serie e tra i cambi di esercizio, nonché tra le sedute di allenamento.
L’allenamento nella palestra viene quindi legittimato, al contrario di altre attività sportive, soprattutto grazie alla razionalizzazione della pratica: il lavoro sul corpo che si svolge in palestra è considerato efficace perché è specificatamente studiato e progettato per esserlo. L’allenamento col tempo si modifica e soprattutto si “aggiusta” in base alle esigenze e ai risultati che si vogliono conseguire. Un culturista esperto sa quello che vuole, ma soprattutto sa cosa gli serve.
La palestra è un’istituzione ambivalente: da un lato effettivamente fornisce agli iscritti la possibilità di appropriarsi di conoscenze e capacità, dall’altro essa delimita i confini di tali capacità, contribuendo a definire quei bisogni sulla cui soddisfazione essa basa la propria legittimità. Il frequentatore viene a conoscenza di tutta una serie di gruppi muscolari forse mai sentiti prima, il loro funzionamento, quali siano gli esercizi per svilupparli e a cosa servano i vari macchinari. I più esperti arrivano a conoscere addirittura la percentuale di proteine, grassi e carboidrati contenuta in pressoché tutti gli alimenti presenti sul mercato e conoscono nello specifico come lavori il ciclo metabolico. I più navigati acquisiscono queste conoscenze soprattutto attraverso riviste specializzate e il passaparola; anche il web sembra ormai essere una risorsa estremamente utilizzata. Ascoltando i discorsi negli spogliatoi, o nei momenti di rilassamento durante la pratica, o semplicemente durante il commento di un esercizio, è evidente quanto ci sia determinazione nel trovare notizie sempre aggiornate. Non ci si accontenta mai della propria conoscenza, ma si ricerca sempre qualche nuova nozione in più che insegni cosa fare e cosa non fare.
Resta il fatto che tuttavia, almeno inizialmente, tutto questo sapere specialistico sia in gran parte sconosciuto, segreto, riservato ad un’elite; è in questa fase che l’istruttore viene sicuramente visto, in quanto detentore di un certo bagaglio di conoscenza (per dirla alla Bourdieu di un certo “capitale culturale specifico”), la figura di riferimento principale, posizione che gli conferisce autorevolezza. Tuttavia con il tempo, man mano che acquisisce sapere, il novizio finirà per affrancarsi sempre più dall’autorità dell’istruttore, il quale perderà parte della propria capacità di attrazione basata proprio sul sapere, oltre che sul proprio aspetto.
Col tempo sembra inevitabile che si venga a creare una comunità interna alla palestra, più o meno egualitaria, dove l’unica forma di gerarchia che rimane (perché ormai autonoma dalla figura dell’istruttore) è quella della tipizzazione corporea, basata su caratteristiche soprattutto fisiche, estetiche in un certo senso, e non più conoscitive (Lastrico, 2016).
I culturisti hanno la reputazione di essere “grossi e stupidi”, ma è in realtà sarebbe impossibile eccellere nella pratica se veramente lo si fosse. È necessaria una grande conoscenza per ottenere risultati apprezzabili, una conoscenza approfondita e tecnicamente sofisticata:
- Conoscenze farmacologiche relative ai tipi di farmaci e integratori alimentari, alla durata e ai modi di assunzione, nonché come le sostanze interagiscano tra di loro.
- Conoscenze fisiologiche, ovvero una comprensione dei vari gruppi muscolari che vanno allenati, capacità di capire quali siano gli esercizi più appropriati per stimolare l’ipertrofia muscolare e i tempi di recupero.
- Conoscenze nutrizionali, riguardante la quantità corretta dei macro-nutrienti, delle proteine, carboidrati complessi e dei grassi da assumere nella dieta. Conoscenza quindi delle tecniche dietetiche pre-gara e della tempistica che regola il consumo dei pasti.
Il sapere nel bodybuilding delinea e definisce l’azione normativa, che serve come guida per la pratica individuale.
Come contributo è frutto di un’analisi etnografica di una palestra italiana, nello specifico romana, specializzata in pesistica. L’attenzione è stata concentrata su coloro che induttivamente, a seguito della osservazione, ho potuto identificare come “veri culturisti”, cioè coloro che si impegnano costantemente al potenziamento e alla definizione del proprio corpo aderendo a precisi modelli estetici e culturali, vivendo quindi il culturismo come elemento identitario totalizzante della loro esistenza.
La ricerca pare confermare come il continuo riferimento alla dimensione corporea condizioni fortemente le relazioni sociali portando alla formazione di un gruppo a sé stante, separato tanto dagli esterni quanto dagli “altri” frequentatori di una palestra. L’idea di costruzione del corpo è esplicita nella stessa espressione “bodybuilding” e l’obiettivo è stato principalmente quello di segnalare come la dimensione corporea stessa, una volta definita culturalmente, venga posta dai bodybuilders al centro di quasi tutta la propria esistenza.
Dalle interviste da me raccolte e attraverso la visione di una forse ancora scarna letteratura al riguardo, ho constatato come l’avvicinamento alla pratica avvenga sempre in età giovanile, adolescenziale o immediatamente post-adolescenziale e come spesso le motivazioni ad iniziare siano date proprio da una situazione di incertezza, dove il ricorso al corpo sembra essere, come illustra Valerio Lastrico, «un modo per farsi inquadrare» (Lastrico, 2016: 70). Il bodybuilding creerebbe quindi, come afferma Roberta Sassatelli (2000), un rapporto con il corpo che può essere nello stesso tempo più strumentale e più autentico: da una parte ricerca di affermazione e di approvazione sociale, dall’altra sforzo di autodisciplina per realizzare appieno la propria natura.
Chi è quindi un bodybuilder? Quando si entra per la prima volta in una palestra un neofita del fitness si confronta con i culturisti esperti rendendosi conto di condividere lo spazio della palestra per motivi simili, ovvero la cura del corpo, ma fondamentalmente attraverso stili di vita estremamente diversi. Le pratiche che discendono direttamente da questo modus vivendi possono esser viste dagli “esterni” spesso come irrazionali, anche io sono caduto inizialmente in questo inganno, tuttavia con il tempo si finisce per venir assorbiti dal senso comune. Immergendosi sempre più nell’atmosfera i nuovi arrivati riescono gradualmente ad abituarsi e a dare per scontato che alcune persone possano comportarsi in quel modo senza più pensare che ciò sia dovuto a irrazionalità. Identifico quindi come bodybuilders coloro che manipolano il proprio corpo sotto la spinta di imperativi sociali e culturali, anche se la dimensione corporea viene utilizzata non necessariamente come adeguamento alla visione del corpo già circolante nella società nel suo complesso (infatti il bodybuilding non si può definire un fenomeno mainstream), bensì come strumento identitario di distinzione dove i simboli identificativi si mostrano in forma di segni carnali.
I corpi, plasmati in un certo modo, modificati e portati all’estremo, rappresentano i criteri per identificare i bodybuilders. Tuttavia forse della massima importanza è semmai la misura in cui l’individuo aderisce ai principi della disciplina: si diventa tali quando si pratica seriamente e si rispettano tutte le norme imposte dal regime di vita. Non è semplicemente un hobby, ma un modo di vivere. Non si tratta di essere “appassionati di muscoli”, si tratta di porre il corpo come punto di partenza e di arrivo, quindi come punto di riferimento. L’idea di corpo, sembra essere il modo privilegiato di un bodybuilder per rispondere alla domanda “chi sono io?”.
Nota a margine: Willy Montero Durante
I recenti fatti di Colleferro, che hanno portato alla morte del giovane Willy Monteiro Duarte, suggeriscono una riflessione aggiuntiva, essendo stati tirati in causa il mondo delle palestre e di conseguenza quello della auto-rappresentazione attraverso il corpo; ma è realmente il corpo e la sua costruzione il vero (e solo) protagonista in questo triste fatto di cronaca?
Anche nelle dinamiche violente è la società ad avere un ruolo determinante, essendo essa la principale promotrice di modelli culturali, nonché comportamentali, che influenzano il nostro modo di “stare al mondo” (espressione cara a de Martino); pertanto considerare la violenza come innata e naturale può essere considerato un atteggiamento se non riduttivo, almeno semplicistico, perché in tal caso non si contemplerebbero tutte quelle disuguaglianze all’interno delle quali essa si costituisce.
Proprio l’episodio di Colleferro ne è una chiara dimostrazione, un fatto che si pone tra il concetto di mascolinità egemonica e varie declinazioni della violenza. Un’enorme zona grigia, di nebbia, all’interno della quale la moralità diviene, sfumata, poco chiara, come del resto lo è la presenza delle istituzioni, le quali non riescono a fornire strumenti educativi o imporre linee di condotta. Complice di questa realtà è poi quel velo di disumanizzazione che porta infine ad affermare che a morire sia stato “solo” un immigrato.
Quello della periferia è oggi il luogo del vuoto sociale e dell’insoddisfazione, una realtà dove riesce ad attecchire la cultura dell’odio, la quale si organizza istituzionalizzandosi e sostituendosi alle istituzioni stesse, si ramifica fin dentro le palestre riuscendo ad attuare tutta una serie di pratiche retoriche che trasformano “l’imparare a difendersi” in “imparare ad offendere”, elargendo tutta una serie di premi sociali quali rispetto, timore reverenziale, la fama, una certa attrattività e in alcuni casi un benessere economico.
Di chi è la colpa? Forse di tutti, forse di nessuno. Forse la necessità risiede nello smettere di dare colpe e iniziare piuttosto a cominciare a riflettere criticamente sulla nostra società e sulla deriva che essa sta prendendo. La “ripartenza” dopo il Covid? Potrebbe essere quella che pone al centro lo sguardo e l’ascolto.
Dialoghi Mediterranei, n. 46, novembre 2020
Note
[1] In quanto esistono anche tutta una serie di procedure che non avvengono sotto gli occhi di tutti.
[2] La cultura greca attribuiva grande importanza alla fisicità: l’educazione del corpo, le gare e le sfide erano incoraggiate non solo per rendere forti e pronti alle battaglie, ma anche per sviluppare la forza di sostenere le fatiche della vita quotidiana. L’educazione fisica e l’educazione intellettuale viaggiavano sullo stesso bonario e non erano una l’alternativa dell’altra. Non mancano autori del mondo classico a sostegno del giusto equilibrio tra esercizio intellettuale e fisico, basti ricordare la famosa frase di Giovenale “mens sana in corpore sano”.
[3] Il cardio fitness è una qualsiasi attività fisica ripetuta nel tempo ad un’intensità medio alta, per minimo 20 minuti, di modo che si inneschi il sistema energetico aerobico, cioè l’organismo con l’aiuto dell’ossigeno, ossidi i grassi per utilizzarli come fonte energetica.
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Dario Bettati, laureato in Teorie e Pratiche dell’Antropologia e laureato magistrale in Discipline Etno-Antropologiche presso l’Università degli Studi di Roma La Sapienza. Studioso e appassionato delle “declinazioni” più contemporanee della cultura e della società, nonché divulgatore scientifico impegnato in vari progetti, tra i quali il più significativo quello presso l’Associazione Culturale Antro di Chirone, realtà che da anni si occupa di divulgazione online delle scienze umane.
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