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Strategie e tecniche del corpo nel bodybuilding
Posted By Comitato di Redazione On 1 novembre 2020 @ 02:37 In Cultura,Società | No Comments
Salute e fitness potranno anche sembrare sinonimi, entrambi infatti si riferiscono in generale a tutta una serie di pratiche da seguire per mantenere una condizione ottimale; tuttavia, andando in profondità, è possibile intuire come i due termini rispondano a esigenze diverse. Il primo, infatti, fa riferimento ad una norma stabilita in base a parametri costanti e misurabili, il secondo rappresenta invece una nozione carica di soggettività. Se la salute è quindi uno stato, il fitness sembra essere un compito, una ricerca, «una condizione di perpetuo autoscrutinio» (Bauman, 2011: 25).
La nozione di fitness sembra presentarsi come un bene, un modello di consumo che mette continuamente alla prova chi lo insegue e che in alcuni casi rischia di alimentare ansia e inadeguatezza, soprattutto a causa del forte legame con i canoni estetici. Si tratta in pratica di uno stile di vita che si compone di un insieme di aspetti apparentemente connessi da un comune denominatore: la ricerca di un benessere psico-fisico.
Un corpo “perfetto” è diventato un’immagine potente della cultura di consumo e con esso lo sport, l’esercizio fisico e la palestra si sono imposti come ambiti di azione carichi di significato ed emozione (Sassatelli, 2000). Numerosi autori riportano, ad esempio, come nelle società consumistiche odierne la ricompensa connessa a un disciplinato lavoro sul corpo non sia più di tipo spirituale, bensì del tutto materialistica: l’ottenimento di un aspetto fisico reputato migliore, in quanto più appetibile e pertanto sfruttabile sul piano sociale. Le pratiche di cura e trasformazione del corpo, secondo questo modo di pensare, non sarebbero altro che azioni al servizio del corpo stesso, contro nemici puramente fisici (Bordo, 1997), i quali risultano essere veri e propri limitatori dell’azione sociale. In quest’ottica il fitness non risulterebbe quindi diverso, ad esempio, dalle pratiche di chirurgia estetica, le quali si fondano proprio sulla plasmabilità del corpo e sulla possibilità di manipolarlo, con lo scopo di portare benefici psicologici e socialmente spendibili. All’interno del contemporaneo contesto occidentale queste operazioni di chirurgia plastica potrebbero essere definite come pratiche di “chirurgia sociale” vera e propria.
Il “culto” del corpo nella società contemporanea è un fenomeno osservabile e analizzabile da studiosi delle più diverse discipline; uso di proposito il termine culto visto il crescente numero di personaggi, dello sport ma anche dello spettacolo, idolatrati per le loro capacità atletiche e per il loro aspetto fisico. Ci ritroviamo oggi di fronte ad un nuovo pantheon greco, dove le divinità più che essere uniche e caratteristiche sembrano cloni di un unico Apollo o di un’unica Venere. Si assiste alla continua esibizione, soprattutto attraverso i media, di corpi considerati perfetti e celebrati come tali. Pertanto, in tal modo stimolate, risulta comprensibile il perché persone “comuni”, nel tentativo di emulazione, dedichino gran parte del proprio tempo alla manutenzione e alla trasformazione del proprio corpo con lo scopo e la speranza di ascendere all’Olimpo.
Ma cosa si cela dietro alla smania di perfezione corporea? Cosa spinge alla fatica e alla rinuncia? Sbaglia chi pensa che simili comportamenti siano dettati da superficialità, soprattutto se si comprende lo stretto rapporto che intercorre non soltanto tra corpo e cultura, ma anche tra corpo e potere. Gli stessi approcci e le posizioni che mettono fortemente in relazione diretta il fitness con la cultura commerciale rischiano, come suggerisce Roberta Sassatelli (2000), di fornire una visione distorta del fenomeno, ad esempio riducendo arbitrariamente pratiche fisiche e comportamentali, diversissime tra loro, ad una semplicistica rappresentazione pubblicitaria del corpo.
Per evitare di cadere in un facile stereotipo, occorre quindi un’analisi approfondita, basata sull’osservazione diretta dei “costruttori di corpi” all’interno del loro habitat culturale e cercare di capire quali siano tutte le motivazioni che spingono ad un determinato comportamento. All’interno di questo contributo propongo alcune riflessioni basate sull’osservazione di un gruppo di bodybuilders, tutti utenti e regolari frequentatori di una palestra che ho individuato come possibile fieldwork, in quanto proprio la palestra si presenta in effetti come luogo ideale se si vuole osservare ed analizzare la subcultura del bodybuilding.
La palestra è il luogo dove si palesa [1] il lavoro sul corpo. Al suo interno viene promosso un ideale di esso ben preciso che spesso non corrisponde tuttavia alle iniziali speranze di chi vi si avvicina. Analizzando le storie dei frequentanti è evidente infatti un mutamento di enfasi rispetto agli obiettivi iniziali. Un tema ricorrente è quello del peso corporeo (in eccesso o in difetto che sia), assieme alla ricerca di una maggior sicurezza (molti intervistati, vittime di bullismo, aspiravano ad un “corpo armatura”).
Si comincia quindi per un certo motivo specifico, che porta ad un certo risultato, tuttavia ascoltando le varie storie personali diventa evidente che, al palesarsi dei primi risultati percepibili, il corpo inizialmente ottenuto (ad esempio semplicemente tonificato) sembra non essere più sufficiente ed é in quel momento che solitamente avviene il passaggio mentale alla fase di vero e proprio desiderio di “scultura”, alla pratica del bodybuilding. «Le aspirazioni convergono nella nozione di forma: essa [...] raccoglie un insieme di aspirazioni relative al corpo come strumento da usare nel mondo» (Sassatelli 2002: 448). “Così è come sarei dovuto essere” o “essere così mi fa sentire me stesso”, “migliore”, sono frasi ricorrenti. Come ho direttamente osservato sembrerebbe quindi palesarsi in che modo, rispetto ad altri frequentatori di palestra, la vita di un bodybuilder prenda un corso diverso: un culturista vive tra la voglia di plasmarsi a suo completo piacimento, cosa che una volta raggiunti i risultati può non renderlo automaticamente soddisfatto, e la continua ansia per il dover mantenere il suo nuovo corpo soddisfacente, un’ansia che nonostante venga riconosciuta dal builder, allo stesso tempo sembra venga anche tollerata.
La palestra ovviamente non è un qualcosa che nasce all’improvviso nell’epoca moderna, piuttosto è il risultato di un’architettura non solo edile ma soprattutto sociale. Si può affermare che la sua lunga storia affondi le radici già nella cultura greco-romana[2], tuttavia è solo a partire dagli anni Settanta del Novecento che se ne è registrata la forte crescita come esercizio commerciale. Nascono luoghi che non hanno come obiettivo la salute pubblica, bensì stimolano e sfruttano l’individualismo e col tempo precise esigenze estetiche, promosse soprattutto dai media attraverso la pubblicità e dal fiorente cinema hollywoodiano; sono questi gli anni di Rocky, Conan il barbaro, Terminator e della serie televisiva Baywatch. Un esempio in questa direzione è proprio il precoce sviluppo del culturismo che si connota inizialmente come una pratica maschile di fortificazione del corpo, tesa a ottenere uno sviluppo estremo delle masse muscolari.
Attraversata la porta d’ingresso ci si trova immersi in un ambiente separato dal mondo esterno e in un certo senso protetto; le palestre si configurano in pratica come realtà separate che esistono in sé stesse e per sé stesse, dove l’esperienza della frequentazione viene smistata in aree funzionalmente differenziate.
Solitamente all’interno di una palestra se ne possono individuare almeno quattro:
Tra le aree della palestra esiste tuttavia un filo conduttore che merita una particolare menzione: lo specchio. In ogni palestra non possono mancare le pareti coperte da specchi, uno di quei tratti universali che caratterizzano l’ambiente ovunque esso sorga. Essi non sono però da intendere esclusivamente come meri accessori di bellezza, almeno per due motivi:
Lo specchio è quindi una componente di quell’ansia (forse proprio il combustibile) che sembra permeare la vita di coloro che decidono di immergersi nel fitness, in particolare nel bobybuilding.
Lavorare col corpo, per il corpo
Esiste tutto un universo di condotte implicite e di atteggiamenti che esprimono il modo in cui gli attori sociali mostrano il proprio coinvolgimento, ma soprattutto, praticando, risulta evidente come con il tempo si acquisiscano, per usare l parole di Mauss (1936), tutta una serie di tecniche del corpo (dove per tecniche del corpo si intende, in senso ampio, tutto ciò che il corpo rende possibile in termini di movimento, di capacità di manipolazione, di capacità organiche e di espressività generale) necessarie e indispensabili per rendere l’allenamento funzionale.
Chi si allena deve, nella fase iniziale, poter imparare a svolgere gli esercizi nel modo migliore, indipendentemente dalle prestazioni degli altri utenti e dai risultati che otterrà; osservando i più esperti, facilmente riconoscibili anche ad occhio nudo, è evidente come essi abbiano imparato non solo la corretta esecuzione biomeccanica ma anche come si siano ormai appropriati degli spazi della palestra: i loro gesti sono sicuri, sanno esattamente dove si trovi il materiale che occorre, non guardano ormai neanche più le schede personalizzate degli esercizi e soprattutto non è più indispensabile il confronto con gli istruttori.
Attraverso l’osservazione si possono individuare almeno 4 differenti tecniche del corpo:
Le strategie di allenamento sono decisive perché ogni tipologia di programma prevede dei pro e dei contro, ma in ogni caso si esige una pianificazione, la progettazione di un programma di allenamento, pratica alla quale fanno attenzione soprattutto i culturisti che decidono di partecipare alle competizioni. Nella progettazione vanno considerati alcuni aspetti fondamentali:
L’allenamento nella palestra viene quindi legittimato, al contrario di altre attività sportive, soprattutto grazie alla razionalizzazione della pratica: il lavoro sul corpo che si svolge in palestra è considerato efficace perché è specificatamente studiato e progettato per esserlo. L’allenamento col tempo si modifica e soprattutto si “aggiusta” in base alle esigenze e ai risultati che si vogliono conseguire. Un culturista esperto sa quello che vuole, ma soprattutto sa cosa gli serve.
La palestra è un’istituzione ambivalente: da un lato effettivamente fornisce agli iscritti la possibilità di appropriarsi di conoscenze e capacità, dall’altro essa delimita i confini di tali capacità, contribuendo a definire quei bisogni sulla cui soddisfazione essa basa la propria legittimità. Il frequentatore viene a conoscenza di tutta una serie di gruppi muscolari forse mai sentiti prima, il loro funzionamento, quali siano gli esercizi per svilupparli e a cosa servano i vari macchinari. I più esperti arrivano a conoscere addirittura la percentuale di proteine, grassi e carboidrati contenuta in pressoché tutti gli alimenti presenti sul mercato e conoscono nello specifico come lavori il ciclo metabolico. I più navigati acquisiscono queste conoscenze soprattutto attraverso riviste specializzate e il passaparola; anche il web sembra ormai essere una risorsa estremamente utilizzata. Ascoltando i discorsi negli spogliatoi, o nei momenti di rilassamento durante la pratica, o semplicemente durante il commento di un esercizio, è evidente quanto ci sia determinazione nel trovare notizie sempre aggiornate. Non ci si accontenta mai della propria conoscenza, ma si ricerca sempre qualche nuova nozione in più che insegni cosa fare e cosa non fare.
Resta il fatto che tuttavia, almeno inizialmente, tutto questo sapere specialistico sia in gran parte sconosciuto, segreto, riservato ad un’elite; è in questa fase che l’istruttore viene sicuramente visto, in quanto detentore di un certo bagaglio di conoscenza (per dirla alla Bourdieu di un certo “capitale culturale specifico”), la figura di riferimento principale, posizione che gli conferisce autorevolezza. Tuttavia con il tempo, man mano che acquisisce sapere, il novizio finirà per affrancarsi sempre più dall’autorità dell’istruttore, il quale perderà parte della propria capacità di attrazione basata proprio sul sapere, oltre che sul proprio aspetto.
Col tempo sembra inevitabile che si venga a creare una comunità interna alla palestra, più o meno egualitaria, dove l’unica forma di gerarchia che rimane (perché ormai autonoma dalla figura dell’istruttore) è quella della tipizzazione corporea, basata su caratteristiche soprattutto fisiche, estetiche in un certo senso, e non più conoscitive (Lastrico, 2016).
I culturisti hanno la reputazione di essere “grossi e stupidi”, ma è in realtà sarebbe impossibile eccellere nella pratica se veramente lo si fosse. È necessaria una grande conoscenza per ottenere risultati apprezzabili, una conoscenza approfondita e tecnicamente sofisticata:
Il sapere nel bodybuilding delinea e definisce l’azione normativa, che serve come guida per la pratica individuale.
Come contributo è frutto di un’analisi etnografica di una palestra italiana, nello specifico romana, specializzata in pesistica. L’attenzione è stata concentrata su coloro che induttivamente, a seguito della osservazione, ho potuto identificare come “veri culturisti”, cioè coloro che si impegnano costantemente al potenziamento e alla definizione del proprio corpo aderendo a precisi modelli estetici e culturali, vivendo quindi il culturismo come elemento identitario totalizzante della loro esistenza.
La ricerca pare confermare come il continuo riferimento alla dimensione corporea condizioni fortemente le relazioni sociali portando alla formazione di un gruppo a sé stante, separato tanto dagli esterni quanto dagli “altri” frequentatori di una palestra. L’idea di costruzione del corpo è esplicita nella stessa espressione “bodybuilding” e l’obiettivo è stato principalmente quello di segnalare come la dimensione corporea stessa, una volta definita culturalmente, venga posta dai bodybuilders al centro di quasi tutta la propria esistenza.
Dalle interviste da me raccolte e attraverso la visione di una forse ancora scarna letteratura al riguardo, ho constatato come l’avvicinamento alla pratica avvenga sempre in età giovanile, adolescenziale o immediatamente post-adolescenziale e come spesso le motivazioni ad iniziare siano date proprio da una situazione di incertezza, dove il ricorso al corpo sembra essere, come illustra Valerio Lastrico, «un modo per farsi inquadrare» (Lastrico, 2016: 70). Il bodybuilding creerebbe quindi, come afferma Roberta Sassatelli (2000), un rapporto con il corpo che può essere nello stesso tempo più strumentale e più autentico: da una parte ricerca di affermazione e di approvazione sociale, dall’altra sforzo di autodisciplina per realizzare appieno la propria natura.
Chi è quindi un bodybuilder? Quando si entra per la prima volta in una palestra un neofita del fitness si confronta con i culturisti esperti rendendosi conto di condividere lo spazio della palestra per motivi simili, ovvero la cura del corpo, ma fondamentalmente attraverso stili di vita estremamente diversi. Le pratiche che discendono direttamente da questo modus vivendi possono esser viste dagli “esterni” spesso come irrazionali, anche io sono caduto inizialmente in questo inganno, tuttavia con il tempo si finisce per venir assorbiti dal senso comune. Immergendosi sempre più nell’atmosfera i nuovi arrivati riescono gradualmente ad abituarsi e a dare per scontato che alcune persone possano comportarsi in quel modo senza più pensare che ciò sia dovuto a irrazionalità. Identifico quindi come bodybuilders coloro che manipolano il proprio corpo sotto la spinta di imperativi sociali e culturali, anche se la dimensione corporea viene utilizzata non necessariamente come adeguamento alla visione del corpo già circolante nella società nel suo complesso (infatti il bodybuilding non si può definire un fenomeno mainstream), bensì come strumento identitario di distinzione dove i simboli identificativi si mostrano in forma di segni carnali.
I corpi, plasmati in un certo modo, modificati e portati all’estremo, rappresentano i criteri per identificare i bodybuilders. Tuttavia forse della massima importanza è semmai la misura in cui l’individuo aderisce ai principi della disciplina: si diventa tali quando si pratica seriamente e si rispettano tutte le norme imposte dal regime di vita. Non è semplicemente un hobby, ma un modo di vivere. Non si tratta di essere “appassionati di muscoli”, si tratta di porre il corpo come punto di partenza e di arrivo, quindi come punto di riferimento. L’idea di corpo, sembra essere il modo privilegiato di un bodybuilder per rispondere alla domanda “chi sono io?”.
Nota a margine: Willy Montero Durante
I recenti fatti di Colleferro, che hanno portato alla morte del giovane Willy Monteiro Duarte, suggeriscono una riflessione aggiuntiva, essendo stati tirati in causa il mondo delle palestre e di conseguenza quello della auto-rappresentazione attraverso il corpo; ma è realmente il corpo e la sua costruzione il vero (e solo) protagonista in questo triste fatto di cronaca?
Anche nelle dinamiche violente è la società ad avere un ruolo determinante, essendo essa la principale promotrice di modelli culturali, nonché comportamentali, che influenzano il nostro modo di “stare al mondo” (espressione cara a de Martino); pertanto considerare la violenza come innata e naturale può essere considerato un atteggiamento se non riduttivo, almeno semplicistico, perché in tal caso non si contemplerebbero tutte quelle disuguaglianze all’interno delle quali essa si costituisce.
Proprio l’episodio di Colleferro ne è una chiara dimostrazione, un fatto che si pone tra il concetto di mascolinità egemonica e varie declinazioni della violenza. Un’enorme zona grigia, di nebbia, all’interno della quale la moralità diviene, sfumata, poco chiara, come del resto lo è la presenza delle istituzioni, le quali non riescono a fornire strumenti educativi o imporre linee di condotta. Complice di questa realtà è poi quel velo di disumanizzazione che porta infine ad affermare che a morire sia stato “solo” un immigrato.
Quello della periferia è oggi il luogo del vuoto sociale e dell’insoddisfazione, una realtà dove riesce ad attecchire la cultura dell’odio, la quale si organizza istituzionalizzandosi e sostituendosi alle istituzioni stesse, si ramifica fin dentro le palestre riuscendo ad attuare tutta una serie di pratiche retoriche che trasformano “l’imparare a difendersi” in “imparare ad offendere”, elargendo tutta una serie di premi sociali quali rispetto, timore reverenziale, la fama, una certa attrattività e in alcuni casi un benessere economico.
Di chi è la colpa? Forse di tutti, forse di nessuno. Forse la necessità risiede nello smettere di dare colpe e iniziare piuttosto a cominciare a riflettere criticamente sulla nostra società e sulla deriva che essa sta prendendo. La “ripartenza” dopo il Covid? Potrebbe essere quella che pone al centro lo sguardo e l’ascolto.
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