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La visione scenica di Pitrè e Salomone Marino

Carro trionfale di santa Rosalia (da M. del Giudice, Palermo magnifico, 1686)

Carro trionfale di santa Rosalia (da M. del Giudice, Palermo magnifico, 1686)

di Giovanni Isgrò [*]

Quando si parla dell’“anomalia” siciliana nel campo delle arti sceniche e della conseguente assenza dai manuali di storia del teatro al di qua della soglia ottocentesca, si percepiscono i segni di una mancanza grave da parte della storiografia ufficiale legata a dominanti ed a forme di monopolio che hanno fortemente penalizzato la visibilità artistico-culturale della nostra Isola [1].

Per quanto non inquadrabili nel ruolo di storici della messinscena teatrale, Pitrè e Salomone Marino hanno avuto il merito di aprire il campo a valutazioni fondamentali per un radicale recupero della specificità dello spettacolo in Sicilia, e della legittima collocazione nella storia nazionale e sovranazionale delle arti dello spettacolo, essendo, quello siciliano, individuabile come “altro teatro” e non “altro dal teatro”.

Se ciò è potuto accadere, lo si deve al “fiuto” di questi due grandi pionieri che, orientandosi in ambiti storici prevalentemente diversi, nel corso delle loro ricerche e delle loro descrizioni di costumi e tradizioni, ma anche di eventi straordinari, (come nel caso dell’Atto della Pinta), hanno fatto emergere forme di spettacolarità in buona parte urbane, non riconosciute dal teatro ufficiale aprendo gli steccati della storiografia ufficiale e suggerendo nuove prospettive teatrologiche, come del resto avvenne, con ben diversa fortuna, ai maestri della rifondazione del teatro europeo fra Otto e Novecento. E non è un caso che da un punto di vista diacronico la visione scenica di Pitrè scelse come momento di partenza la grande stagione de La vita in Palermo cento e più anni fa, ossia quella che scaturì dalla sterzata storica che in Sicilia portò dal dominio diretto della monarchia spagnola a quella dei Borboni di Napoli.

Fu a seguito del declino della ritualità antica, legata ai rigidi cerimoniali barocchi dell’hispanidad, che a Palermo, come è noto, a partire dalla seconda metà del Settecento, in tutta l’articolazione degli strati sociali esplose il bisogno forte di una libertà espressiva nuova. Affrancata la Sicilia dalla dipendenza dalla politica culturale dei re spagnoli, fu proprio l’attribuzione di una minore autorevolezza al re di Napoli, trasmessa peraltro dal ceto dominante a quello subalterno, che consentì la conquista della piazza da parte del popolo e contemporaneamente lo sfogo della mondanità teatromane e delle feste di condizione della classe aristocratica e alto borghese.

Pitrè ha avuto il grande merito di aver compreso l’importanza di questo passaggio epocale e di avere colto a piene mani la straordinaria energia espressiva scatenatasi in Sicilia dopo secoli di dominazione ispanica, attivando quella cinghia di trasmissione, che ha portato chi scrive a dare sistemazione critica, ad una parte centrale della storia dello spettacolo in Sicilia. A Salomone Marino invece, come si vedrà più avanti, va attribuito il merito di avere rivolto la sua ricerca, anch’essa stimolante per gli studi di storia dello spettacolo, ai secoli precedenti a partire dal basso Medioevo.

Utilizzando l’eredità degli Opuscoli del Villabianca, Pitrè ha dato risalto ad una componente fondamentale della anomalia siciliana del teatro, ossia quella del parateatro, individuabile sia nella sfera performativa laica che religiosa. In ambito laico, due sono i riferimenti fondamentali legati alla cultura popolare: il Carnevale, con le sue mascherate, e la farsa dialettale che raggiunse il livello artisticamente più interessante nella stagione delle Vastasate. L’approccio di Pitrè al fenomeno della Vastasata, per quanto necessari approfondimenti scientifici facciano individuare oggi lacune e inesattezze [2], rivela certamente un piglio investigativo importante, tutto rivolto nella direzione della ricerca della spettacolarità, che va oltre il livello di conoscenze offerte dal Villabianca nei suoi Opuscoli.

L’osservazione ravvicinatissima degli spazi urbani nei quali sono ambientate le scena della farsa, sostanzialmente ispirata dall’unico testo di Vastasata pervenutoci, ossia Il Cortile degli Aragonesi, insieme a quella riguardante gli interpreti e i ruoli da loro ricoperti con le caratterizzazioni che li distinguono, dimostrano un’attenzione tipica più dello storico del teatro che dell’etnoantropologo. Né sfuggì a Pitrè l’opportunità di approfondire i meccanismi di produzione del teatro e le dinamiche e le conflittualità interne fra le compagnie della farsa popolare e il confronto con il teatro di condizione nonché il rapporto con le istituzioni.

Per approdare a questo livello di conoscenze, il nostro esaminò attentamente, con lo spirito dello storico, le carte della Regia Segreteria conservate presso l’Archivio di Stato di Palermo, accompagnando il lettore nel vivo delle problematiche produttive dello spettacolo, fornendo dati di prima mano, anche se precisò che il suo lavoro appassionato di ricerca era motivato dal fatto che la sua esplorazione avveniva «tra tanti casotti che sorgevano e sparivano tra tante compagnie di comici con programmi rigorosamente siciliani tendenti a mettere in evidenza i costumi e la vita del popolo» [3].

Nonostante la motivazione dell’etnoantropologo, rimane il fatto che già al tempo del suo saggio La vita in Palermo cento de più anni fa, egli ha cercato e letto il testo de lu Curtigghiu di li Raunisi, oggi consultabile presso la Biblioteca Comunale di Palermo [4], pur in una copia tratta dal repertorio ottocentesco di Ignazio Marvuglia. Testo, questo, che successivamente Cocchiara avrebbe pubblicato, sia pure con interventi che avrebbero modificato, a loro volta, il documento della Biblioteca Comunale e che ho sentito la necessità di restituire nella versione originale [5], mentre è pregevole l’adattamento attualizzante operato negli anni Settanta del secolo scorso dal poeta Ignazio Buttitta [6].

1Al di là della “Vastasata”, l’attenzione di Pitrè ai problemi dello spettacolo nella seconda metà del ‘700 a Palermo porta ad una visione molto accurata del repertorio e degli artisti in attività nei due maggiori teatri, il Santa Lucia e il Santa Cecilia, con una importante estensione alle consuetudini del pubblico teatromane e mondano, anch’esse foriere di riflessioni postume utili a comprendere il livello culturale dell’Isola e a consentire confronti con le note realtà del ‘700 italiano. Certamente utili in questo senso furono al Pitrè le testimonianze di viaggiatori stranieri, in particolare Hӓger, Brydone, Houel, Creuze de Lesser. Né fu da meno la ricerca della spettacolarità rivolta ai carri di Santa Rosalia, oltre che alle macchine sceniche del teatro festivo urbano; e soprattutto al volo delle mongolfiere. Il che contribuì ad evidenziare pratiche di spettacoli di massa aggiornate all’evoluzione tecnico-scientifica del tempo. Il tutto portò all’atmosfera dei guiness dei primati che finì per caratterizzare il gigantismo estremo della forma del Carro trionfale, sempre più scollato dalla motivazione esclusivamente devozionale, fino al progetto promosso da Pitrè stesso per il grandioso carro di Santa Rosalia del 1897, dopo la lunga interruzione degli spettacoli del Festino seguito all’avvento della monarchia sabauda.

Ma a questo punto, come per una naturale estensione del campo visivo che dal Sette/Ottocento porta alla constatazione e alla documentazione dirette di Pitrè, osserviamo la straordinaria ricchezza di forme di spettacolo che, per quanto anch’esse contestualizzate nell’ambito degli usi e delle tradizioni popolari, lasciano intravedere quella costante parateatrale che è lo specifico dell’arte scenica siciliana. Come per una visione aerea d’insieme, assimilabile ad un totale cinematografico, Pitrè “vede” personaggi dai costumi coloratissimi animare le piazze e le strade della Sicilia con sfilate, pantomime, esibizioni musicali e canore, danze e intrattenimenti diversi. È il grande scenario del carnevale, all’interno del quale Pitrè coglie, con approcci ravvicinatissimi, dialoghi, performance, invenzioni sceniche racconti drammatizzati in forma comica, integrati da dispositivi scenotecnici, palchi, praticabili, elementi scenografici, attrezzeria varia che egli descrive con cura ed estrema attenzione ai dettagli; il tutto, giocato in un sapiente uso degli spazi e dei luoghi deputati.

In questo contesto il Nostro mette in evidenza definizioni di ruoli insieme a tecniche di improvvisazione che richiamano stadi preteatrali, talvolta assimilabili a quelli preliminari alla commedia dell’arte. Persino le più semplici gag sembrano frutto di uno studio preventivo dell’uso del proprio corpo da parte del performer, come quella della maschera dello “scalittaro”: «Si affaticava a guadagnare i gradini di una scaletta a pioli, sostenuta da due compagni, dopo mille contorcimenti e dinoccolature, stramazzava goffamente a terra» [7]. Pantomime più complesse come quella del “Mastro di Campo” lasciano intravedere addestramenti individuali e di gruppo. “Folle attore”, del resto, già Villabianca aveva definito il protagonista proprio di questa pantomima, anticipando la visione scenica di Pitrè che non manca di evidenziare orchestrazioni d’insieme paragonabili a quelle gestite da veri e propri princìpi di regia.

2Al di là dei brevi riferimenti alla storia medievale e cinquecentesca, dove si riscontrano tuttavia lacune ed inesattezze [8], sul versante devozionale l’ottica teatrale di Pitrè si fa ancora più precisa e riconoscibile, soprattutto in riferimento alle sacre rappresentazioni della Settimana Santa e del Natale otto-novecentesche delle quali offre una descrizione ricca di dettagli tecnico-artistici, in particolare sia sul piano della recitazione e della costumistica, che degli allestimenti delle ambientazioni sceniche e del rapporto scena-spettatore.

Due sono i riferimenti drammaturgici fondamentali di Pitrè, Il Riscatto di Adamo o il Mortorio di Cristo di Orioles, con tutti gli adattamenti, i plagi, le varianti operati nel tempo e nei luoghi più diversi della Sicilia, e la Pastorale nonché Lu viaggiu dulurusu di Maria e lu so’ spusu di Pietro Fullone. Nel primo caso Pitrè si sofferma sulle divisioni in scene degli spettacoli, sulle tipologie degli interpreti, professionisti o dilettanti che fossero, sul copione, sui luoghi scenici: chiese, piazze, strade e persino teatri regolari. Sappiamo così che la rappresentazione della Passione di Cristo, avveniva persino nel teatro Carolino di Palermo, il luogo scenico più importante della città che veniva adeguatamente addobbato a lutto, essendo «Abbrunato tutto il teatro e senza luce veruna»; come pure, fra gli altri, ospitavano scene della passione i teatri di Terrasini, Partinico, Casteltermini, Castelbuono.

L’idea del teatro a spazio totale, caratterizzata dalla partecipazione della comunità intera nelle diverse stratificazioni sociali così attentamente descritta da Kerzencev, uno dei protagonisti del teatro europeo nel suo Teatro creativo, è già nelle pagine di Pitrè. Per la rappresentazione a Longi, vicino Messina, non c’era abitante che non avesse una parte. In particolare «erano della maestranza i giudei e gli apostoli; galantuomini, Erode, Pilato, Caifas, Anna; il gallo, un contadino». Né mancavano le specializzazioni. Pietro, ad esempio, era «un vecchio galantuomo che nel momento del pentimento piangea e facea piangere lagrime di sangue» [9].

Al di là della vastità della mole di informazioni sulle estensioni del fenomeno parateatrale nell’Isola, le rappresentazioni della Natività, a loro volta, fanno rilevare da parte di Pitrè notizie di primaria importanza per una configurazione della storia del teatro in Sicilia. A titolo esemplificativo non si può non citare il personaggio di “Nardo”, buffo un po’ sciocco un po’ furbo sul quale Pitrè si sofferma a proposito della “pastorale agrigentina” dal titolo La Conversione di Santa Margarita da Cortona, azione sacra per Teatro di Acidrepaneo (Palermo, Ferrer, 1777). Il contributo di Pitrè alla valorizzazione di questo personaggio è senza dubbio rilevante nella storia di questa figura comica che, comparsa per la prima volta nella prima metà del Seicento, si ritrova a Palermo nella metà del Settecento impersonata da un singolare attore/marionetta descritto persino da Bartoli [10] e da Meldolesi [11] riscontrabile ancora oggi nel paese di Santa Elisabetta, nell’agrigentino, in forma di buffo disturbatore che si mescola fra la comunità festante il giorno dell’Epifania.

Nardu della Pastorale  di S. Elisabetta

Nardu della Pastorale di S. Elisabetta

A meglio identificare il rapporto fra il genere della “pastorale” e il teatro, Pitrè sottolinea il perdurare dell’antica consuetudine scenica secondo la quale i personaggi femminili erano interpretati spesso da uomini, come nel caso del ruolo della Madonna impersonato nel 1832 a Caltanissetta da un giovane poi diventato canonico; e non mancava di evidenziare nella stessa rappresentazione gli ingegni scenici: «un angelo spiccava rapidamente il volo dal coro superiore fin sopra l’altare maggiore annunziando la felice novella» [12].

La consuetudine di inserire nella rappresentazione della “pastorale”, ma anche in altri generi drammatici, in luoghi diversi della Sicilia, effetti speciali e soluzioni spettacolari, è colta sempre da Pitrè con particolare attenzione. Così a Mineo, in occasione della messinscena del Dittu, il contrasto finale fra angeli e diavoli prevedeva la creazione di «grandi fiammate di pece greca». E non mancano testimonianze ad effetto, come quella riguardante le recite teatrali fanciullesche di Luigi Capuana.

In alcuni casi la drammaturgia appare particolarmente composita e articolata, con presenza di cori, “a solo” attorali, interventi musicali che lasciano intravedere talvolta la supervisione di Padri Gesuiti, notoriamente maestri dell’arte scenica. E proprio all’eccellenza del teatro gesuitico, a sua volta trascurato dalla storiografia, fa riferimento Pitrè, confermando la sua predisposizione a cogliere aspetti fondativi della storia del teatro fino a quel momento ignorati. Bastano per tutti la descrizione de Il trionfo della Morte, inscenato dagli allievi del Collegio di Palermo durante il Carnevale del 1567 e la teatralizzazione urbana rappresentata a Mazara del Vallo in occasione del Festino di S. Vito del 1728. In particolare la Sacra Rappresentazione ispirata alla vita e al martirio di S. Vito, al di là dell’interpretazione mimica, è una spettacolarissima antologia di trucchi scenici, azioni crudelissime, esecuzioni raccapriccianti con torture a vista, apparizioni prodigiose di angeli, interventi miracolosi, distribuiti in piazze, slarghi, strade, secondo lo spirito del teatro a spazio totale in una città scossa da tante invenzioni.

L’attenzione rivolta da Pitrè al teatro gesuitico urbano si estende, più in generale, al genere delle processioni figurate diffuse in tutta la Sicilia, fra le quali particolare rilevanza dà al genere delle “casazze”, inteso come spettacolo di massa con cento e più personaggi. Il fiume umano vivacizzato dai numerosi colori dei diversi costumi, che invade gli assi portanti del paese, ma anche gli interventi di attori ambulanti, l’intrecciarsi di dialoghi durante il percorso, il transito di gigantesche macchine sceniche piazzate su grandi praticabili rotanti trascinati da diversi animali, rivelano nelle descrizioni di Pitrè conoscenza delle dinamiche della messinscena urbana gestite al di fuori del teatro istituzionale. Talvolta, nonostante l’esperienza acquisita nel settore, il Nostro viene scosso da realizzazioni di portata fuori dal comune, nelle quali non manca di registrare la presenza di dispositivi di platea di eccezionale estensione, come avvenne a Nicosia, dove per la festa di S. Francesco di Paola, nella piazza «giravano ben 180 parchi a tre ordini, pieni zeppi di spettatori», intanto che si esibivano otto bande musicali.

Quando si pensa all’utopia europea degli assertori dell’importanza del teatro di festa, non si può non riconoscere la modernità della visione di Pitrè che, proprio al limite del primo conflitto mondiale, era testimone di ciò che i padri fondatori della scena internazionale, come dicevamo, desideravano che avvenisse. E intanto che proprio loro facevano sì che non potendo raggiungere la forma totale del teatro en plen air prima del 1920, ossia prima degli spettacoli commemorativi della rivoluzione sovietica, mentre il grande Reinhardt avrebbe dovuto attendere il 1921 per potere finalmente mettere in scena Jiedermann nella piazza del Duomo in occasione del Festival di Salisburgo, Pitrè rilevava che anche in Sicilia la piazza era stata in grado di conquistare il teatro. Si riferiva alle tante rappresentazioni su palchi montati sia all’interno (nelle chiese) che all’esterno, dove il tutto urbano veniva sintetizzato nello spazio del palcoscenico. Come dire che la storia delle origini del teatro antico poteva ripetersi negli ignoti spazi del nostro teatro festivo. Come non riconoscere allora le fonti ispiratrici dei nostri grandi drammaturghi finalmente ammessi dalla storiografia nazionale (e non solo nazionale) del teatro, da Verga a Capuana a Pirandello, negli scenari della festa popolare da loro tradotti in teatro d’arte?

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Venerdì Santo a San Fratello (ph. David Seymour, 1955)

Stante la nostra prospettiva teatrologica, una collocazione ben diversa ha il contributo delle ricerche effettuate da Salvatore Salomone Marino, al quale va riconosciuto il grande merito di avere individuato nel Cinquecento eventi tra i più significativi che hanno dato avvio alla rifondazione di Palermo città-teatro e, più in generale, della specificità scenica della Sicilia. Al di là del pur fondamentale ruolo avuto dai Gesuiti nell’evoluzione dello spettacolo siciliano, rimasto tuttavia al di fuori dall’indagine del nostro, non si può non apprezzare l’attenzione rivolta allo spettacolo laico collegato alle committenze vicereali e del potere civico. Si tratta di eventi che sono entrati di diritto nella storia dello spettacolo in Sicilia e che hanno ritmato il tempo rifondativo del nostro Cinquecento.

La visione scenica di Salomone Marino è prevalentemente riscontrabile nel suo saggio Il teatro in Sicilia nel sec. XVI, rimasto a lungo inedito e pubblicato per la prima volta da Giuseppe Cocchiara nel 1942 [13]. Essa si basa sull’idea della festa urbana motivata da occasioni celebrative di particolare rilevanza, in riferimento alle quali egli si affida non soltanto agli esiti di storici locali, quanto soprattutto a documentazione di prima mano individuata attraverso ricerche effettuate, fra gli altri, presso l’Archivio (oggi) di Stato, gli archivi civici e privati, la Biblioteca Comunale di Palermo, spigolando fra i capitoli della città di Palermo, il fondo dei “notai defunti”, gli Atti del Senato e della Real Segreteria, memorie d’epoca. Il sommario riportato da Salomone Marino stesso riguarda:

  1. Il teatro in Sicilia nel Rinascimento. Memorie delle prime rappresentazioni.
  2. Luoghi dove le rappresentazioni erano esposte al pubblico.
  3. Apparato scenico ed attori: spese per quello e per questi.
  4. Musiche e musici: lor pagamento.
  5. Esposizioni di alcune rappresentazioni.
  6. Conclusione e notizie de’ drammatici autori italiani.

Nel quadro della vitalità scenica a Palermo prospettato da Salomone Marino si evidenziano in particolare tre grandi stagioni cinquecentesche collegate ad altrettanti vicerè, mentre una appendice ugualmente importante riguarda i festeggiamenti per le nozze fra Lorenzo Lanza ed Elisabetta Barresi nel 1603. Il panorama in questione mette in primo piano lo spettacolo cinquecentesco siciliano per eccellenza, ossia l’Atto della Pinta, rappresentato per la prima volta a Palermo nel 1538 su committenza del vicerè Ferrante Gonzaga e replicato più volte nel corso del secolo. In particolare alla replica del 1562, effettuata in occasione delle nozze delle due figlie del vicerè Giovanni La Cerda col Duca di Bivona e col Duca di Montalto, Salomone Marino dimostra una certa attenzione, mutuando dalla descrizione di Di Blasi, in quanto non ebbe modo di consultare il manoscritto a tutt’oggi esistente presso la Biblioteca del Monastero benedettino di S. Martino delle Scale. L’articolazione della messinscena dell’Atto della Pinta, costituisce in ogni caso una testimonianza di regolarizzazione di una forma di rappresentazione che si distacca dalle pratiche parateatrali preesistenti e che si rivela come sintesi originale di forme sceniche di diversa provenienza sovranazionale: dagli attos sacramentales spagnoli alla sacra rappresentazione rinascimentale al teatro medievale.

Particolarmente interessante appare altresì la descrizione dello spettacolo della Caccia artificiale, anch’esso rappresentato in occasione dei festeggiamenti per le nozze delle figlie del vicerè Medinaceli, che tuttavia è riscontrabile in un altro saggio di Salomone Marino pubblicato nel 1876 [14]. Sia per questo spettacolo che per quello del medesimo genere rappresentato in occasione delle nozze di Cesare Gonzaga, figlio del vicerè Ferrante nel 1542 [15], si rivela l’attenzione rivolta da Salomone Marino alla dinamica scenica fortemente caratterizzata da una vera e propria drammaturgia (nel caso dello spettacolo del 1542 ispirata all’Orlando furioso), con una serie di azioni eseguite prevalentemente a cavallo legate fra loro da uno sviluppo narrativo, nonostante la presenza della componente venatoria tipica delle consuetudini dell’aristocrazia siciliana.

5La descrizione delle forme di spettacolo realizzate in occasione delle nozze di ambito vicereale o/e dell’alta nobiltà costituiscono a loro volta un’altra testimonianza della visione scenica di Salomone Marino. Anche in questo caso, il corteo nuziale dalle caratteristiche aggiornate alla cultura rinascimentale, con esibizioni di musici, danzatori, cantori encomiastici, addobbi delle strade con fiori, arazzi e l’arco trionfale alzato sulla facciata del palazzo degli sposi, le giostre e i giochi cavallereschi sono intesi da Salomone Marino come espressione di quella teatralità urbana che è stata lo specifico della cultura dello spettacolo in Sicilia nel Cinquecento (e non solo nel Cinquecento). Né il Nostro coglie sostanziale separatezza tra queste forme aperte alla fruizione della comunità cittadina diffusa nelle strade e nelle piazze e le rappresentazioni teatrali in uso nel teatro dello Spasimo, aperto a tutte le categorie sociali, per la cui attività l’amministrazione civica forniva i dispositivi e l’arredo della platea e della scena. Non rimangono, al tempo stesso, al di fuori dell’indagine di Salomone Marino nel campo delle arti dello spettacolo le messinscene di commedie e tragedie realizzate negli spazi di condizione, come la “Galleria” del Palazzo Reale, il salone delle feste del Palazzo Civico, la sede della Congregazione dei Cavalieri d’Armi.

Prendendo atto che nella nostra Isola non potè maturare la pratica dell’attore professionista, per ragioni che ho ampiamente esposto in numerosi miei saggi sulla storia dello spettacolo in Sicilia, Salomone Marino illustra la pratica degli accademici, ma anche degli esponenti del clero dediti al teatro, il coinvolgimento di popolani in veste di figuranti e di dilettanti specializzati in ruoli specifici, questi ultimi regolarmente retribuiti, nonché i vari aspetti della logistica e dell’organizzazione degli eventi teatrali. L’analisi di Salomone Marino si estende anche al ruolo dei musici ed alla consuetudine di frapporre tra un atto e l’altro, soprattutto delle tragedie, spettacolari “intermezzi apparenti”, utili a meravigliare lo spettatore con sontuose invenzioni sceniche o intrattenimenti musicali.

Certo, al di là della dominante cinquecentesca, l’attrazione che Salomone Marino prova per la spettacolarità si estende, come è noto, anche a fenomeni non esclusivamente teatrali riguardanti il Medioevo: dalle stesse pompe nuziali nel Trecento e nel Quattrocento [16] agli interventi delle prefiche nelle chiese, nelle case, nei cimiteri [17]. La loro consuetudine di esibirsi cantando al suono di tamburi e strumenti rituali, abbandonandosi anche a bestemmie nei confronti del Creato, è stata attentamente studiata da Salomone Marino, in particolare attraverso le disposizioni di Federico III d’Aragona contro le solennità funebri.

Nel complesso si può dire che, per quanto meno etno-antropologo di Pitrè e più attento alla lettura del documento storico, Salomone Marino integrò in qualche modo il lavoro del Pitrè stesso e viceversa, essendogli peraltro negata dalla storia la possibilità di trovare, prima della seconda metà del Settecento, quella vastissima documentazione di tradizioni popolari della quale potè fruire Pitrè.

A questi due illustri siciliani va pertanto il mio personale debito di riconoscenza per avermi indicato l’opportunità di avviare 40 anni fa quel percorso scientifico che ha sostanziato una parte importante del mio lavoro di ricerca.

Dialoghi Mediterranei, n.23, gennaio 2017
 [*] Testo presentato al Convegno internazionale di studi, Pitrè e Salomone Marino a cento anni dalla morte, tenutosi a Palermo (23-26 novembre 2016).
Note
[1] A colmare questo vuoto storiografico è stata rivolta parte della mia attività di ricerca, i cui esiti si riscontrano nei miei saggi, fra i quali riporto di seguito: Festa teatro e rito nella storia di Sicilia, Palermo, Cavallotto, 1981; Feste Barocche a Palermo, Palermo, Flaccovio, 1981-6; La forma siciliana del teatro, Palermo, Ila Palma, 2000; Il teatro negato, Bari, Di Pagina, 2011.
[2] Sfuggì al Pitrè, tra le altre cose, l’influenza avuta nella drammaturgia del Cortile da parte del fenomeno del goldonismo in Sicilia, che nel caso specifico si individua nella derivazione culta dal Campiello. Così come non si accorse che la spinta al fenomeno teatrale topico fu data dall’esempio offerto a Piazza Marina dall’esibizione delle “pulcinellate” napoletane, dalle quali deriva buona parte dei titoli delle Vastasate pervenuteci. Nè sarebbe di minore rilevanza il fatto che il nostro non ebbe modo di approfondire la conoscenza della struttura tecnica e delle modalità di gestione dei casotti delle vastasate, alle quali chi scrive è pervenuto attraverso una paziente esplorazione presso il fondo “Notai Defunti” dell’Archivio di Stato di Palermo (cfr. l’appendice del mio La forma siciliana del teatro, cit.)
[3]  G. Pitrè , La vita in Palermo cento e più anni fa, Palermo, Alberto Reber, 1904
[4]  Ai segni 5 Qq A 53 A
[5] G. Isgrò (a cura di) , Lu curtigghiu di li Raunisi, Palermo, Associazione per la conservazione delle tradizioni popolari 1980.
[6] I. Buttitta , Lu curtigghiu di li Raunisi , Giannotta , Catania , 1975 .
[7] G. Pitrè, Il carnevale in Sicilia: appunti di Giuseppe Pitrè, Palermo, coi tipi del Giornale di Sicilia, 1893
[8] Sfuggì a Pitrè, ad esempio, la prima rappresentazione dello spettacolo più importante del Cinquecento siciliano, ossia l’Atto della Pinta del 1538, come pure quella del 1572 in onore di Giovanni d’Austria. Così come sovrappose all’Atto della Pinta lo spettacolo della “Caccia artificiale”, sul quale Salomone Marino, come si vedrà, è ben più preciso ed informato (cfr. Archivio Storico Siciliano n.s., I, 1876:69.
[9] G. Pitrè, Delle Sacre Rappresentazioni in Sicilia, in «ASS», I, 1876: 82.
[10]  F. Bartoli, Notizie istoriche de’comici italiani, Padova, Consatti, 1782, I, s.v. Nardu
[11] C. Meldolesi, Esperienze del Sette-Ottocento in Sicilia fra pre teatro e teatro d’arte in Prima e dopo il teatro, atti del convegno (Fisciano, 27- 29 marzo 1990), Salerno, Obliquo, 1990:158.
[12] G. Pitrè, Delle Sacre Rappresentazioni in Sicilia, cit.: 91.
[13] G. Cocchiara, Inediti di S. Salomone Marino: sul teatro in Sicilia nel secolo XVI, in «LARES», XIII, n. 4, agosto 1942.
[14] S. Salomone Marino, Le pompe nuziali e il corredo delle donne siciliane nei secoli XIV, XV, XVI in «ASS», cit.: 214-15. La fonte storica in questo caso è Di Giovanni, Del Palermo restaurato, in «Biblioteca Storica e Letteraria di Sicilia», II, Palermo, Pedone Lauriel, 1877: 166.
[15] Per la fonte di questa rappresentazione si veda Paruta-Palmerino, Diario della città di Palermo, in «Biblioteca Storica e Letteraria di Sicilia», cit., I: 12-13.
[16] S. Salomone Marino,  Le pompe nuziali , cit.
[17] S. Salomone Marino, Le reputatrici in Sicilia nell’età di mezzo, Palermo, Giannone-Marino,1886.

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Giovanni Isgrò, docente di Storia del Teatro e dello Spettacolo  presso l’Università di Palermo, è autore e regista di teatralizzazioni urbane. Ha vinto il Premio Nazionale di Saggistica Dannunziana (1994) e il premio Pirandello per la saggistica teatrale (1997). I suoi ambiti di ricerca per i quali ha pubblicato numerosi saggi sono: Storia del Teatro e dello Spettacolo in Sicilia, lo spettacolo Barocco, la cultura materiale del teatro, la Drammatica Sacra in Europa, Il teatro e lo spettacolo in Italia nella prima metà del Novecento, il Teatro Gesuitico in Europa, nel centro e sud America e in Giappone. L’avventura scenica dei gesuiti in Giappone è il titolo dell’ultima sua pubblicazione.

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