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Voci e suoni dalle tonnare messinesi. Storia, lavoro, devozione e canti

 La pesca del tonno,acquaforte di Jean-Pierre_Houël

La pesca del tonno, acquaforte di Jean-Pierre Houël

 di Mario Sarica

Le tracce più remote di pesca del tonno nel Mediterraneo sconfinano nella preistoria. In ambito siciliano, ad attestare la plurimillenaria pesca, le incisioni rupestri dell’isola di Levanzo nelle Egadi che raffigurano dei tonni. A Messina, in un sito archeologico riferibile all’età del bronzo, a conferma dell’arcaica e diffusa pratica di pesca, sono riaffiorati, non molti anni fa, grossi ami e ossa di grandi pesci riferibili, fra gli altri, a tonni e pesci spada.

Le prime testimonianze storiche riferite ad impianti fissi di pesca, simili alle tonnare giunte fino a noi, in grado, dunque, di intercettare lo stagionale flusso migratorio dei branchi di tonni lungo le coste mediterranee, risalgono ai Fenici. A quanto riferisce Aristotele, fu proprio questo primo popolo migrante nel Mediterraneo, a sperimentare delle rudimentali postazioni fisse di pesca lungo le coste iberiche.

In età greca e romana molti sono gli autori che descrivono la cruenta pesca del tonno. Fra gli altri, citiamo: Omero (IX sec. a.C.), che fa esplicito riferimento alla cattura non solo dell’ambìta preda marina, ma anche dei pescispada, con sistemi di reti, proprio nel mare di Scilla e Cariddi; Erodoto (V sec. a.C.), si sofferma invece a parlare delle reti disposte ad arte e dei tonni ‘panciuti’che rimarrano impigliati; Archestrato (IV sec. a.C.), nel poema in versi “Gastronomia” accenna alla bontà dei tonni siciliani e in particolare a quelli catturati sulla spiaggia di Tindari; Strabone, Plinio il Vecchio e Plutarco (I sec. d.C.) argomentano poi sulle grandi migrazioni mediterranee dei tonni e dei vari metodi di cattura.

Le tonnare di Sicilia  

Dagli Arabi ai Normanni  

Le prime fonti storiche di tonnare siciliane risalgono all’epoca normanna, sebbene già, sotto il dominio degli Arabi, la pesca del tonno lungo le coste isolane sembra fosse  ampiamente praticata. È verosimile che proprio agli Arabi (subentrati ai Bizantini nel dominio dell’Isola dall’827 al 1061) si deve la stabilizzazione degli impianti fissi lungo le coste siciliane, oltre che l’organizzazione della manodopera e, ancora, del “barcareccio” e degli opifici sulla linea di costa per la lavorazione e la conservazione del pescato.

L’indelebile impronta araba nella millenaria pesca del tonno è d’altra parte evidente nella sopravvivenza, fino ai giorni nostri, di idiomi riferiti alla vita di tonnara, quale il termine rais, per indicare il capo della ciurma di tonnaroti; marfaraggio relativo al complesso di edifici, capannoni, opifici, ovvero agli impianti fissi di terra delle tonnare; cialoma, versi cantati, per meglio sincronizzare ritmicamente la raccolta delle reti della camera della morte; muciara,  tipica barca di tonnara; bordonaro, una delle camere del complesso di reti della tonnara; faratico, un’altra delle camere dell’impianto di tonnara; gabbana, un’altra barca, così chiamata per una sorta di capanna che veniva montata per riparare dal sole i pescatori che montavano la guardia.

Con l’arrivo dei Normanni in Sicilia le tonnare siciliane acquistano un ruolo centrale nell’economia dell’Isola, sedimentando un patrimonio di cultura della pesca che giungerà fino ai nostri giorni Da quella lontana epoca storica, con la sua prelibata carne, consumata fresca o preparata sotto sale in barili o botti di legno o conservata mediante affumicatura, essicagione o marinatura, il tonno conquisterà non solo i siciliani, ma anche tutti i mercati del Mediterraneo. La ricercata “tonnina” siciliana, esportata in grossi partite o venduta per gli approvvigionamenti delle navi in transito lungo le coste siciliane, per la sua rilevante valenza economica suggerisce ai  dominatori dell’Isola di stabilire nuove regole di mercato e il controllo del potere centrale sulla pesca del tonno. I Normanni infatti aboliscono il millenario “libero diritto di pesca sul mare” per assumerne direttamente il controllo, regolato da concessioni date a Nobili, alla Chiesa nelle sue massime espressioni  e ad ordini religiosi, che avessero acquisito particolari meriti verso la Corona, sia per calare le reti in mare, dunque per allestire gli impianti fissi, sia per costruire e mantenere in esercizio sulla riva il cosiddetto marfaraggio. 

 

Tonnara di San Giorgio, di Gioiosa Marea, primi 900. coll. Giardina

Tonnara di San Giorgio, di Gioiosa Marea, primi 900 (coll. Giardina)

Le tonnare lungo la costa tirrenica messinese

 Da capo Faro al golfo di Patti 

Grazie alle nuove regole introdotte dai Normanni, che investono su una risorsa di pesca di straordinario potenziale economico e su pratiche di lavoro specializzate preesistenti e fortemente radicate lungo le coste isolane, le tonnare siciliane cresceranno vertiginosamente di numero, confermando una qualità di cultura della pesca crescente e una prosperità nella gestione dell’impresa, che giunge miracolosamente e sostanzialmente fino ai nostri giorni, fedele ai valori di vita della tradizione trasmessi di generazione in generazione.

Volgendo ora uno sguardo storico quattrocentesco lungo la linea di costa tirrenica messinese, osserviamo ben sedici tonnare distribuite fra Capo Faro e Capo Calavà. Le reti per intercettare i branchi di tonni di “andata” si calavano a Mortelle, Acqualadrone, Rasocolmo, Picculu o Venetico, Grande di Milazzo, Silipo o Cattafi, Capo Bianco, S. Antonino o Capo Milazzo, Tono di Milazzo, Pisciuni o Calderà, Albergatori, Gaggia, Furnari, Oliveri, Roccabianca, San Giorgio. Ancora sulle tonnare calate immediamente oltre capo Faro o Peloro, riportiamo  quanto scritto in Mattanza. Le tonnare messinese scomparse di Li Greci-Berdar-Riccobono con introduzione di Rocco Sisci, una delle principali fonti bibliografiche su questo tema di riceca di cultura di pesca millenaria siciliana.

«L’esistenza, a ridosso di capo Peloro, dopo la larga spiaggia di Mortelle-Casabianca, di una contrada denominata del Tono trova probabilmente origine nelle attività tonnarote, forse sperimentali, svolte un tempo in quel tratto di mare. Il tratto di costa oltre “Rais colmo”, oggi capo Rasocolmo, nell’Ottocento venne richiesto in concessione da alcuni mercanti messinesi per calare una tonnara detta di “Santo Saba” e di “Castanea”, dal vicino Casale, riportata come “Santa Sava” dal Pavesi, attiva per soli tre anni, probabilmente a causa delle forti correnti, e poi dimessa con la cessione di tutta l’attrezzatura alla tonnara del Porto di Milazzo».

Così come succedeva per i terreni agricoli, i cosiddetti feudi, anche la gestione delle tonnare era esclusivo privilegio delle famiglie dell’aristocrazia siciliana o delle istituzioni ecclesiastiche, che ne traevano cospicui redditi e prestigio sociale, esercitando potere sulla forza lavoro, che a vario titolo partecipava all’impresa. La rilevanza delle tonnare per l’intera economia siciliana è d’altra parte rimarcata dall’indotto, per usare un’espressione di moda oggi, che riuscivano ad alimentare. Si pensi, oltre al cospicuo numero di lavoratori stagionali  in tonnara, ai tanti  maestri d’ascia impegnati nella costruzione delle barche, la cosiddetta “flotta nera”, agli artigiani addetti alla preparazione delle botti e confezionamento di cordame e reti, alla manodopera per la trasformazione e conservazione del pescato, al trasporto e commercializzazione del ricercato tonno. Dalle tonnare le finanze del Regno di Sicilia traevano un reddito cospicuo, secondo soltanto a quello proveniente dalle dogane, attestato, peraltro, dalla ricerca di nuovi siti da destinare al fiorente ciclo di pesca. Fra Cinque e Seicento il rendimento delle tonnare siciliane si mantiene elevato; dagli inizi del Settecento, invece, si registra un periodo di relativo decremento che si protrarrà per tutto il secolo XVIII. Il numero di impianti fissi lungo le coste rimane tuttavia sostanzialmente invariato, raggiungendo il ragguardevole numero di settanta, di cui solo cinquanta pienamente funzionali, così come ci fa sapere attorno alla metà del Settecento l’erudito palermitano marchese di Villabianca. Agli inizi dell’Ottocento il milazzese marchese D’Amico indica poco meno di cinquanta tonnare, dandone per attive lungo tutte le coste siciliane solo trentacinque.  Le tonnare messinesi, sulla base di questo censimento, sono nove:  Tono di Milazzo, S. Antonino a Capo Milazzo, Capo Bianco o Pepe (a levante del promontorio di Milazzo), Silipo o Vaccarella, Porto di Milazzo, Salicà, Oliveri, Rocca Bianca e S. Giorgio di Patti.. Nel Novecento il declino delle secolari tonnare siciliane è inarrestabile, fino alla loro definitiva scomparsa, che si registra alla metà degli anni Sessanta. Come memoria storica di una pesca millenaria da offrire ai turisti e agli appassionati, resterà attiva  fino ai nostri giorni solo quella di Favignana, assistita finanziariamente dalla Regione Siciliana. Lunga la costa messinese a resistere più a lungo, all’avanzare impetuoso della modernità, sono le gloriose tonnare di S. Giorgio di Gioiosa Marea, Oliveri e Tono di Milazzo. Quest’ultima, tenacemente e in perfetta solitudine, calerà le sue reti per l’ultima volta nel 1966, chiudendo così una nobile storia siciliana di pesca di antichissime origini.

 Pianta struttura tonnara di San Giorgio di Gioiosa Marea (foto Giardina)

Pianta struttura tonnara di San Giorgio di Gioiosa Marea (foto Giardina)

 Gesti di  lavoro, segni rituali e versi cantati in tonnara

Appunti di una ricerca sul campo

Al pari di altri contesti lavorativi di cultura tradizionale, anche in occasione della pesca del tonno si attivava un codice di comunicazione ritmico-sonoro ed espressivo-musicale afferente sia a specifiche sequenze lavorative sia, più in generale, ad esigenze di espressione individuale e collettiva. A ridare vita, anno dopo anno, a queste peculiari forme verbali-sonore era la ciurma, ovvero la comunità di lavoro della tonnara, regolata al suo interno da una rigida gerarchia di ruoli presieduta dal rais, che viveva un’esperienza di lavoro totalizzante, rivolta essenzialmente a «trasformare la natura selvaggia in strumento dell’umanizzazione».

Il contesto ergologico della tonnara, dunque, oltre ad attivare un processo produttivo economico rilevante, si configurava come un luogo privilegiato della memoria collettiva e di replica di valori di vita della tradizione, posto al confine fra devozione e lavoro, natura e cultura, realtà e rappresentazione di sé e dell’altro. Entro le coordinate spaziali  e temporali delimitate dalla tonnara, che sancivano un forte legame tra terra e mare, umano e selvaggio, si replicano, consolidate dall’esperienza, gesti e pratiche di pesca antichi, che andavano a coniugarsi in maniera indissolubile a rituali propiziatori, ritmi di lavoro, canti, che si  rivestivano anche di singolare valenza simbolica. La funzione essenziale svolta da questo peculiare codice di comunicazione rituale-espressivo-musicale era quella di sottrarre «il momento del lavoro al mondo della contingenza, dell’insicurezza, proponendo una sorta di decollo verso la dimensione assoluta della necessità, e dunque della sacralità».

La minaccia immanente delle variabili meteorologiche (vento e corrente), poste fuori dal controllo dell’uomo, e pertanto temibili e rischiose, perché in grado d’insidiare l’estenuante lavoro svolto per giorni e giorni dalla ciurma, fino al punto di danneggiare l’ordito di reti, imponeva ai tonnaroti, fin dalle prime operazioni di calo delle reti, di invocare ritualmente la protezione divina. Il primo atto di sacralizzazione dello specchio di mare dove veniva installata la tonnara, secondo le fonti relative a quella del Tono di Milazzo, aveva luogo con l’immersione di una piccola statua lignea di S. Antonio e, successivamente, con le prime operazioni a mare, mediante l’intonazione cadenzata in forma responsoriale di versi devozionali rivolti ai Santi patroni, a Gesù Cristo e a Dio Padre.

L’inderogabile tema rituale, che acquistava anche coloriture apotropaiche per auspicare l’arrivo copioso dei branchi di tonni, si replicava sincronicamente con le ultime fasi di allestimento dell’ “isola”, ovvero il corpo centrale della tonnara mentre si eseguiva la cucitura delle reti che delimitavano le pareti delle camere, attraverso le quali i tonni sarebbero giunti confusi e disorientati a quella della “morte”, che fatalmente li offriva agli arpioni dei tonnaroti come indifese vittime sacrificali per la finale e sanguinosa mattanza.

Sempre in tema di sacralizzazione della tonnara si ha memoria, sempre in area messinese, di una pratica rituale più arcaica affidata al carisma verginale di una donna. Liberando nel mare che “avvolgeva” la tonnara la propria orina, la donna, secondo la credenza popolare, ripeteva un rito di fecondità iniziatico. L’ordito di reti della tonnara, nella sublimazione simbolica, rappresentava infatti l’utero femminile fecondato dal mare che, a distanza di pochi giorni, sarebbe stato gravido di tonni.

Registro paga, Tonnara di S. Giorgio (foto Giardina)

Registro paga, tonnara di S. Giorgio (foto Giardina)

 Il calo della tonnara

Le complesse operazioni di messa a mare delle reti richiedevano agli uomini della ciurma un impegno corale in cui si combinavano azioni lavorative individuali di grande abilità e padronanza tecnica da svolgere, peraltro, in uno spazio di tempo relativamente breve, e in ogni caso determinato dalle condizioni del mare.

Ma lasciamo ora che siano le parole di Peppinu Cambria – quasi ottantenne quando l’abbiamo conosciuto negli anni Novanta, di Vaccarella, tonnarotu della ciurma del Tono di Milazzo dal 1927, appena diciasettenne, fino al 1966, quando l’antica tonnara di Milazzo fu dismessa – a raccontarci con grande passione e accenti quasi epici, le ultime operazioni di calo della tonnara, anche queste scandite da un invocazione rituale collettiva, dove è possibile scorgere la persistenza di valenze magico-sacrali:  

«Quannu a tonnara è tutta cruciata, u rasi, prima da spunta du suli, nesci ca muciara e cannalìa pi vìdimi si a correnti è di praia, e spetta finu u spuntari i suli, quannu a corenti po’ conciari. Si a corenti è di praia, e si manteni i praia,, u rasi dà u signali a chiurma ddumannu u foci ca disa e mustrannu a bannera. U guardianu, allura, sona a campana da capella. E’ l’avvisu pa chiurma i varari i barchi. ‘E dicemu viva Maria !…picciotti allistemu!…semu pronti!…sia ludatu u nomi di Gesù!…Arrivati dda fora u Sant’Andria si metti o latu i fora e u San Giuvanni o latu i terra e e si trasunu i latirali da tunnara. Si pigghia u musattu bastardu du latu i fora e du latu i terra e si mettti supra a puppa du Sant’Andria e du San Giuvanni. Poi si nesciunu i menzi potti e quattro pirsuna i cuciunu cu ghiummu e ddu cantuneri du musattu bastardu. U rasi, intanto, manna i barchi pi cannaliari, picchì nta buccola chi c’è nta catina da cantunera du musattu bastardu s’avi ttaccari nta l’assi i funnu. Nautri di brachi sunnu pronti cu l’ancori pi nguantari i cantuneri».

A presiedere queste complesse fasi finali di allestimento della tonnara, c’è ancora una volta il rasi che, con ordini perentori e inderogabili, impone con grande tempestività le singole scansioni lavorative. Al suo grido incalzante «picciotti allistemu», gli uomini della ciurma a bordo dei due palascarmi, rispondono «semu pronti, rasi!». La tensione che alimenta il lavoro concitato dei tonnaroti si scioglie al grido imperioso del rasi: «Dicemu un credu a Sant’Antuninu…tagghia… sia ludatu u nomi di Gesù…vira giovini, vira!». A questo comando liberatorio, coniugato all’invocazione divina perché preservi il lavoro degli uomini e il buon esito della campagna di pesca, gli uomini della ciurma tagliano col coltello un pezzo di corda, la sicurezza, liberando così le ancore che s’immergono rapidamente tra il fragore delle maglie delle catene.

L’ultima fase di lavoro che spetta alla ciurma prima di dichiarare la tonnara in pesca, è l’ancoraggio del pedale o cuda che collega saldamente l’“isola” alla terraferma, fungendo anche da sbarramento per i branchi di tonni in arrivo. Nella tonnara del Tono – precisa Cambria, vera memoria storica – il pedale dalle reti fin sulla spiaggia, dove veniva ancorato, misurava 500 canne (925 metri). 

 Rais e tonnaroti, Tonnara S. Giorgio di Gioiosa Marea (coll. Giardina)

Rais e tonnaroti, tonnara S. Giorgio di Gioiosa Marea (coll. Giardina)

La “cialoma” 

Segno distintivo ritmico-vocale, comune a tutte le tonnare, era la cialoma, etimo di incerta origine quasi certamente di derivazione araba. Tutti i ricercatori che in Sicilia si sono occupati di pesca tradizionale sono concordi tuttavia nell’individuare nella cialoma una espressione vocale cadenzata dagli spiccati contenuti ritmici, un tempo connessa a molte pratiche di pesca e, dunque, non soltanto esclusiva in ambito di tonnara.

Secondo la testimonianza di Peppinu Cambria, la cialoma (ciloma nella parlata dei tonnaroti milazzesi) veniva intonata «quannu si mittia a tunnara a mari», più in particolare «quannu si cazzaunu l’ancuri», un’operazione, quest’ultima, fondamentale per allestire l’“isola”, ovvero il complesso sistema di reti a camera, in quanto consentiva di fissare saldamente sulle catene delle ancore i “bordi” principali della tonnara, cioè «i summi i fora e chiddi i terra». Proprio in queste concitate fasi, che imponevano un coordinamento d’insieme del gesto lavorativo e quindi l’assunzione di una inderogabile cadenza ritmica collettiva, uno dei quattro componenti l’equipaggio di ogni barca intonava da solista la cialoma, cui seguiva la risposta corale degli altri compagni di lavoro.

La cialoma, replicata secondo una formula vocale responsoriale, marcava in sostanza il tempo dell’iterazione ergonomica, assolvendo anche la funzione di attenuare la fatica e il dispendio di energie fisiche.

«E sta tunnara, sempri mi fràia

E di punenti finu ai livanti

E lu sciroccu è malu cani…»

 L’analisi del documento sonoro rivela che l’elementare profilo melodico dei versi della cialoma poggia su una cadenza ritmica regolata dall’iterazione del gesto lavorativo. Ancora sul versante musicale, c’è da aggiungere che la cialoma  si sviluppa lungo una linea vocale assimilabile al canto declamato con corda di recita. Da osservare poi che l’unità base della cialoma si compone di tre parti, rispettivamente scandite dalla prese di fiato. Le prime due si ripetono identiche, la terza presenta una piccola variante melodica con chiusa finale.

Sui contenuti verbali della cialoma, bisogna osservare che i versi, oltre ad auspicare una tonnara ricolma di pesci «e sta tunnara sempri mi fràia», fanno esplicito riferimento alle mutevoli condizioni del mare e, più in particolarmente, al temuto vento di scirocco, aggettivato metaforicamente malu cani, perché traditore e nefasto, e all’imprevedibile corrente, che deve essere di praia, cioè in risalita dalla spiaggia (di terra), per favorire al meglio la messa a mare delle reti.

Proprio lo scirocco malu cani del 1935 –  ricordava Cambria – «fici annari i traversu tutti i tunnari i Milazzu», compromettendo seriamente la campagna di pesca. 

mattanza, tonnara di San Giorgio, (coll. Giardina)

Mattanza, tonnara di San Giorgio  (coll. Giardina)

Il canto delle tonnare del golfo di Patti 

Ai giorni di lavoro intenso, circa quindici – oltre la metà del mese di maggio –  necessari per calare a mare le reti ed allestire l’“isola”, per i tonnaroti seguivano lunghi giorni di sostanziale inattività, che mutavano d’improvviso e radicalmente la percezione del tempo e delle scorrere delle ore. I trentatré uomini della ciurma, singolarmente, quanti gli anni di Cristo!, che presiedevano la tonnara, dal palascarmo Sant’Andria, a turno, si trasferivano sulle barche poste lungo il perimetro del’isola di reti, spingendo lo sguardo lungo la costa di ponente, abbracciando così tutto il golfo di Patti, fino a capo Calavà, da dove sarebbero giunti i tonni

Per compensare la monotonia e l’improvvisa sensazione di dilatazione del tempo, dovuta alla sosta forzata, la ciurma di tanto in tanto intonava il canto delle tonnare.

«Mentri èrumu in pisca – racconta Cambria – quannu nun c’era nenti i fari e l’occhi si naccaunu, a llocu mi nni pigghia u sonnu, ogniduno cantava a storia di li tunnari. Fùrunu i vecchi chi ci nisceru a storia e tunnari. Iò carusu ricoddu chi sta canzuni a cantauno puru a bonanima i me nonnu e me ziu».

Dietro il profilo  musicale e il livello verbale, che costituiscono la trama della comunicazione del canto, è possibile individuare due funzioni parimenti dominanti, quella “alleviativa” e di “compensazione” che si oppone, nel tentativo di neutralizzarle, alla monotonia e alla passività imposte dalla vigilanza che bisogna prestare alla tonnara; l’altra, invece, specularmente, rafforza, rievocando la memoria dei padri, la coscienza dell’Io, ribadendo così i legami con la propria identità culturale, che  interagisce con il vissuto del presente. Tale funzione compensativa-rafforzativa-psicologica si affida in maniera esplicita all’esecuzione del canto, e dunque alla narrazione orientata a riaffermare valori di vita e forme di lavoro stabili e condivisi da tempo immemorabile.

Quella raccontata dal canto è tuttavia una storia singolare, perché vista e vissuta dal punto di vista dei tonnaroti del Tono. I versi, che disegnano immagini di vita in tonnara di particolare suggestione, rivendicano con fierezza il primato della tonnara del Tono su tutte le altre del Milazzese e di quelle di Salicà, Oliveri e San Giorgio di Gioiosa.

«Lu Tonu è lu pineddu di lu mari»

Sprezzante e perentorio il giudizio sulle altre tonnare: 

«Luveri, Luveri non ti fari cchiù valenti…Lu Pipiceddu calata sutta lu Ruccuni/e quannu leva pigghia pisantuni…»

Nel testo del canto delle tonnare non manca il riferimento alla protezione che si implora ai Santi e a Dio Padre, per assicurarsi il buon esito della campagna di pesca:

«A tunnaredda calata dareti / Sant’Antuninu la possa aiutari»

Il timore e la minaccia immanente di sfavorevoli condizioni di mare, che possano mettere improvvisamente a repentaglio la tonnara ritorna spesso nei versi come tema dominante:

«Quannu lu Tonu non pigghia nenti / iavi rema di Capu e acqua ianca…

Lu Capu Iancu tunnara ranni / e tunnara famusa / chi sta suggetta a rema e timpurali»

Anche i rapporti tra ciurma e proprietario della tonnara, spesso conflittuali, trovano posto in maniera emblematica, e con giudizi impietosi e inappellabili all’interno del canto: 

«Tunnara di Milazzu, non ci anari / chi ci stà ddu gran cani di Bajeli/quannu chi la ciurma non avi nenti i fari / li manna a fari ebbe cu li muli…Tonnara i Santa Lucia, tonnara di rina / chidda chi puttò a famigghia Chiovu a la ruvina…»

Nei confronti del rasi, garante nei confronti del padrone e della ciurma della gestione complessiva della tonnara, depositario del sapere e leader incontrastato e rispettatato, i versi evidenziano con grande efficacia il suo stato d’animo di grande sofferenza per le stagioni di pesca avare di tonni: 

«Rasi Vicenzu cu rasi Camarda / si manciaunu lu sensu e la midudda / ’comu ama fari cu sti pisci av’annu / la testa ni npizzaru pi lu funnu / la muciara c’annava a livanti e punenti/e pisci non nni vidi nudda ura»

Tonno arpionato a riva, Tonnara di S. Giorgio (coll. Giardina)

Tonno arpionato a riva, tonnara di S. Giorgio (coll. Giardina)

La mattanza

Quando la tonnara era in pesca, la snervante attesa, scandita dai turni di guardia, poteva protrarsi per giorni, ma alla vista della gabbanata i tunni cu pineddu a pelo d’acqua che, dopo essere entrati nel golfo di Patti, subendo le prime mattanze nelle tonnare di San Giorgio, Oliveri, Salicà, giungevano nto basciu du Tonu, gli uomini della ciurma, mentre osservavano le convulse fasi in cui i pesci entravano nto spigu mastru, ossia nella bocca della tonnara, si lasciavano contagiare da una febbrile eccitazione.

I tonni storditi e disorientati si aggiravano disperati fra le reti in cerca di una impossibile via di scampo, giungendo così fatalmente nella camera della morte, a contatto con la pesante e spessa rete, la culica, che li avrebbe avvolti in una spirale di morte. Solo allora il rais lanciava l’imperioso comando «Leva! Isamu giovini, isamu!», seguito dalle grida degli uomini della ciurma «ambascila, ambascila!», che iniziavano così ad issare la pesantissima rete.

Quando la raccolta della rete si faceva più incalzante, i tonnaroti, ma non nel caso del Tono – così ha riferito Cambria – iniziavano ad intonare ritmicamente la cialoma, replicata con il consueto schema responsoriale

«E iamola e senti a mmia…giuvini beddi di Maria…e chi semu figghi toi…e rispunni cu è chiamatu corpu santu lariatu…ca criasti luna e suli, ca criasti tanta genti…a questo punto seguiva la risposta all’unisono della ciurma “eiamola…eiamola !”».

Quando, infine, la rete era quasi a pelo d’acqua, bene incastellata nel quadrato dei parascalmi che delimitava lo spazio rituale della sanguinosa ed epica mattanza, che si declina con temi arcaici di lotta fra l’uomo e la natura e con il martirio salvifico di Cristo – e qui torniamo al racconto di Cambria – il rasi, avvolto in una cerata, posto supra a muciara, al centro dello specchio d’acqua – lastra tombale dei disperati tonni – dopo aver invocato la protezione di Dio Padre, della Madonna, dei Santi Patroni, cui seguiva il grido liberatorio della ciurma, dava il segnale convenuto ai suoi uomini, ormai sovraeccitati ed impazienti di arpionare i tonni.

La mattanza per tradizione – precisa Cambria – aveva inizio solo «quannu u suli era iautu supra u casteddu». I pinni i jaddu e i pinni i jaddina, così sono indicati i micidiali arpioni (crocchi),

«venivano fulmineamente usati dagli uomini della ciurma per infilzare e agganciare impietosamente i tonni che, per pochezza d’acqua, saltavano, investendosi a vicenda, in preda al panico, fino alle convulsioni mortali. Le vittime sacrificali, fra violenti colpi caudali, lasciavano infine le acque ribollenti di sangue, e sospinti impietosamente dagli arpioni, scivolavano pesantemente dal bordo dei parascalmi fino al fondo degli stellati di chiglia».

Alla fine della mattanza, che poteva prolungarsi per ore, il rasi, ponendo un sigillo al cerchio rituale sacro che proteggeva la terribile mattanza, innalzava un ringraziamento a Dio per il buon esito della pesca «Sia ludatu u nomi i Gesu !». Seguiva l’ispezione alle reti, il riposizionamento del palascarmu Sant’Andria rimettendo così in pesca la tonnara. Nel frattempo, i tonni affastellati sul parascalmo venivano portati a terra per essere trasferiti nello stabilimento per la spoliazione, squartatura, tranciatura, bollitura in soluzione salina, cui seguiva l’asciugatura sui cannizzi, l’inscatolamento selettivo, l’oliatura e la pastorizzazione.

 Tonni trasportati su carrelli nei magazzini di lavorazione, tonnara di S. giorgio (coll. Giardina)

Tonno trasportato su carrello nei magazzini di lavorazione, tonnara di S. Giorgio (coll. Giardina)

Il canto “A campagnola” chiude la stagionale campagna di pesca del tonno 

La lunga campagna di pesca del tonno, che aveva inizio attorno alla metà di maggio, si protraeva per settimane, alternando alle ore di guardia, in vista dell’arrivo dei branchi di tonni, le mattanze e il successivo trasporto del pescato a terra. Quando ai primi di luglio la migrazione stagionale dei tonni, giunti nelle tiepide acque del Tirreno meridionale lungo le coste siciliane per riprodursi, aveva fine, la ciurma, ancora una volta guidata dal rasi, dava inizio alle lunghe e faticose operazioni di smontaggio della tonnara, che andavano avanti per circa dieci/quindici giorni.

La chiusura della stagione di pesca, nonostante la fatica accumulata, metteva allegria alla ciurma, e tutti gli uomini erano contagiati dall’euforia, soprattutto quando la mattanza era stata generosa di tonni e, in ogni caso, perché avrebbero ricevuto il saldo delle spettanze conteggiate in percentuale sull’ammontare del pescato che, oltre ai tonni, comprendeva anche pescispada, allunghe e sgombri. Per alleviare le faticose e ultime scansioni di lavoro, di tanto in tanto, qualcuno della ciurma intonava “A campagnola”. 

«Sta canzuna si cantava – racconta con nostalgia Cambria –  quannu sappaumu l’ancuri e i catini. Unu cuminciava a cantari e l’autri ci annaunu dareti. A campagnola nni facìa allianari, nni scuddaumu u travagghiu e nni mittia allegria».

Preliminarmente è opportuno osservare che questo canto, sebbene connotato da una specifica valenza funzionale, non può essere assimilato in maniera esclusiva ai repertori vocali-ritmici, quale la cialoma. Piuttosto A campagnola è un canto sul lavoro e non di lavoro. Ciò nonostante il canto presenta una variante esecutiva che lo riporta nel contesto di tonnara. Si tratta di un esplicito incitamento al lavoro «Vira, giuvini! Oggi e dumani vira!» che si configura come un verso cadenzato, con funzione di cesura tra una strofa e l’altra.

Etichetta (foto Giardina)

Etichetta (foto Giardina)

Sul piano testuale, il canto è centrato sulla figura femminile della Campagnola, che sublima il desiderio sessuale o l’approccio sentimentale, inibito dalla “clausura” maschile imposta dallo stare in tonnara e dalla conseguente e forzata lontananza da mogli o fidanzate. Così, pur di soddisfare i capricci e le voglie della Campagnola, e quindi conquistarla e spassarsela fra “pìzzichi e baci”, si è disposti a comprargli “scarpine, calzine e reggipetto alla moda”.

È quanto mai opportuno precisare che la Campagnola non era di certo una figura femminile, come dire, idealizzata, e dunque estranea all’esperienza esistenziale dei tonnaroti. La rigogliosa campagna della piana di Milazzo si estendeva diffusamente fino a lambire il litorale, confinando così con il dominio interamente maschile del mare e della pesca. Le campagnole, che giungevano in squadre dai paesi collinari per affollare stagionalmente le campagne di Milazzo in occasione della raccolta di gelsomini, ortaggi e agrumi, erano dunque una presenza abituale, che alimentava l’immaginario femminile degli uomini della ciurma.

A campagnola accompagnava, per così dire, il ritorno degli uomini della ciurma all’esperienza quotidiana ordinaria, vissuta tra le necessità di vita, i ricordi di tonnara e l’attesa per la successiva campagna di pesca, fonte irrinunciabile di sostentamento per la famiglia, e occasione per testimoniare  la piena adesione individuale e collettiva ai valori della tradizione, che orientavano stabilmente la vita della comunità.

Dialoghi Mediterranei, n.21, settembre 2016

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Mario Sarica, formatosi alla scuola etnomusicologica di Roberto Leydi all’Università di Bologna, dove ha conseguito la laurea in discipline delle Arti, Musica e Spettacolo, è fondatore e curatore scientifico del Museo di Cultura e Musica Popolare dei Peloritani di villaggio Gesso-Messina. È attivo dagli anni ’80 nell’ambito della ricerca etnomusicologica soprattutto nella Sicilia nord-orientale, con un interesse specifico agli strumenti musicali popolari, e agli aerofoni pastorali in particolare; al canto di tradizione, monodico e polivocale, in ambito di lavoro e di festa. Numerosi e originali i suoi contributi di studio, fra i quali segnaliamo Il principe e l’Orso. il Carnevale di Saponara (1993), Strumenti musicali popolari in Sicilia (1994), Canti e devozione in tonnara (1997).

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