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“Vita Mia“ di Pietro Consagra. Scrittura di sé e testamento estetico

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di Mariachiara Modica

Nel 1980 usciva l’autobiografia di Pietro Consagra, Vita Mia, edita da Feltrinelli, premiata dalla critica con il premio speciale Mondello. Nel 2018 Skira editore la ripubblica mantenendo invariata l’impaginazione, le foto e i disegni che accompagnano la narrazione. A questa edizione faremo riferimento.

Pietro Consagra è nato a Mazara del Vallo (Trapani) il 6 ottobre del 1920 ed è morto il 16 luglio 2005 a Milano. È stato uno scultore contemporaneo riconosciuto a livello internazionale come una delle pagine fondamentali della storia dell’arte del secondo dopoguerra in Italia. Difatti, il breve testo di Luca Massimo Barbero [1] che chiude il volume, già dal titolo, Una voce “dentro campo”, pone l’accento sull’importanza dell’autobiografia di Consagra anche per la prospettiva interna nel dibattito artistico e politico degli anni del secondo dopoguerra. 

Di Consagra si ha una cospicua produzione scritta: lettere, articoli, testi teorici e critici [2] e i libri dedicati alla sua personalissima ricerca estetica, tra i quali La necessità della scultura del 1952, La Città Frontale del 1969. Indissolubilmente legata agli scritti sull’arte, quasi ne fosse complementare, si configura la sua storia di vita, così da lui stesso narrata in Vita Mia.

Sebbene l’esigenza di scrivere del proprio percorso estetico e delle vicende personali sia una prassi consolidata nella storia dell’arte occidentale, dal Rinascimento in poi, le avanguardie storiche e le neoavanguardie del XX secolo – cui Consagra è legato – sono state caratterizzate in maniera decisiva da manifesti scritti e sottoscritti dagli artisti stessi per chiarire la loro poetica e il loro intervento artistico sul mondo. La parola unita all’immagine si avverte come necessaria quando l’arte non è più mimesis del dato reale, ma è materializzazione di un’idea o di un’emozione e reazione estetica ad un mondo che si sogna di cambiare.

Nondimeno, il voler scrivere di sé, declinando un insieme di ricordi nello spazio e nel tempo, ci segnala l’esigenza da parte dell’autore di lasciare un testamento, una traccia del passaggio di sé nel mondo e fare i conti con la propria memoria. Il procedimento autobiografico, in ultima analisi, serve a rimarcare la propria unicità, ma nello stesso tempo, secondo una tendenza di segno opposto, serve a liberarsi un po’ del proprio centro identitario e a fare esperienza dell’impermanenza di tutte le cose. Ci ricorda Demetrio (2003: 195) che «sia il ritratto-autoritratto, sia la scrittura personale, nel momento in cui lasciano tracce inequivocabili di un passaggio irriproducibile, si espongono alla constatazione della illusorietà, della non sostanzialità, della pochezza dell’idea di io che presume di raggiungere o rivelare verità».

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Mazara, la casa natale in via Castelvetrano

In Vita Mia Pietro Consagra ci introduce al suo viaggio autobiografico partendo dalla città natale, Mazara del Vallo, negli anni dell’infanzia e della prima adolescenza segnati dalla povertà e dal rischio scampato di morire di TBC. Nel frattempo cresce in lui la consapevolezza delle sue innate capacità artistiche. Così, aiutato da chi nelle sue potenzialità credeva, comincia a studiare arte a Palermo, nel ’41 si diploma con «il salto della guerra» (ivi: 27) e s’iscrive all’Accademia di Belle Arti. Intanto in Sicilia sbarcano gli americani. S’iscrive al Partito comunista perché si convince che le miserie e le sopraffazioni subite possono essere riscattate; il corso della storia stava cambiando e vuole farne parte. Già nel ’44 è in viaggio verso Roma, per sentirsi parte di quel centro in cui sono prese le decisioni, poiché «alla Sicilia tutto è stato portato e tolto. Non vi è mai stata una cultura siciliana, un’arte siciliana, una politica siciliana […] I siciliani non hanno ereditato alcun fanatismo per alcuna impresa […] partono non per curiosità ma per necessità». Grazie alla tessera del Partito il suo arrivo a Roma, e gli anni a seguire, sono contraddistinti da una sempre più viva partecipazione al dibattito culturale e politico del dopoguerra che, via via, comincia ad assumere toni sempre più accesi.

Dalla guerra il mondo ne usciva spaccato in due parti, in una fredda contrapposizione tra blocco comunista e blocco capitalista e con i segni indelebili di sangue e morte impressi nelle coscienze. Le ripercussioni sul piano culturale erano inevitabili. In particolare, nelle arti figurative lo scontro si poneva nei termini di una contrapposizione tra realismo e astrattismo che, lungi da essere una semplice disquisizione di natura estetica, si configurava come lo specchio di una serie di contrapposizioni ideologiche spesso troppo intransigenti: riproposizione del dato reale vs esigenza di astrazione simbolica, impegno civile vs discorso elitario.

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Roma, nello studio al 4° piano di Piazza del Popolo, 1952

Tuttavia, nei due anni successivi alla fine della guerra si festeggiava ininterrottamente, erano tutti carichi di entusiasmo. «A Roma arrivavano artisti, poeti e scrittori da tutte le parti d’Italia e poi dalla Francia, dall’Inghilterra e dall’America […] Lo studio di Guttuso diventò il passaggio più significativo per chi voleva sentirsi arrivato a Roma». Fra Consagra e Guttuso s’instaura dapprima una fraterna amicizia. Guttuso lo introduce al gruppo del Partito in cui lui era già stabilmente inserito e lo ospita nello stanzino del suo studio di via Margutta. «Ma dentro questo calore – ricorda Consagra – doveva nascere presto un destino avverso». Il destino muta le sorti di questa intesa in un’incolmabile divergenza tra due modi differenti di vivere l’arte che poi, soprattutto in quegli anni, equivaleva a due modi differenti d’intendere la politica.

Guttuso è al centro di due forze contrastanti: nel ’46 firma insieme a Birolli, Cassinari, Levi, Leonardi, Morlotti, Pizzinato, Santomaso, Vedova e Viani, il “Fronte Nuovo delle Arti”, promuovendo la lezione cubista di Picasso, rinnovata da più attenti valori sociali. La direzione del partito però comincia a spingere verso un’arte più vicina al popolo, in altre parole, richiama all’ordine, indirizzando verso una figurazione di stampo ottocentesco che invalidasse le innovazioni delle avanguardie del primo ‘900.

Guttuso vuole essere l’artista più vicino al Partito, ma sente anche l’attrazione della cultura europea. Scrive Consagra, con un’immagine che rende bene il tumulto interiore di Guttuso riguardo la vicenda: «una notte, davanti a me, distrusse una tela che rappresentava dei contadini fucilati quasi grandi al vero» [3].

forma1Consagra, Maugeri, Turcato, Attardi, Accardi e Sanfilippo (gli esclusi dal “Fronte delle Nuove Arti”), intraprendono un viaggio a Parigi organizzato dalla “Gioventù Comunista”; incontrano Arp, Brancusi, Pevsner, e altri artisti, visitano lo studio di Picasso, per poi rientrare a Roma «gonfi di gioia. Eravamo la generazione aperta all’Europa. I problemi di Guttuso non erano più i nostri».

Dopo quel viaggio arriva la rottura definitiva: sempre nel ’46 esce il manifesto “Forma 1”, di cui fa parte Consagra insieme a Turcato, Accardi, Perilli, Attardi, Dorazio, Sanfilippo e Guerrini e si professano marxisti e formalisti, sostenendo che i due termini non fossero inconciliabili e che bisognava essere rivoluzionari percorrendo la strada aperta al futuro, già tracciata dalle avanguardie, invece che ripiegarsi nelle illusioni del passato, conformandosi ad un realismo che riproduce le fattezze di un sistema chiuso, ormai superato e che non aveva portato nulla di buono. Segue la prima collettiva all’Art Club di Roma e le prime aspre critiche da parte del Partito. «Noi eravamo politici e artisti – dichiara Consagra – e volevamo vivere così. Sottratti ai dirigenti nel dire e nel fare, nel piacere della contraddittorietà e nel piacere della scoperta».

La mostra dell’Alleanza della Cultura a Bologna nel ’48 è recensita da Palmiro Togliatti, il segretario del PCI, sulla rivista «Rinascita»; le opere esposte sono indicate come “scarabocchi”. Un simile attacco scatena l’ira di Consagra che non risparmia giudizi alquanto categorici su di un Partito, a suo parere, ormai dominato solo da prepotenza, arroganza e settarismo: «Socrate, Salinari, Alicata, Trombadori, De Gada, De Micheli: uno scempio di Partito».

I componenti del gruppo Forma 1 per anni vengono osteggiati e criticati continuamente, ma mai espulsi dal Partito per evitare di esplicitare il sospetto di voler creare un regime culturale. Negli anni a venire, l’emarginazione cui sono relegati grava pesantemente sulle loro condizioni economiche e professionali.

Sicuramente questi eventi sono per Consagra lo stimolo per scrivere in difesa della sua ricerca estetica; non a caso i primi scritti critici sono successivi alla mostra del ’48. L’uscita dal Partito avviene qualche tempo dopo, esattamente nel ‘56, quando ormai sono noti i crimini di Stalin ed è in corso l’occupazione dell’Ungheria. Finiva il sogno comunista e si apriva la possibilità di togliersi qualche sassolino di troppo nei confronti della linea culturale imposta dal Partito. Consagra pubblica un suo intervento su “L’Unità” dichiarando apertamente come «nel campo della cultura, in questi dieci anni passati, il nostro partito ha dovuto sopportare il peso di due nemici superflui. Due nemici inventati dalla paura, dalla impreparazione e dalla mentalità settaria dei sergenti del Realismo». I sergenti del Realismo altri non erano che Guttuso e Trombadori, coloro i quali avevano criticato duramente gli esponenti di Forma 1, solo per il fatto che in campo artistico avevano scelto la strada del modernismo e dell’astrattismo. Tuttavia, si domanda Consagra, se il problema fosse davvero il realismo o l’astrattismo:

«il problema era l’Europa. A Parigi avevamo visto l’Europa e avevamo scelto l’Europa e non la provincia […] L’astrattismo è nato nell’Europa di una cultura che aveva vissuto la diffusione della civiltà al di sopra degli eserciti […] L’astrattismo era la spiritualità come provocazione, era destabilizzante la coscienza della massificazione, era paura dell’abuso contro la fantasia […] Un’arma contro la guerra è venuta solo dal fantastico».
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Roma, con Marcel Duchamp alla Galleria La Tartaruga, 1961

Nel frattempo la partecipazione a collettive e personali apre la possibilità di vendere molte opere. Poi verso la fine degli anni ‘50 emerge il colosso americano, l’impero capitalistico, che stravolge le vicende artistiche aprendo la strada al collezionismo e alle logiche del mercato dell’arte. La Biennale di Venezia del ‘60 vede Parigi e gli artisti europei lottare contro gli artisti e i galleristi di New York per l’ultima volta; esploso il fenomeno della Pop Art l’invasione del Vecchio continente da parte dell’arte americana diventa inevitabile.

Consagra, a tal proposito, ci regala una lucida riflessione su di un mondo che cambia repentinamente, sgretolandosi sotto il peso delle logiche del potere capitalistico. A quel punto del suo percorso artistico e umano l’arte americana che tutto ingloba appare come l’ennesimo atto di sopraffazione: «un grande abuso di artisti molto privilegiati per un potere di influenza troppo vantaggioso». Rimpiange di aver venduto le sue opere in America ed entra in una profonda crisi professionale ed esistenziale che sconvolge, irrimediabilmente, gli equilibri familiari:

«Il mio tempo saltava […] Possibile che il lavoro fatto non abbia più senso? […] A Sofia avrò fatto paura. Io avevo paura di lei. L’Europa sembrava un campo di profughi mentre l’euforia americana diventava cultura egemonica. La Pop Art è stata un grande movimento distruttore che annunciava la caduta del mito nei rapporti umani».

Sofia è la ragazza americana «afferrata di passaggio» con cui si sposa, ha quattro figli e da cui poi si separa. La trama dei ricordi, il cui centro pulsante è rappresentato dagli anni romani, d’incontri e scontri con il Partito e dal suo percorso artistico, è inframmezzata da scorci di vissuto personale: Sofia e i figli, gli amici e la relazione con un’altra donna, Carla Lonzi [4].

«Mi ero innamorato di Carla, mi ero aggrappato a Carla […] Per Carla ero un tipo del dopoguerra, rimasto prigioniero negli stessi temi, un monumento smontato. Dovevo smettere di lamentarmi. […] Sono stato attratto dal magnetismo di Carla. La polemica, gli attacchi, le difese, i sensi di colpa, la curiosità intellettuale, l’affetto, la stima, la paura, la rabbia, il rigetto, il legame, si avvoltolavano in tutti gli angoli della nostra vita».

Poi ci sono le pagine dedicate all’amicizia, a volte narrata in forma aneddotica:

 «arriva lo sfratto […] Turcato mi aprì la porta del suo studio […] poteva lavarsi nel suo lavandino e asciugarsi nel mio asciugamano. Un discorso si cominciava da lui e finiva da me e viceversa […] era magro ed aggraziato come un uccello appena uscito dal nido […]. Io e Turcato eravamo considerati nel partito una coppia di pecore nere. Io tetragono testardo, Turcato delicato estroso divertente. Lui la fantasia trasgressiva, io l’orgoglio pungente […] Con le nostre donne io e Turcato aumentavamo gli argomenti a nostro carico in quell’alone di sfiducia che ci circondava a causa della nostra “tendenza alla leggerezza politica”».

Altre volte l’amicizia è celebrata con parole cariche di dolore:

«[…] moriva a Milano Ugo Mulas [5]. Uno degli amici della mia vita […] Proposi perciò di registrare mentre si parlava, per farne un libro sul nostro lavoro e in qualche modo sulla nostra vita. Pensando al suo libro mi piaceva anche che morisse legato il più possibile a me».
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Consagra, Sodalite Sudafrica n. 1, 1972

Pian piano la crisi si dissolve, sono gli anni delle contestazioni del ’68, del trasferimento a Milano, scrive la Città Frontale, in cui le idee sul destino della scultura evolvono incontrando il discorso sull’architettura. Le nuove teorizzazioni sono motivo d’intesa con Ludovico Corrao, sindaco di Gibellina, città siciliana distrutta dal terremoto del Belice del ‘68, il quale credeva che con l’arte contemporanea si potesse riscrivere una nuova storia identitaria per la sua comunità che era stata travolta dal sisma [6]. Consagra riceve l’incarico di realizzare il Teatro (mai ultimato), il Meeting (stazione d’autobus e luogo d’incontri), Riferimento all’irripetibile e Riferimento all’unicità (due cancelli in ferro per l’ingresso al cimitero) e la Stella di Gibellina ormai emblema dell’ingresso alla città. È un momento significativo per la ricerca estetica di Consagra.  Confida – tra le righe di una riflessione intima: «ho fatto la mia scultura astratta per vivere da falco sulle cime di un orgoglio da povero. Mi ripugnava usare il dolore mio e degli altri come linguaggio della vita e come merce di scambio».

Chiude il percorso biografico di Vita mia un capitolo a parte dedicato alla scultura e, più in generale, alla riflessione estetica. La svolta all’astrattismo è accompagnata dalla sperimentazione di nuovi materiali: legno, laminati, bronzo, acciaio. Con Colloqui (1952-1963) la sua scultura diventa “frontale”.

Consagra introduce la frontalità per frantumare la tridimensionalità propria della scultura classicamente intesa e per far in modo che l’opera si sviluppi lungo una linea orizzontale eliminando il centro. Decostruire l’idea della centralità – di cui la società non ha più voglia – evita il meccanismo del ruotare intorno alla scultura, per vederne tutte le sue parti e concepirla come idolo. Uno spazio bidimensionale che diventa sempre più sottile quasi fosse una soglia, apre un dialogo immediato con lo spettatore, giacché solo in uno spazio liminare è possibile lo scambio, l’apertura critica e il fantasticare.

«Scoprivo che, più della scultura, per me era primaria l’uscita dal Centro: L’Ubicazione come significato […] Volevo riportare sulla materia il rapporto che avevo con la società, un risentimento politico per come le cose andavano e nello stesso tempo dispormi necessario, coerente, giustificato».
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Gibellina, porta del Cimitero, Riferimento all’unicità, 1977

Le sue sculture in una prima fase sono definite da una linea rigida dentro uno spazio quadrangolare che riflette la visione chiusa e disincantata che l’artista ha della società. In seguito «[…] la linea retta comincia a cedere a raccordi curvati e poi si dissolve in un fluido scorrimento tra i piani arginati dall’emozione che frastaglia e dissemina accenti». Nascono da questa riflessione Ferri trasparenti e Piani appesi, opere colorate che si librano leggere sul malessere della società. La riflessione sul rapporto oggetto-spazio conduce alla teorizzazione del Grande Oggetto, presente nel saggio sulla Città Frontale, nato in polemica con l’architettura contemporanea che, con il suo spasmodico inseguire le ragioni di funzionalità ed economicità, aveva estromesso dagli edifici e dalla pianificazione urbanistica la poesia, e una concezione dello spazio aperto al dialogo e all’incontro con l’altro.

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Cosenza, Paracarro frontale, marmo rosato di Toscana, 1991

Nello stesso periodo introduce un altro concetto: lo “spessore”. Realizza le Sottilissime in acciaio inox: «edifici per la città, che oltre ad essere una proposta plastica doveva diventare la mia città, concepita da me con le mie esperienze e le mie fantasie».

L’interesse per l’elemento cromatico ritorna nelle opere realizzate con marmi dalle ricche venature, che entrano in competizione con la struttura stessa dell’opera, in un certo senso scomponendola. Con Trama, alla Biennale di Venezia del ’72, sette grandi sculture lignee sono posizionate in modo da essere attraversate per un migliore coinvolgimento dello spettatore; le opere e lo spazio in cui sono inserite acquisiscono un significato solo in relazione all’attraversamento. Il punto di vista si sdoppia, «le nuove sculture saranno ormai Bifrontali come un muro che divide due campi».

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Tusa, Fondazione Presti, La materia poteva non esserci, 1986

Tra gli elementi innovativi del percorso artistico di Consagra, come ha evidenziato il noto critico d’arte Carlo Giulio Argan nel documentario girato da Antonia Mulas (moglie di Ugo Mulas) nell’’87, dal titolo Pietro Consagra, un classico dell’arte, vi è l’indagine sul rapporto oggetto-spazio (problema già posto dall’estetica cubista) secondo una prospettiva urbanistica e ambientale. Consagra interviene sul paesaggio piegando la percezione dello spazio attraverso la scultura. In questo senso, l’enorme scultura in cemento dal titolo La materia poteva non esserci, realizzata nel 1986 a Tusa (Messina) per la Fondazione Fiumara d’arte/Antonio Presti, ne è un mirabile esempio.

Il racconto di una storia di vita è una trama intessuta di ricordi in cui c’è tutto: un testamento morale e artistico, godimenti, sogni e illusioni, l’esperienza vissuta attraverso il filtro della memoria che rivela o censura. Tuttavia autentico è anche ciò che non si dice.

«Da Palermo a Roma, da Roma a Parigi, da Parigi a New York. I quattro angoli del mio quadrato di povero ladro di eredità. Che cosa ho portato io agli altri? Provengo da una terra di manovalanza. Ho esportato il mio carattere, ne ho fatto un valore e un mito. Ma che cosa è questo carattere? È un diritto a non subire le sopraffazioni, è il patrimonio della propria esistenza, la possibilità di scegliere e reagire con una propria coscienza che proviene dai contatti umani, dagli oggetti vicini e sognati, dalle avversità e dagli amori, dai propri sensi, dagli odori e dal tatto, dalla memoria dove si attacca, dall’attenzione dove si posa, dalle voglie dai desideri chi si rinnovano, dal cervello che fantastica, dalle sofferenze e dall’accondiscendenza, dai genitori e dai fratelli, dagli amici, dai vicini di casa, dai parenti, dalle letture, dalle identificazioni, dal piacere e dal dolore, dal modo di sederti su un giardino, dal modo di correre e saltare, da quello che ti piace guardare a quello che ti piace fare. Sei influenzabile e devi scegliere. Vivi di sovrapposizioni».
Dialoghi Mediterranei, n. 44, luglio 2020
Note
[1] È in corso di pubblicazione il volume Pietro Consagra (1920-2005). Catalogo ragionato delle sculture a cura di Luca Massimo Barbero (Skira editore, Milano), curatore associato della Collezione Peggy Guggenheim e direttore dell’Istituto di Storia dell’Arte della Fondazione G. Cini a Venezia.
[2] Per una panoramica sulla mole degli scritti di Consagra cfr. https://pietroconsagra.org/scritti-di-consagra/ e il volume Consagra che scrive, scritti teorici e polemici 1947/89, a cura di, all’insegna del pesce d’oro di Vanni Scheiwiller, Milano 1989.
[3] In quegli anni la polemica percorreva tutta l’Italia: Elio Vittorini nella rivista il “Politecnico” riprendendo un articolo di Roger Garaudy, importante critico marxista ed esponente del Partito Comunista Francese, avverte del pericolo di evitare delle dittature culturali, imporre un realismo contro un astrattismo, decidere come fare arte, con l’unico e solo possibile risultato di screditare le idee marxiste e comuniste (Caramel 1994: 20). E le paure di Vittorini si concretizzano negli attacchi di Togliatti, segretario del PCI, su «Rivista», che decreta la fine dell’esperienza del Fronte delle nuove arti e il ritorno a schemi figurativi di stampo ottocentesco e figurazioni dagli intenti propagandistici.
[4] Carla Lonzi è stata una critica d’arte e scrittrice femminista. Negli anni ’70 firmataria del “Manifesto di rivolta femminile”. Tra i suoi scritti di critica, va menzionato Autoritratto. Accardi, Alviani, Castellani, Consagra, Fabro, Fontana, Kounellis, Nigro, Paolini, Pascali, Rotella, Scarpitta, Turcato, Twombly, edito da de donato (Bari) nel 1969, in cui emerge l’importanza che ha nella sua indagine sull’arte il ruolo e la voce diretta dell’artista, la parola proferita, “autentica” e spogliata dalla prepotenza dell’analisi critica degli accademici.
[5] Ugo Mulas è stato un importante fotografo della società del dopoguerra. Di lui rimane un significativo numero di foto di artisti e rappresentanti della cultura del suo tempo, tra cui Consagra. Il suo libro “Fotografare l’arte”, edito da Fabbri Editori con un’introduzione di Umberto Eco – ricorda Consagra – venne presentato nel ’73 dopo la sua morte. http://www.ugomulas.org/
[6] Tra i tanti studi pubblicati sulla vicenda economiche e politiche per la ricostruzione di Gibellina e gli artisti chiamati a partecipare, si legge in un dialogo con Corrao (Robustelli 2011: 69) una concezione dell’atto creativo che fa comprendere bene perché tra il sindaco di Gibellina e Consagra nacque una forte intesa: «L’arte non è decorativa qui, è inquietante e inquieta essa stessa, come inquieto il mondo in cui quest’arte si è sviluppata in quel periodo, nel ’68. Una frase molto bella di Consagra dice: “…l’arte non dimentica a Gibellina il diritto a fantasticare…”, quindi l’arte, l’utopia diciamo, va oltre il pretesto dell’uso immediato, del manufatto… ha una carica, una spinta progettuale che può essere fantastica, utopica, emotiva o emozionale, per cui se parti dal presupposto che l’uomo ha bisogno anche di questo aspetto il ruolo dell’arte diventa “altro”».
Riferimenti bibliografici
Caramel, L. (Ed.), (1994), Arte in Italia, 1945-1960 (Vol. 31), Vita e Pensiero, Milano
Consagra P., (1989), Consagra che scrive, scritti teorici e polemici 1947/89, all’insegna del pesce d’oro di Vanni Scheiwiller, Milano
Demetrio D., (2003), Filosofia dell’educazione ed età adulta. Simbologie miti e immagini di sé, Utet, Torino
Mulas, Antonia (regia di), (1987), Pietro Consagra, un classico dell’arte, https://www.youtube.com/watch?v=p1_74SF5iu4
Robustelli G. (2011), Gibellina: Laboratorio di sperimentazione sociale, http://www.academia.edu/8454609/Giovanni-robustelli-gibellina
 Sitografia
https://pietroconsagra.org/scritti-di-consagra/
 http://www.ugomulas.org/

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 Mariachiara Modica, ha conseguito la Laurea Magistrale in Arti Visive presso l’Alma Mater Studiorum -Università di Bologna con tesi di laurea dal titolo: “La Collezione olandese De Stadshof. Peculiarità di una raccolta d’arte outsider approdata nel museo Dr. Guislain in Belgio”. Attualmente insegna presso gli istituti secondari di secondo grado, parallelamente continua ad approfondire il discorso sull’arte, in particolare contemporanea, da un punto di vista fenomenologico e semiotico; il linguaggio artistico come campo d’indagine delle dinamiche socio-culturali e generatore di azioni politiche.

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