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Violenza rivoluzionaria e teoria critica: ripensando gli anni Settanta

9788858443552_0_424_0_75di Fabio Dei 

1.

Si esce un po’ frastornati dalle pagine del bellissimo volume di Sergio Luzzatto sulla storia della colonna genovese delle Brigate Rosse [1]. Frastornati perché il libro si legge tutto d’un fiato, e non lascia il tempo di ordinare i diversi ordini di problemi che pone, e di fare i conti con le proprie stesse reazioni emotive di lettori. Spero all’autore non dispiaccia se dico che la sua ricostruzione ha una dimensione specificamente antropologica (gli storici vedono oggi spesso con sospetto gli approcci antropologici, non senza qualche ragione). Ma lui stesso parla di «illuminare un versante dell’antropologia brigatista»; e un commentatore intitola direttamente la recensione del libro “Antropologia delle BR a Genova” [2]. Del resto questa dimensione era già ben presente in molte opere precedenti di Luzzatto, da Il corpo del duce a Padre Pio [3]. Nel presente volume, il taglio antropologico si manifesta non solo nell’ampio uso di fonti orali e “soggettive”, ma anche e soprattutto nello sforzo di ricreare quasi etnograficamente, “dal basso”, i contesti culturali nei quali le idee e le pratiche del terrorismo “rosso” degli anni Sessanta e Settanta hanno preso corpo.

Ma andiamo per ordine. Il libro procede attraverso due principali unità narrative. La prima è geografica: è attorno alla città di Genova che si organizzano i materiali documentari, è nei suoi spazi molto compatti e ravvicinati che si muovono tutti i protagonisti della vicenda – e Luzzatto lo sottolinea attraverso il frequente uso di mappe topografiche e di un consistente apparato fotografico.  La seconda unità narrativa è biografica: al centro del racconto sta infatti la ricostruzione della vita di Riccardo Dura, detto “Roberto”, che nella seconda metà degli anni Settanta fu a capo della colonna genovese delle BR, vivendo in clandestinità e partecipando alle azioni più sanguinose, incluso l’omicidio dell’operaio dell’Italsider e sindacalista della CGIL Guido Rossa.

Dura ha un’adolescenza molto difficile: figlio di immigrati siciliani, vive con la madre con la quale ha rapporti conflittuali, e passa alcuni anni sulla Garaventa, una nave ancorata nel porto che funziona da “riformatorio” giovanile. In seguito lavora saltuariamente come marinaio su navi commerciali, e si inserisce negli ambienti di Lotta Continua, l’unico in cui trova amicizie e accoglienza. Pur non inscrivendosi mai all’università, frequenta la sede di Lettere di via Balbi, vero e proprio centro propulsore dei gruppi della sinistra extraparlamentare. L’incontro con Gianfranco Faina, giovane professore di ispirazione neoluddista, anarchica e situazionista, fondatore del gruppuscolo di “Azione Rivoluzionaria”, lo avvicina agli ambienti della lotta armata. Ma è l’incontro con i brigatisti milanesi, Mario Moretti e Rocco Micaletto, a cambiare la sua vita.  Quando decidono di creare una colonna nella terza città del triangolo industriale (nel 1976, dopo l’arresto di Curcio e Franceschini), i leader BR non si fidano dei gruppi organizzati già presenti e degli intellettuali come Faina, e vedono invece in Dura un riferimento sicuro, affidandogli funzioni dirigenziali e spingendolo – primo fra i genovesi – a entrare in clandestinità.

Il ragazzino marginale e disadattato si trova improvvisamente in un ruolo che gli conferisce una identità nuova e solida: rispettato e temuto da quegli stessi compagni e intellettuali della sinistra extraparlamentare che fino a poco prima lo trattavano con condiscendenza e persino con un po’ di fastidio.  Partecipa ad alcuni dei più efferati delitti delle BR genovesi: forse (ma in molti lo escludono) all’assassinio del giudice Coco e della sua scorta; certamente a quello del commissario Antonio Esposito e, come detto, a quello di Guido Rossa (al quale sparò il colpo mortale di sua iniziativa, o forse, suggerisce Luzzatto, su indicazione di Moretti, mentre l’iniziale obiettivo sarebbe stata la gambizzazione). Nelle memorie di altri brigatisti è descritto come efficiente, freddo e spietato, tanto da meritare il soprannome di Pol Pot. Gli viene attribuita (da Enrico Fenzi) la seguente frase: «Io, se mai vinceremo, non voglio cariche, onori, nulla. Voglio solo che mi sia dato l’incarico di far fuori i nemici, tutti quelli che devono essere fatti fuori. Sarà un duro lavoro, perché saranno svariati e svariati milioni di persone che andranno eliminate. Ecco, io questo vorrei fare, dopo» [4].

Dura fu ucciso dagli uomini del generale Dalla Chiesa, insieme a tre compagni, nel 1980, a seguito di una incursione nel covo genovese individuato sulla base delle indicazioni del pentito Patrizio Peci. Vi sono pochi dubbi, anche secondo Luzzatto, che si sia trattato di una esecuzione piuttosto che di un vero e proprio scontro a fuoco. Del resto lo scontro con le forze dell’ordine e il sistema giudiziario si era ormai fatto totale, e le BR a quel punto (in specie dopo l’omicidio Rossa) erano del tutto isolate politicamente, avevano anzi perduto il senso stesso dell’azione politica in una guerra contro lo Stato del tutto fine a se stessa. 

9788806232641_0_536_0_75Ricostruire la figura di Riccardo Dura è per Luzzatto una sorta di scommessa storiografica, poiché le fonti che lo riguardano sono esigue: non ha lasciato documentazione né processuale né autobiografica, e pochi tra gli ex brigatisti lo hanno conosciuto bene. Le rappresentazioni che ne vengono offerte nella memorialistica sono contraddittorie e poco affidabili.  D’altra parte, nel libro la biografia di Dura funziona da principio organizzatore per un ben più vasto materiale. Sfilano accanto a lui altri personaggi che hanno avuto un ruolo di primo piano nella storia della lotta armata e che a Genova hanno vissuto, o vi sono in qualche modo passati. Fra essi gli accademici Enrico Fenzi e Giovanni Senzani, gli operai Giuliano Naria e Francesco Berardi, il medico Sergio Adamoli e l’avvocato Edoardo Arnaldi; ma anche figure che quell’ambiente di coltura del terrorismo hanno sfiorato pur senza farne parte, come Andrea Canevaro o don Andrea Gallo.

Lo scopo dell’autore è infatti ricostruire il contesto nel quale la lotta armata ha preso corpo a partire da uno sfondo di vita quotidiana, di situazioni ordinarie, di modelli culturali condivisi. Un po’ come la rana nella pentola, che non si accorge che l’acqua giunge a ebollizione finché non è troppo tardi per saltare via. Almeno per quanto riguarda Genova, il contesto – la pentola in ebollizione – è quello di una società in forte trasformazione nella quale emergono nuovi soggetti sociali, ad esempio gli operai immigrati dal Mezzogiorno che entrano in qualche tensione con la classe operaia “storica” e più stabile e integrata; nuovi ceti che si affacciano per la prima volta all’istruzione superiore e universitaria; nuove forme di partecipazione sociale e politica che coesistono con segmenti di società civile ancora  legati a un vecchio ordine  (come le istituzioni manicomiali o la nave correzionale Garaventa, dalle quali passa Riccardo Dura).  Il contesto politico della sinistra vede la forte egemonia del PCI e della CGIL, profondamente radicati nei ceti operai, e una sinistra extraparlamentare molto composita ed eterogenea, sia come base sociale sia per le posizioni teoriche e il background intellettuale.

In questo quadro, il problema è che cosa spinge alcuni piccoli gruppi a ritenere giusto e razionale il ricorso alla lotta armata contro lo Stato come modalità per innescare una rivoluzione proletaria e creare una società “migliore”; e in che rapporto stanno gli aderenti alla lotta armata con più ampi ambienti sociali e politici (ad esempio la fabbrica, l’università, la sinistra extraparlamentare) che, seppur considerandoli “compagni che sbagliano”, ne condividono almeno in parte la visione del mondo. Non è qui in gioco la possibilità che l’operato dei gruppi armati sia stato parzialmente eterodiretto, condizionato da infiltrazioni di servizi segreti italiani e stranieri, nonché dal rapporto con gruppi terroristici internazionali: come in ogni storia del terrorismo e del controterrorismo, ambiti cioè che si muovono per definizione in una dimensione “occulta”, questi intrecci ci sono stati, e soprattutto ci sono stati “discorsi” complottisti su chi sta in ultima analisi “dietro” alle azioni e alle decisioni, in ultima analisi non verificabili e che  funzionano da “amplificazioni” della stessa violenza terrorista [5]. Ma tutto questo non è costitutivo del fenomeno della lotta armata di estrema sinistra, la quale matura invece nel contesto di elaborazioni teoriche ben precise interne al mondo dell’antagonismo extraparlamentare. 

2. 

unnamedLa riflessione sugli “anni di piombo” è stata spesso dominata da approcci giornalistici ma soprattutto dalla memorialistica dei protagonisti. Questi ultimi – non importa quanto pentiti, dissociati o irriducibili – hanno cercato di giustificare le basi politiche e persino etiche delle proprie scelte, pur ammettendo di aver commesso “errori”.  In un importante scritto del 2010, Angelo Ventrone ricordava le posizioni di Sergio Segio, leader di Prima linea, che si è sempre considerato  “combattente” e non “terrorista”, in un contesto di “guerra civile” (posizione a lungo sostenuta anche da Curcio [6] e, fra gli altri, da Erri De Luca [7]); Segio dedica la sua biografia “rivoluzionaria” ai figli dei suoi compagni «perché, crescendo e cominciando a saperne e a capire, non gli venga mai meno la certezza che i loro genitori sono state persone buone e leali. Che hanno lottato, con errori spesso gravi, ma anche con generosità e coraggio, per un mondo migliore e più giusto» [8]. Colpisce un po’ la definizione di “persone buone e leali” per figure che hanno gambizzato e ucciso a sangue freddo dirigenti d’azienda, docenti universitari, agenti di polizia, un vigile urbano, persino semplici civili, organizzato in carcere vendette contro i presunti traditori e così via. Ma sappiamo bene che i terroristi si sentono sempre “buoni”: questo vale anche oggi per gli attentatori del Bataclan [9], per quelli del 7 ottobre in Israele, ma anche per i soldati in guerra che bombardano le popolazioni civili e forse persino per i massacratori genocidari [10]. Comprendere (storiograficamente o antropologicamente) queste forme di violenza equivale a ricostruire il regime morale in cui esse diventano possibili e appaiono “buone” e “giuste” ai soggetti che vi sono implicati: regime morale che è a sua volta costituito da un lato da pratiche e forme di relazione sociale, dall’altro da visioni del mondo, ideologie, “religioni”, “teorie”. Comunque, per usare le parole di Ventrone, la prospettiva degli ex aderenti o simpatizzanti della lotta armata è stata per lo più quella di giustificare le proprie scelte attraverso 

«l’immagine (non rispondente al vero) di una ribellione animata innanzitutto dall’obiettivo di affermare un’intransigente ed estrema coerenza tra i principi professati dal sistema democratico e la realtà del paese che, negli anni della contestazione, sembrava negarli. Quasi come se la loro rivolta fosse stata mossa dalla volontà di promuovere solo una sorta di democrazia radicale.  […] L’idea così diffusa, e ancora oggi così persistente a sinistra, che la scelta della violenza sia stata provocata dalla strage di piazza Fontana nel dicembre del 1969, quando prese l’avvio la strategia della tensione, è frutto anche del tentativo di confermare questa immagine edulcorata della propria esperienza. In questa prospettiva, la scelta della violenza è stata descritta come una necessaria difesa da uno Stato corrotto e pronto a usare ogni mezzo – comprese le bombe contro gli innocenti nelle piazze, sui treni, nelle stazioni – per costringere al silenzio chi rivendicava i propri diritti e lottava per ampliare le libertà di tutti» [11]. 

i-dannati-della-rivoluzioneNel momento in cui da una memorialistica “moralizzante” si passa a una storiografia basata sui documenti, afferma Ventrone, le cose cambiano. Ci si accorge facilmente non solo che la teorizzazione della violenza era già ben presente prima di Piazza Fontana, ma che fra le posizioni di Lotta Continua, Potere operaio e altri gruppi extraparlamentari e quelle di BR, Prima Linea e gruppi armati vi è un continuum, più che una netta cesura. È infatti “un clamoroso errore” quello di «chi vuol separare nettamente […] la stagione buona dei movimenti da quella cattiva della violenza armata» [12]. Tale continuità si gioca attorno alla prospettiva della rivoluzione. Che cosa si intendesse per rivoluzione, contro chi e a favore di che cosa, non è semplice da definire. Per gli operai era contro la durezza del lavoro in fabbrica e l’oppressione di classe; per gli studenti o i professori era contro l’imperialismo, contro la “repressione” dello Stato borghese, o magari contro la ragione tecnico-scientifica (gli echi heideggeriani del Sessantotto), o contro l’idea di Occidente, uno Stato interpretato come fascista, il conformismo, lo stile di vita borghese, il Sapere-Potere per chi aveva letto Foucault. A favore di cosa è ancora più difficile da capire: una vaga idea di comunismo, che però non era certo quello sovietico; forse quello di una rivoluzione culturale cinese più immaginata che conosciuta, forse quello terzomondista di Ho Chi Min o Che Guevara – più riferimenti ideali o persino religiosi che non modelli socio-economici precisi. E forse la rivoluzione era anche una altrettanto vaga idea del regno di Dio in terra, viste le componenti di radicalismo cattolico piuttosto forti che convergevano nei movimenti extraparlamentari e che non di rado approdano alla lotta armata.

Luzzatto, per tornare a lui, aveva sollevato questo problema della continuità fra ideologie extraparlamentari e terrorismo in un articolo anch’esso del 2010 – recensendo un libro di Angelo Ventura, storico padovano egli stesso vittima nel 1979 di un attentato, libro dedicato ai nessi fra Autonomia Operaia e terrorismo.  Nessi significativi, anche se il cosiddetto “teorema Calogero” (l’ipotesi che i leader intellettuali dell’autonomia fossero a capo delle BR) si era rivelato infondato. Ventura ricorda ad esempio un articolo di Potere operaio del 1972 in cui si invitano i proletari a colpire «il corpo fisico del potere» non soltanto ai vertici, al livello dei «generali», ma al livello dei «sergenti», «i sottufficiali dell’apparato di dominio capitalistico»: ingegneri, poliziotti, giudici, professori «imputabili perché esistono, perché il loro mero esistere è il presupposto della violenza organizzata del dominio» [13]. Commenta quindi Luzzatto: 

«Sì, i «servitori dello Stato» avevano la colpa di esistere. Fu questo – ricostruisce Ventura – l’approdo ideologico di una sparuta avanguardia marxista-leninista, ma anche di una più diffusa cultura anti-istituzionale e nichilistica che fin dall’inizio degli anni Sessanta aveva deplorato le politiche riformatrici del primo centro-sinistra, irriso le garanzie giuridiche e lo Stato di diritto, flirtato con il radicalismo di destra trastullandosi con i volumi di Nietzsche e di Carl Schmitt. Oggi, a distanza di molti decenni, certi intellettuali “operaisti” dell’epoca (gli Alberto Asor Rosa, i Massimo Cacciari) faranno bene a non guardare dentro il libro di Ventura: ritroverebbero i se stessi di allora, e non avrebbero ragione di andarne fieri» [14]. 

3. 

978880625460higDolore e furore riparte proprio da qui. Luzzatto racconta di aver ricevuto, dopo l’uscita della recensione, una lettera molto critica di Rossana Rossanda, che gli rimproverava di aver preso sul serio una “brutta manipolazione”, e di non comprendere che «sono state una decina di persone un po’ qualsiasi a mettere in piedi, in una situazione accesa, quella decina di anni di sparatorie; deve essere stata, appoggiata da qualche potenza, una mente sopraffina». Sarà vero magari che le cose dette da Toni Negri e da altri in quegli anni erano “enfatiche e deliranti”, ma il passaggio dalle parole agli atti non è affatto scontato. L’attuale libro di Luzzatto è un tentativo di rispondere in modo articolato a questa critica: se è vero che i “professori” da soli non sarebbero stati in grado di organizzare la lotta armata, forse neppure di “prendere lezioni di tiro”, almeno nel caso di Genova la loro influenza è stata determinante, non solo sul piano teorico ma anche su quello pratico e organizzativo.

Lo storico è cauto e insiste sul fatto di non poter generalizzare, al di là di Genova. Ma francamente è difficile non generalizzare, almeno come ipotesi di lavoro da cui condurre ulteriore ricerca. La posizione di Rossanda – largamente diffusa a sinistra – vorrebbe salvare il “movimento”, le sue idee e anche gran parte delle sue pratiche, riducendo le strategie terroristiche a qualcosa di marginale, qualche sparatoria da parte di pochi utili idioti eterodiretti, che hanno condotto alla fine alla divisione e alla sconfitta del “movimento” stesso. Ma la lotta armata non è nata dal nulla. Negli anni del sequestro Moro la stessa Rossanda l’aveva ricondotta – con una celebre espressione – all’ “album di famiglia” della sinistra, raffrontando i comunicati delle BR al linguaggio stalinista del PCI degli anni Cinquanta.  Ma aveva mancato di guardare più vicino nel tempo: e dimenticava che il PCI degli anni Cinquanta, per quanto settario, si situava completamente dentro la società politica e quella civile e aspirava a controllare lo Stato attraverso strategie di conquista dell’egemonia, non a distruggerlo. Nulla poteva esser più lontano dal movimentismo gruppuscolare che esaltava avanguardie del tutto separate dal corpo sociale e un’etica eversiva disconnessa da ogni reale progettualità politica. 

In ogni caso, i legami e la continuità fra le pratiche della lotta armata e il background culturale di riferimento sono evidenti e innegabili (il che non significa che la lotta armata sia il necessario prodotto di quel background, ovviamente). Il libro di Luzzatto è prezioso proprio per la capacità di mostrare nel dettaglio questi legami, e di porli in relazione con il più ampio contesto della vita economica, sociale e culturale della Genova di quegli anni. Un contesto, come detto, di cambiamenti impetuosi che portano il mondo intellettuale a porsi in contrasto con i due maggiori centri di egemonia, il Partito comunista e la Curia, legandosi (anche da parte cattolica) ai miti della Resistenza tradita, da ricominciare e da finire, al «superamento della nozione borghese di legalità», alla legittimità del «ricorso alla violenza come espressione creativa di sé».

La ricostruzione delle posizioni teoriche di Gianfranco Faina è particolarmente significativa: un pensiero tutto volto contro le istituzioni, quelle della sinistra prima di tutto. Il sindacato collaborava con i padroni razionalizzando il capitale, laddove gli operai avrebbero dovuto «organizzarsi come elemento irrazionale dentro la razionalità del capitale», con «irragionevolezza» dovevano diventare “l’unica anarchia”. Come il Black Power e Malcom X, occorreva tagliare i ponti «con i vari Luther King», con «i capi pacifisti, integrazionisti, fautori di diritti civili (che sono soltanto chiacchiere e pezzi di carta)». Da qui il rifiuto del lavoro e il neo-luddismo inteso come sistematico sabotaggio all’interno delle fabbriche. E su questo punto si saldava la presunta alleanza studenti-operai – con l’insistenza per studenti o professori di classe media nell’identificarsi con il proletariato, sulla base del fatto che, come affermavano le “tesi della Sapienza” pisane, anch’essi subivano «la parcellizzazione capitalistica del lavoro intellettuale», ed erano destinati a uno «stato permanente di subordinazione sociale». Faina e il suo gruppo arrivano – con presunta ironia “situazionista” – a deridere Alessandro Floris, ucciso nel 1971 in una delle prime azioni dello sgangherato gruppo armato 22 ottobre – un portavalori che cerca di opporsi a una rapina di autofinanziamento, che sarebbe morto perché rimasto vittima di un’“orgia del dovere”, «morto per la troppa voglia di lavorare». Del resto lo stesso giornale di Potere operaio scriveva che Floris aveva meritato la sua fine, per aver difeso «il bottino di un furto sistematico sul salario operaio».

Si potrebbe proseguire, nell’articolato quadro offerto da Luzzatto, con una serie di altri tasselli del mosaico ideologico che domina quegli anni. Uno di essi è il fascino primitivista per il Lumpenproletariat, per le figure marginali e per le loro pratiche fuori dalle regole e anche violente, esaltate come eversive rispetto all’ipocrisia “borghese”. È questo un tema molto forte nel “movimento”, che sta peraltro al centro della poetica dei maggiori intellettuali del tempo (per Genova basterebbe pensare a De André, e nella cultura nazionale, ovviamente, a Pasolini).  Anche la critica basagliana alle istituzioni totali viene letta in questa chiave: e la difesa o la protezione dei marginali trascorre senz’altro in una poetica e una politica della marginalità in chiave antistatale. Nelle riflessioni sulle istituzioni totali come il manicomio, il riformatorio e il carcere si manifesta appieno l’avversione verso lo «stato di diritto come maschera di innumerevoli crimini di pace», secondo appunto l’espressione di Basaglia. Crimini che giustificano appieno le reazioni violente delle “vittime”. Le carceri sono com’è noto l’argomento di studi di Giovanni Senzani, fortemente legato al contesto genovese e genero di Enrico Fenzi, che gioca un ruolo di leader nazionale nell’ultima fase delle BR. Nelle carceri lo Stato si mostra senza veli a infierire sul corpo e sullo spirito dei suoi sudditi, in quella che si stava imparando a chiamare una biopolitica, giustificando così qualsiasi controviolenza verso di esso e verso i suoi “servitori”.  È fra l’altro degno di nota che Senzani, Faina e molti altri conducessero tutto il loro lavorìo ideologico dentro le università. Il primo, addirittura, facendosi rimborsare con fondi di ricerca le spese di trasferte compiute per l’organizzazione armata; il secondo, interpretando il ruolo di professore universitario nel senso dell’esplicita propaganda politica, «senza che i suoi colleghi dell’istituto di storia moderna, né l’intero corpo docente della facoltà di Lettere di via Balbi, trovassero nulla da ridire». Luzzatto si diverte a riportare qualche riga di una tesi di laurea relata da Faina nel 1977, dove si dice che «non esiste monopolio della lotta armata e dell’iniziativa rivoluzionaria, essa è patrimonio dell’intera classe e solo essa può condurla a termine»; commentando che «per incredibile che possa sembrare, nell’anno 1977 pagine come questa valevano a laurearsi in un’università della Repubblica».

i__id3077_mw600__1xPer chiudere, alcuni problemi che mi sembrano emergere con forza dalla ricostruzione e dai materiali presentati da Luzzatto. In primo luogo, che rapporto c’è fra le teorizzazioni politiche dei movimenti e la decisione di passare all’azione violenta, sparando, rapinando, gambizzando, uccidendo, diventando fuorilegge e criminali? È un problema su cui mi sono interrogato nei miei studi sul cosiddetto terrorismo suicida, in relazione al ruolo svolto – in questo caso – più dalla religione che dalla teoria politica. Ho sostenuto che non sono le “credenze” o le “opinioni” in sé a spingere verso azioni tanto terribili, che implicano anche la distruzione di se stessi, oltre che dei “nemici” o di vittime casuali e innocenti: e che però la religione ha un suo ruolo decisivo nel costruire il contesto morale nel quale la scelta del martirio può maturare come decisione razionale. Una religione, diciamo, più vissuta e incorporata che “pensata”, fatta di relazioni sociali intime e di “forme di vita” [15]. Si può dire la stessa cosa per l’ideologia radicale, antistatale e rivoluzionaria degli anni Sessanta e Settanta? Probabilmente sì. Le scritture ultraradicali del periodo, come quelle sopra riportate, vanno lette non tanto come argomentazioni razionali, ma come parte di un più complessivo “discorso” che non veniva certo misurato in rapporto alla “realtà”, e appariva autoevidente in quanto cemento di particolari relazioni e contesti sociali: una gergalità che funzionava da contrassegno etico ed estetico di appartenenze subculturali (allo stesso modo del linguaggio religioso stesso). In questo senso, quella “teoria” o quel “discorso” sono stati reali spinte all’azione, hanno fatto sì che (con una espressione retorica che Luzzatto riprende da Rossanda) le parole si trasformassero in pietre. 

Il che ci porta a un secondo problema. C’è continuità o discontinuità nel percorso che porta la teoria marxista, o quella foucaultiana, o quella marcusiana etc. a trasformarsi in proclami della lotta armata? Dei documenti politici delle BR, o delle teorizzazioni di Faina e Senzani analizzate da Luzzatto, si può dire con una certa facilità che sono “deliranti” (la stessa Rossanda usa questo aggettivo per gli scritti del periodo autonomista di Toni Negri). Ma in quale punto della loro elaborazione le teorie politiche diventano deliranti? Per me, che in quella fine anni Settanta ero studente universitario per l’appunto in una facoltà di Lettere (Siena) imbottita di questo tipo di pensiero, la domanda è angosciosa: il dubbio di essere stato formato in una sorta di delirio collettivo mi ha più di una volta sfiorato (un libro curato da Senzani faceva fra l’altro parte di un mio programma d’esame). Non mi rassegno però a credere che non vi sia un confine riconoscibile fra il pensiero razionale e il delirio: e riconoscere il punto in cui l’uno si trasforma nell’altro è essenziale non solo per fare la storia di quegli anni, ma anche per continuare a frequentare il campo delle scienze umane e della teoria cosiddetta critica.

Ciò si collega a un terzo e ultimo problema: che relazione c’è fra quella teoria politica che ha fatto da sfondo alla lotta armata e il pensiero “critico” e antagonista che va oggi più di moda – anche se non è certo diffuso in segmenti così ampi del corpo sociale come avveniva negli anni Settanta, ed è piuttosto concentrato in particolari ambienti accademici e intellettuali? Il linguaggio è in parte cambiato, ma gli elementi di continuità sono ben individuabili – dall’avversione per lo Stato e per il potere in qualsiasi sua forma, allo sprezzo per la democrazia formale, all’idea che la violenza “rivoluzionaria” è sempre giustificata come reazione alla più fondamentale violenza istituzionale. Vale la pena rifletterci, i due contesti possono forse illuminarsi a vicenda. 

Dialoghi Mediterranei, n. 66, marzo 2024
Note
[1] S. Luzzatto, Dolore e furore. Una storia delle Brigate Rosse, Torino, Einaudi, 2023.
[2] R. Gasperina Geroni, Luzzatto, Antropologia delle BR a Genova, «Alias domenica», 5 novembre 2023
[3] S. Luzzatto, Il corpo del duce: un cadavere fra immaginazione, storia e memoria, Torino, Einaudi, 1998; Id., Padre Pio. Miracoli e politica nell’Italia del Novecento, Torino, Einaudi, 2010.
[4] In S. Zavoli, La notte della Repubblica, Roma L’Unità, 2015: 229.
[5] V. Benigno, F., Terrore e terrorismo. Saggio storico sulla violenza politica, Torino, Einaudi, 2018; F. Dei, Culture del terrore: l’occulto, l’immaginario e l’amplificazione discorsiva della violenza, «Studi culturali», XVI (1), 2019: 17-37; M. Aria, a cura di, Occulto, segreto, indicibile, numero monografico di «Rivista di Antropologia contemporanea”, I (2), 2020; A. Strathern, P. Stewart e N. Whitehead (eds.), Terror and Violence, London, Pluto Press, 2006.
[6] Si veda fra l’altro la monumentale opera memorialistica curata da Curcio, “Progetto memoria”, edita in tre volumi dalle Edizioni Sensibili alle foglie (1. La mappa perduta, 1994: 2. Sguardi ritrovati, 1995: 3. Le parole scritte, 1996). Un lavoro molto utile di raccolta documentaria e d ricostruzione biografica, tutto centrato però sull’ambigua convinzione di poter riunire il ricordo degli assassini e quella delle vittime in un unico impianto memoriale, basato sul riconoscimento delle “buone ragioni politiche” dei primi.
[7] https://corrieredelmezzogiorno.corriere.it/lecce/notizie/politica/2009/25-giugno-2009/erri-de-lucala-lotta-armata-non-era-terrorismo-quegli-anni-fu-guerra-civile–1601501435511.shtml. In particolare De Luca afferma delle vittime: «Li considero caduti, alla stessa stregua dei caduti della sinistra ri­voluzionaria e di alcune persone ammazzate per errore nel corso di azioni. Vittime alla pari di quella stagione, di quella guerra civile ita­liana». Per quanto le sue posizioni mi appaiano aberranti, sono forse più oneste di quei (come lui) militanti della “sinistra rivoluzionaria” che hanno cercato di separare in modo troppo netto le posizioni di Lotta Continua o Potere operaio da quelle delle BR o altri gruppi armati: «I rivoluzionari ammettono per definizione l’uso delle ar­mi. Lc è stata differente dal­le formazioni clandestine perché considerava l’uso delle armi una danna­ta neces­sità se­condaria mentre le forma­zioni clandestine lo conside­ravano come l’unica manife­stazione politica. Tanto per capirci, gran parte di Prima linea al Nord è stata formata da ex militanti di Lc».
[8] A. Ventrone, Introduzione, in A. Ventrone, a cura di, I dannati della rivoluzione. Violenza politica e storia d’Italia negli anni Sessanta e Settanta, Macerata, Edizioni dell’Università di Macerata, 2010: 9. Il libro di S. Segio è Una vita in prima linea, Milano, Rizzoli, 2006.
[9] E Carrere, V13, Milano, Adelphi, 2023.
[10] Per una considerazione “morale” dei perpetratori dei genocidi si veda il recente studio di Richard Rechtman, Le vite ordinarie dei carnefici, trad. it. Torino, Einaudi, 2023.
[11] A. Ventrone, op. cit.: 11.
[12] Ibid.: 17.
[13] Cit. in S. Luzzatto, Il terrorismo e quella storia da riscrivere, Il Sole 24 ore -La Domenica, 9 maggio 2010 (https://st.ilsole24ore.com/art/SoleOnLine4/Tempo%20libero%20e%20Cultura/2010/05/domenica-terrorismo-storia-da-scrivere.shtml?uuid=f4187e32-5aa2-11df-b686-3d0b738a0b0a&DocRulesView=Libero#)
[14] Ibid.
[15] F. Dei, Terrore Suicida. Religione, politica e violenza nelle culture del martirio, Roma, Donzelli, 2016.

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Fabio Dei, insegna Antropologia Culturale presso l’Università di Pisa. Si occupa di antropologia della violenza e delle forme della cultura popolare e di massa in Italia. Dirige la rivista Lares e ha pubblicato fra l’altro Antropologia della cultura materiale (con P. Meloni, Carocci, 2015), Terrore suicida. Religione, politica e violenza nelle culture del martirio (Donzelli, 2016), Antropologia culturale (Il Mulino, 2016, 2.a ed.), Cultura popolare in Italia. Da Gramsci all’Unesco, Il Mulino, 2018). Con C. Di Pasquale ha curato i volumi Stato, violenza, libertà. La critica del potere e l’antropologia contemporanea (Donzelli, 2017) e Rievocare il passato. Memoria culturale e identità territoriali (Pisa University Press, 2017), James G. Frazer e la cultura del Novecento. Antropologia, psicoanalisi, letteratura (Carocci 2021). Dirige la Rivista di antropologia contemporanea e dal 2017 Lares, Quadrimestrale di studi demoetnoantropologici.

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