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Vini, mosti concentrati e “Ferrenosio”: i Favara di Mazara del Vallo

copertina di Rosario Lentini

Nel vivo dei moti rivoluzionari del 1848 il giovane Vito Favara Verderame, nativo di Salemi, dopo aver compiuto gli studi a Palermo e vissute le prime esperienze politiche al fianco dei liberali e dei patrioti antiborbonici del capoluogo siciliano, veniva nominato commissario della Guardia Nazionale e inviato a presiedere il Distretto di Mazara.[1] La rivoluzione siciliana, come noto, non ebbe l’esito sperato concludendosi con la sconfitta dei suoi ispiratori e promotori – sia per ragioni militari che di strategia e di divisioni interne tra gli stessi – e con il ripristino del governo di Ferdinando II re delle Due Sicilie. Tuttavia, ciò non impedì al Favara di continuare a coltivare la sua fede antiborbonica e a preparare e sostenere, insieme ad altri liberali mazaresi, l’impresa garibaldina del ’60. Stabilitosi definitivamente a Mazara, sposò nel 1858, dopo essere rimasto vedovo della prima moglie, Emanuela figlia di Scipione Maccagnone principe di Granatelli. Tra il 1858 e il 1860 fu sindaco della città e, come ancora testimonia una lapide in marmo collocata nel prospetto dell’abitazione, ospitò Garibaldi il 20 e 21 luglio del 1862.

indexVito Favara non era soltanto un convinto patriota, ma anche un moderno e lungimirante imprenditore agricolo; in particolare, nei suoi vasti possedimenti produceva cotone, vini e olio, tutti generi ripetutamente premiati alle esposizioni siciliane e nazionali (a Firenze nel 1861, con medaglia di merito per i vini bianchi e neri delle annate 1855, 1859 e 1860) e internazionali (a Londra nel 1862, per i vini e per il cotone bianco di Siam[2]). Alla II Esposizione di orticoltura che si tenne a Palermo nel settembre del 1865, oltre ad un “olio fino da condire” (premiato con medaglia d’argento) e ai vini da pasto, presentò una varietà di marsala concia Italia del 1863, e diversi vini liquorosi Garibaldi, Amarena, Cedrato, Ciregia, un “vino imitazione Malaga 1864” e un distillato di vino.[3] Durante i mesi del colera del 1867 non fece mancare il suo contributo finanziario a sostegno della popolazione colpita, né quello materiale, apportando gratuitamente «[…] per la cura dei cholerosi, tutta quella quantità di vino generoso, alcool ed aceto e ciò per tutto il tempo che la Città trova(va)si afflitta dal male dominante, provvedendone Lazzaritti, Ospedale e Convalescenza».[4]

La casa vinicola Favara, unitamente a quella del conte Burgio, che intorno al 1862 aveva avviato la produzione enologica di vini da pasto e di marsala, si affermarono nella seconda metà del XIX secolo conseguendo risultati e successi in ambito nazionale fino ad allora riconosciuti solo alla più antica e prestigiosa azienda anglo-siciliana degli Hopps.[5] Nel 1885 Vito Favara insieme ai fratelli e ai figli (Simone Favara Verderame, Onofrio, Giuseppe e Vito Favara Scurto, Onofrio Favara Mistretta ed Onofrio Favara Maccagnone), «[…] allo scopo di lavorare in comune i vini prodotti dalle proprie vigne e renderli atti al grande commercio ed all’esportazione», costituivano la ditta “Fratelli Favara & Figli”.[6] A questa società il fondatore Vito Favara conferiva i suoi due marchi più apprezzati: il vino da dessert Garibaldi (ottenuto da vitigni americani ed europei) e l’Irene (da uve Catarratto), prodotti sin dagli anni sessanta dell’800 nel suo stabilimento.

Nel 1886, la direzione tecnica della nuova azienda fu affidata all’enologo Libero Candio, allievo del professor Carpenè della Regia Scuola di Conegliano, con obiettivi molto ambiziosi illustrati in una nota informativa pubblica a cura degli stessi Favara: «Il nostro stabilimento non trascurerà la confezione del già rinomato tipo Marsala, ma più si applicherà con cure assidue alla fabbricazione dei vini da pasto, tanto neri che bianchi, da vendersi entro l’anno e da invecchiare. Il nostro stabilimento, inoltre, provvisto dell’ormai conosciutissimo apparecchio del Prof. Cav. Carpenè, del quale ha già acquistato l’esclusività per tutta la Sicilia, si occuperà della confezione del Vino Spumante del quale avrà due tipi: uno sarà uno spumante tipo Champagne e l’altro tipo Marsala […]. Valendosi delle eccellenti uve bianche porrà anche in commercio del Vermouth di vino».[7] Già in occasione della Fiera enologica di Roma dell’anno successivo, la ditta Favara veniva premiata con medaglia d’argento proprio per i vini spumanti «uso Champagne» di cui erano state prodotte le prime 22 mila bottiglie,[8] a pari merito con la concorrente Gancia di Canelli.[9] Contemporaneamente, la ditta diventava fornitrice ufficiale di vino marsala per la Real Casa.[10]

FerrenosioNell’autunno del 1888 i Favara lanciavano sul mercato la produzione industriale di mosto concentrato ottenuto dal succo di uve bianche dei vitigni Inzolia e Catarratto e, qualche anno dopo, anche dalla varietà Pignatello rosso. Il liquido veniva fatto evaporare fino a ridurre il volume ad un quarto della massa iniziale per ricavare «[…] una sostanza fluida, spessa, nera, analoga al sapone molle. Esso – scriveva nel 1892 il giornalista del «Progrès Agricole et Viticole» di Montpellier – ha, in grado elevato, l’odore dei frutti di fresco compressi. […] Nelle buone annate, quando il mosto raggiunge fino al 23 per cento di zucchero e più, il mosto concentrato […] contiene più del 90 per cento di zucchero».[11] La genesi di questa specifica iniziativa è spiegata in un prezioso opuscolo redatto dai Favara nel dicembre del 1891, la cui lettura integrale risulterebbe di notevole interesse anche per gli enologi contemporanei: «Non fu che dopo la rottura del trattato di commercio con la Francia, e conseguente sovrabbondanza di prodotto, che si tornò a parlare della concentrazione di mosto; e fu appunto allora che anche per parte nostra incominciarono gli studii per l’impianto di quest’Industria nella nostra Provincia, che si presentava come la più adatta, per l’elevato grado zuccherino dei mosti che vi si producono, superiore a quello di tutti gli altri d’Italia».[12]

Occorreva, però, superare l’ostacolo principale dell’esosità delle macchine da utilizzare, troppo costose per un impiego limitato a poco più di un mese l’anno: «[…] ci demmo a studiare un apparecchio che pur dando un buon lavoro, costasse il meno possibile, e fosse di facile maneggio; infatti per la vendemmia del 1888 abbiamo fatto funzionare un concentratore speciale che corrispose pienamente al nostro desiderio».[13] L’apparecchio in questione fu, dunque, realizzato dall’azienda mazarese e – stando a una fonte ufficiale attendibile – proprio da uno dei Favara, di cui però non è indicato il nome.[14] All’interno dello stabilimento, inoltre, furono installati moderni macchinari di ogni genere (per la distillazione del vino, per la produzione del ghiaccio, del raffreddamento delle cantine, ecc.). La gamma di mosti concentrati prodotti era di 6 tipi (marcati rispettivamente: N, R, F, D, V.R, V.N), in funzione delle diverse applicazioni. Il prodotto ben si prestava ad essere utilizzato in aggiunta ai vini dell’Italia continentale, naturalmente poveri di titolo zuccherino. Questa modalità di impiego era ben conosciuta e antica ma, come osservava l’enologo Neli Maltese: «Vorrei solo che si smettesse la vecchia pratica di concentrare il mosto a fuoco diretto, nelle grandi caldaje di rame, perché i vini contraggono poi un sapore caratteristico di cotto, spesso così spiccato, da renderli addirittura nauseanti. Il migliore è quello concentrato nel vuoto a temperatura sempre inferiore a 50° C. Questo mosto preparano egregiamente e vendono i fratelli Favara di Mazzara del Vallo».[15]

 Sala macchine immagine

Sala macchine

Il mosto concentrato, dopo un primo esame eseguito con successo nel laboratorio romano della Società generale dei Viticultori, fu ulteriormente sottoposto a controlli e verifiche nel 1890, presso le colonie italiane eritree di Massaua e di Asmara.[16] Gli esperimenti furono condotti sotto la direzione del Candio, tra aprile e maggio di quell’anno, utilizzando tre tipi di mosto concentrato che erano stati imbarcati nel porto di Mazara in diversi fusti della capienza di 50 litri ciascuno e che giunsero a destinazione senza aver subito alcuna alterazione nella composizione. Appena diluiti con acqua distillata (da 275 a 380 litri), a due dei tre tipi di mosto vennero aggiunti anche dei fermenti (4 litri di feccia di vino bianco), per verificare l’eventuale differente risultato del processo di vinificazione. Dopo circa quindici giorni di fermentazione i tre tipi di vino vennero lasciati a riposo un’altra settimana e poi filtrati e travasati. Il risultato ottenuto per tutti e tre i tipi fu decisamente lusinghiero, specialmente al confronto con i vini dati in razione ai soldati che per non guastarsi durante la navigazione venivano addizionati di alcol: «I vantaggi che col nostro sistema si raggiungerebbero – relazionava Libero Candio – son vari e di varia indole. Una notevole economia nelle spese di trasporto, facchinaggio, ecc., che ammettendo di adoperare mosto ad ¼ si ridurrebbe la spesa del 75% come del 75% si ridurrebbe la spesa necessaria per i fusti da trasporto».[17] L’esperimento venne ripetuto nel 1891 anche in Argentina con risultati meno soddisfacenti ma ancora positivi, considerata la distanza e durata del viaggio dei fusti di mosto concentrato.[18]

In buona sostanza, la ditta Favara non intendeva soddisfare soltanto la domanda di mosto concentrato che proveniva dalle aziende settentrionali o dell’Europa continentale per rafforzare i vini deboli, i vin santi e i liquorosi, ma mirava a ritagliarsi anche una quota del mercato di quelli da pasto ordinari, proponendo la conversione in vino dei diversi tipi di concentrato nei luoghi di destinazione; piuttosto che spedire 100 botti di vino, si abbattevano i costi imbarcandone 25 di mosto concentrato e si evitava l’addizionamento di alcol. Ad inizio ‘900 la produzione annua di concentrati raggiunse il livello di 6 mila ettolitri.[19] Inoltre, proseguendo le sperimentazioni, si pervenne pure alla realizzazione di un particolare tipo di mosto concentrato dalle importanti qualità terapeutiche, cui fu dato il nome di “Ferrenosio” Favara. Le virtù del prodotto, nel 1894, furono illustrate a un uditorio di specialisti – l’XI Congresso medico internazionale di Roma (29 marzo – 5 aprile) – dal professore Pasquale Freda, con una comunicazione alla seduta della Sezione Pediatrica avente per oggetto il «mosto concentrato di salute» preparato dai fratelli Favara. Le analisi di laboratorio, infatti, mostravano che in un litro di mosto in questione, (in particolare quello marca R, ricavato da uve rosse) fossero presenti 32 centigrammi di ossido ferroso e 77 di anidride fosforica. «Questi risultamenti analitici – precisava una fonte giornalistica – furono per molti congressisti di quella Sezione una vera rivelazione, in quanto che il nuovo preparato potrà avere un’estesa applicazione nel campo terapeutico e prendere un posto eminente sopra tutti i ricostituenti finora conosciuti».[20] Il “Ferrenosio” brevettato dai Favara, che veniva venduto nelle farmacie in flaconi e somministrato con acqua o seltz,  negli anni seguenti ebbe un discreto successo.[21]

Dialoghi Mediterranei, n.11, gennaio 2015
Note

[1] A. DI STEFANO RUVOLO, Cenni biografici del commendatore Vito Favara Verderame, Palermo 1873, pp. 9-10.
[2] Cfr. R. LENTINI, Quando il cotone e la giummara…, «Dialoghi Mediterranei», edizione on-line, novembre 2013.
[3] Seconda Esposizione di orticoltura, floricoltura e giardinaggio fatta in Palermo dai 8 a 11 settembre 1865, Palermo, 1865, pp. 32-33.
[4] Archivio storico del Comune di Mazara del Vallo, Elenco delle Contribuzioni raccolte elargite volontariamente in sollievo della popolazione travagliata dal Cholera e delle famiglie povere del Paese, Mazara del Vallo, 9-10-1867, a firma dell’Assessore Delegato M. Certa.
[5] R. LENTINI, Il vino di Mazara da Joseph Payne a Luigi Vaccara, in A. CUSUMANO, R. LENTINI (a cura di), Mazara 800-900. Ragionamenti intorno all’identità di una città, Sigma, Palermo 2004, pp. 66-69.
[6] Industria vinicola in Mazara, in «La Settimana commerciale e industriale», Palermo, 1886, n. 10, p. 2.
[7] Ibidem.
[8] Fiere vinicole, «La Settimana commerciale e industriale», 1887, n. 9, p. 1 e n. 10, p. 1.
[9] I prodotti dell’Industria Enologica della provincia di Trapani, «La Provincia», anno XI, n. 2, 28 febbraio 1887, p. 1.
[10] Fratelli Favara & Figli. Stabilimento vinicolo – Mazzara del Vallo, in Rivista industriale, commerciale e agricola della Sicilia, Bontempelli & Trevisani, Milano 1903, p. 175.
[11] I mosti concentrati, «La Settimana cit.», 1892, n. 43, pp. 3-4.
[12] F.lli FAVARA & FIGLI, Il mosto concentrato e sue applicazioni, Tip. F.lli Vena, Palermo 1892, pp. 3-4.
[13] Ivi, p. 4.
[14] Condizioni economiche della provincia di Trapani, a cura del Ministero di Agricoltura, Industria e Commercio, Annali di Statistica, Roma 1896, p. 51.
[15] N. MALTESE, Correzione dei mosti zuccherini mediante aggiunta di acqua, Vittoria 1901, p. 87.
[16] Il mosto concentrato in Africa, «Giornale ed atti della Società di acclimazione e di agricoltura in Sicilia e del Circolo enofilo siciliano», anno XXX (1890), pp. 191-192.
[17] Ivi, p. 203; Nuove esperienze di vinificazione con mosto concentrato nella Colonia Eritrea, «Giornale ed atti cit.», anno XXX (1890), pp. 442-447; Relazione sulle condizioni economiche della provincia di Trapani, a cura del segretario della Camera di Commercio Giuseppe Mondini, Palermo 1891, p. 113.
[18] Il mosto concentrato nell’Argentina, «Giornale ed atti cit.», anno XXXI (1891), pp. 280-284.
[19] Fratelli Favara & Figli. Stabilimento vinicolo cit., p. 176.
[20] Mosto concentrato di salute, «Nuovi annali di agricoltura siciliana», anno V (1894), pp. 181-182.
[21] Fratelli Favara & Figli. Stabilimento vinicolo cit., p. 176.
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Rosario Lentini, studioso di storia economica siciliana dell’età moderna e contemporanea. I suoi interessi di ricerca riguardano diverse aree tematiche: le attività imprenditoriali della famiglia Florio e dei mercanti-banchieri stranieri; problemi creditizi e finanziari; viticoltura ed enologia, in particolare, nell’area di produzione del marsala; pesca e tonnare; commercio e dogane. Ha pubblicato numerosi saggi anche su riviste straniere; ha presentato relazioni a convegni in Italia e all’estero; ha curato e organizzato alcune mostre documentarie per conto di istituzioni culturali e Fondazioni.

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