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Verso un noi più esteso: per un’etica della cura oltre e dentro la conservazione della natura

Zona aperta di baraggia nell'altipiano del Baraggione di Candelo. Si possono notare il brugo (la pianta più bassa), la molinia (più slanciata) e il terreno irregolare (ph. Mila Casali)

Zona aperta di baraggia nell’altipiano del Baraggione di Candelo. Si possono notare il brugo (la pianta più bassa), la molinia (più slanciata) e il terreno irregolare (ph. Mila Casali)

di Mila Casali 

Cosa significa conservare la Natura? Cosa va conservato? Come e per chi? Una “buona” conservazione richiede l’allontanamento o il coinvolgimento dell’essere umano? Chi è il noi che viene interrogato nei processi di conservazione della natura? Chi (e cosa) viene incluso, chi (e cosa) viene escluso da questo noi? Sono questi gli interrogativi che ho incontrato durante la mia ricerca etnografica all’interno della Riserva Naturale delle Baragge, in Piemonte, dove diversi modi di intendere la conservazione e la gestione di questo luogo hanno rivelato differenti posizionamenti che hanno stimolato la scrittura di questo articolo.

La premessa antropologica a questi interrogativi nasce dalla dicotomia occidentale moderna che, contrapponendo società e natura, influenza fortemente il modo in cui vengono gestiti e abitati i luoghi di conservazione. Qui è opportuno ricordare Philippe Descola, che sottolinea come il concetto stesso di “Natura” sia una creazione culturale e, dunque, una particolare rappresentazione del mondo tutt’altro che universale. Questa, continua Descola, si oggettiva come una «sfera autonoma» dall’umano, e si identifica come una «nicchia ontologica definita dalla sua mancanza di umanità» (Descola, 2014: 58). Questo modo di rappresentare e intendere il mondo, che l’autore chiama “naturalismo”, non è dunque universalmente condiviso. Al contrario, si tratta di un paradigma nato in un luogo geografico e in un tempo storico specifici. Partendo da questo assunto, l’articolo riflette sul contributo di autori e autrici che offrono spunti preziosi per superare la dicotomia Natura/Cultura, immaginare un noi più esteso e, dunque, superare il modello dominante di conservazione della natura attraverso un’etica della cura. 

oltre-natura-e-cultura-3434Isole di baraggia: trasformazione e coabitazione delle Baragge 

La zona in cui ho concentrato prevalentemente la ricerca sul campo è il cosiddetto “Baraggione”, un’area della Riserva Naturale delle Baragge, nel Biellese, in Piemonte. Col termine “Baraggia” si indica generalmente un’area a ridosso delle Prealpi biellesi, caratterizzata da zone aride, sterili e incolte, formatasi tra 750 mila e 135 mila anni fa e sul cui terreno argilloso e irregolare crescono sterpi e brughiere. Le Baragge si presentano oggi come un continuum di aree distinte: zone di bosco, di cespuglieti, di aree coltivate e di spazi aperti di brughiere e praterie, di brugo (Calluna Vulgaris, simile all’erica) e molinia (una graminacea slanciata), che creano un paesaggio arioso e che hanno fatto acquisire alla Baraggia l’appellativo di “ultima savana d’Italia”.

In queste zone aperte di brughiere e praterie vivono specie di uccelli, farfalle e libellule che trovano nelle caratteristiche della baraggia l’unico luogo adatto alla propria sopravvivenza. Essendosi nei secoli ridotta in estensione e sottoposta a processi di frammentazione ecologica, l’ecosistema baraggia si presenta oggi a macchia di leopardo in alcune aree europee, non più connesse tra loro, ed è per questo che sia l’habitat stesso che molte specie che lo abitano sono considerate protette a livello europeo. Ad esempio in tutta Italia ambienti simili si trovano solamente in provincia di Torino, le “Vaude”, e in provincia di Milano, le “Groane”. 

 Crescita di giovani alberi nell'altipiano del Baraggione di Candelo (ph. Mila Casali)

Crescita di giovani alberi nell’altipiano del Baraggione di Candelo (ph. Mila Casali)

«L’essere umano è fondamentale nel conservare la baraggia» mi disse un giorno Maria Chiara Sibille, guardaparco della Riserva e preziosa interlocutrice. Le Baragge sono state infatti per secoli coabitate dall’essere umano, che se ne è occupato e pre-occupato, con azioni di cura rivolte al futuro, volte a garantire una «sopravvivenza collettiva» agli abitanti locali tramite il mantenimento di forme complementari a un’economia di sussistenza. Gli interlocutori che abitano dentro o nei pressi delle baragge hanno condiviso racconti e ricordi in cui anche per buona parte del ‘900 le baragge furono utilizzate dagli abitanti, nelle loro parole, come «lavoro povero» o «ultima spiaggia». Avere un pezzetto di baraggia era utile perché supportava l’economia molto modesta delle famiglie: si tagliava la molinia, che si usava da mettere sotto i formaggi a scolare o come lettiera per gli animali; si tagliava il brugo, che una volta seccato veniva dato in inverno alle mucche; si tagliava la legna, si raccoglievano funghi, foglie; vi si portavano a pascolare mucche e pecore.

Tracce dell’abitare nell'altipiano del Baraggione di Candelo:   3.a L'impronta lasciata dal passaggio di un tasso (ph. Mila Casali)

Tracce dell’abitare nell’altipiano del Baraggione di Candelo:
 L’impronta lasciata dal passaggio di un tasso (ph. Mila Casali)

Allo stesso tempo, dalla ricerca sul campo è emerso come queste pratiche di cura abbiano rappresentato nel tempo un modo per garantire la sopravvivenza della Baraggia stessa e dei suoi abitanti nonumani. Il taglio e la raccolta di piante, foglie e legna, il pascolo di mucche e pecore, erano attività che mantenevano la baraggia aperta, impedendo la crescita del bosco e rendendo la baraggia «coltivata», come mi disse P. seduto al tavolo della sua cascina, nel Baraggione. Nato più di sessant’anni fa e cresciuto dentro la baraggia, P. (che preferisce rimanere anonimo) è pastore figlio di pastori. A otto anni andava da solo a far pascolare le mucche in baraggia e, con rammarico, racconta di come un tempo la baraggia fosse «coltivata», non nel senso della semina ma di quella cura del terreno che avviene utilizzandone i frutti, mentre oggi vi crescono rovi e canne in modo incontrollato: «un tempo era come un giardino pulito, oggi è un bosco disordinato». 

Feci di un lupo (ph. Mila Casali)

Feci di un lupo (ph. Mila Casali)

Gli interlocutori che abitano dentro o nei pressi del Baraggione mi raccontarono di come, da circa una decina di anni, la possibilità di pascolare, raccogliere e utilizzare i prodotti delle baragge sia stata proibita in modo più categorico. Le maggiori restrizioni arrivano in primo luogo dal proprietario delle terre del Baraggione, vale a dire l’Esercito Italiano, che negli anni ‘50 espropriò le terre e trasformò l’area nel poligono da tiro più grande di tutto il nord-ovest, tutt’ora ampiamente utilizzato per esercitazioni militari. Anche alcuni membri dell’Ente di Gestione della riserva sostengono e condividono le maggiori restrizioni all’ingresso degli abitanti locali, come Carlo Bider, all’epoca della ricerca direttore dell’Ente di Gestione delle Aree Protette del Ticino e del Lago Maggiore, che mi raccontò di come, a suo vedere, l’esclusione dell’essere umano da zone protette non possa che esser un bene per la loro conservazione. Nelle sue parole: «Dal nostro punto di vista se in un’area protetta non ci può andare nessuno è solo meglio, rimane più tutelata (…) è una sicurezza che lì non ci fai niente, l’impedimento ai civili, alla massa, di accedere è una garanzia migliore che la natura venga meno compromessa».

La tana di un gruccione scavata nella parete argillosa (ph. Mila Casali)

La tana di un gruccione scavata nella parete argillosa (ph. Mila Casali)

Tuttavia altri interlocutori, tra cui altri membri dell’Ente di Gestione, mi raccontarono di non condividere questa visione, come la guardaparco della Riserva Maria Chiara Sibille convinta che l’essere umano sia stato e sia tutt’oggi fondamentale nel conservare la baraggia. Per Maria Chiara Sibille, infatti, il rischio più grosso per le Baragge è la crescita del bosco. L’allontanamento dell’essere umano dalle baragge, la sua sottrazione nella gestione del territorio, sta facendo chiudere a bosco molte aree un tempo baraggive, a discapito proprio delle aree aperte che l’Ente di Gestione è maggiormente tenuto a tutelare, in quanto habitat di specie in via di estinzione.

Queste ultime isole di baraggia aperta sono infatti casa di una moltitudine di soggettività umane ma anche nonumane, che in modi diversi le vivono e, abitandole, le formano, plasmano e trasformano. Sul campo, attraverso le lunghe camminate nel Baraggione e le storie degli interlocutori, emersero storie di piante, alberi, felci, brugo e rovi; storie di animali, farfalle, uccelli, pecore e rane. Storie di arrivi, ritorni e scomparse. Come la storia, raccontatami dall’ornitologo Lucio Bordignon, della scomparsa dell’ortolano (Emberiza hortulana), un passeriforme della famiglia degli zigoli che fino alla fine degli anni ‘80 e all’inizio degli anni ‘90 volava e nidificava frequentemente in baraggia, ma è da decenni localmente estinto. O come la storia di una presenza non sperata, raccontatami dalla biologa Simona Bonelli che scoprì come nelle Baragge si trovi uno dei maggiori “serbatoi” d’Europa della farfalla Coenonympha Oedippus, in Europa data per estinta. Come ogni ambiente, o meglio come tutto ciò che vive, le baragge sono in continua trasformazione. 

Una Coenonympha Oedippus nell'altipiano del Baraggione di Candelo (PH. mILA cASALI)

Una Coenonympha Oedippus nell’altipiano del Baraggione di Candelo (ph. Mila Casali)

Verso un noi più esteso 

Le parole con cui Maria Chiara mi aveva parlato del rapporto tra essere umano e baraggia fanno eco a quelle scritte nel 1972 da Gregory Bateson: «l’organismo che distrugge il suo ambiente distrugge se stesso» (Bateson, 2010: 491). Quello di «unità di sopravvivenza» è un concetto che solleva questioni relative a cosa includano gli esseri umani nella loro unità minima di sopravvivenza e quali ripercussioni abbia la definizione di cosa vi rientra e cosa no. Scrive Bateson: 

«Nel momento in cui vi arrogherete tutta la mente, tutto il mondo circostante vi apparirà senza mente e quindi senza diritto a considerazione morale o etica. L’ambiente vi sembrerà da sfruttare a vostro vantaggio. La vostra unità di sopravvivenza sarete voi e la vostra gente o gli individui della vostra specie, in antitesi con l’ambiente formato da altre unità sociali, da altre razze e dagli animali e dalle piante. Se questa è l’opinione che avete sul vostro rapporto con la natura e se possedete una tecnica progredita, la probabilità che avete di sopravvivere sarà quella di una palla di neve all’inferno» (ivi: 503, corsivo nell’originale).  

i__id12579_mw600__1xL’autore propone di considerare come «unità di sopravvivenza» non noi e la nostra specie in antitesi con l’ambiente, ma «il complesso flessibile organismo-nel-suo-ambiente» (ivi: 491) o, nella successiva riformulazione di Tim Ingold, l’«intero-organismo-nel-suo-ambiente» (Ingold, 2000: 19, traduzione mia). Questa riformulazione si offre come punto di partenza fondamentale nel ripensare il nostro modo di intendere la relazione essere umano – ambiente. Noi viviamo, ci formiamo e a nostra volta formiamo e facciamo vivere l’ambiente di cui siamo parte. Vi siamo legati a doppio nodo, e non ha senso ipotizzare una sopravvivenza al di fuori di esso. 

La storia delle coabitazioni e della conservazione delle Baragge consente di riflettere sulla necessità di ampliare quella «collettività» di cui è stata garantita ne secoli la sopravvivenza con azioni di cura rivolte al futuro, estendendola dai soli abitanti umani verso il resto del vivente. Questa estensione può consentire di ampliare la nostra unità minima di sopravvivenza, cosa intendiamo con noi, ed essere una strada per aprire a immaginari, risposte e possibilità diverse, sia nelle pratiche di conservazione, che nel modo in cui intendiamo la relazione essere umano – ambiente. Una visione dell’ambiente come esterno ed estraneo all’essere umano ha contribuito a portare alla crisi ecologica che oggi caratterizza l’Antropocene, facendo intendere l’ambiente o come risorsa da sfruttare o come “selvaggio” da proteggere, in una dicotomia in cui «il luogo in cui siamo noi è il luogo in cui la natura non c’è» (Cronon, 1995: 11, traduzione mia) e in cui, viceversa, «la natura selvaggia non lascia spazio agli esseri umani» (Ibidem).

Alberi caduti nell'altipiano del Baraggione di Candelo. Non vengono rimossi, ma lasciati di proposito a terra (ph. Mila Casali)

Alberi caduti nell’altipiano del Baraggione di Candelo. Non vengono rimossi, ma lasciati di proposito a terra (ph. Mila Casali)

Non a caso sono molte le voci dell’antropologia, e non solo, che stanno da tempo proponendo e cercando strade che amplino cosa intendiamo con noi. Dalla ricerca di una «antropologia oltre l’umano» (Kohn, 2021; Ingold, 2013) a quella di una «etnografia multispecie» (Kirksey e Helmreich, 2010); da una socialità che vada oltre l’umano, una «more-than-human-sociality» (Tsing, 2013), al riconoscimento dell’esistenza di «mondi multispecie» (Tsing, 2021), il pensiero antropologico va, con modalità e declinazioni diverse, verso la ricerca di una «universalità nuova» (Descola, 2014: 397), di un «noi più grande» (Kohn, 2021:.380). Come scrive Donna Haraway: «con-diveniamo insieme, gli uni con gli altri, oppure non diveniamo affatto» (Haraway, 2019: 17).  

Una visione di conservazione che parta da un noi più esteso comporta la necessità di focalizzarsi più sulle relazioni che sugli elementi da conservare. La conservazione deve tradursi in una riflessione rispetto alle convivenze, in cui le relazioni tra gli abitanti di un luogo, umani e nonumani, sono elemento chiave cui guardare e in cui le scelte da fare escono dalla mera gestione e diventano scelte etiche e politiche, che ci interrogano su come vogliamo con-vivere i territori: «Dobbiamo porre al centro delle preoccupazioni della conservazione il rapporto che gli esseri umani (tutti gli esseri umani, non solo quelli nominati o autoproclamati custodi della natura) hanno con le altre specie» (Adams, 2004: 240, traduzione mia). La conservazione va intesa allora come una questione che riguarda non tanto la natura, quanto noi esseri umani e il modo in cui scegliamo di vivere. Serve un passaggio, da una conservazione incentrata sulla gestione della natura, di un ambiente staccato ed estraneo, a una conservazione incentrata sulle attività umane in relazione all’ambiente (Whitehouse, 2015).

Luciano, pastore itinerante, e il suo gregge, nell’altipiano del Baraggione di Candelo (ph. Mila Casali)

Luciano, pastore itinerante, e il suo gregge, nell’altipiano del Baraggione di Candelo (ph. Mila Casali)

Una visione di conservazione che parta da un noi più esteso richiede inoltre una «new ethics of care» (Palsson et al., 2013: 11, riprendendo Gibson-Graham, 2011). Una «nuova etica della cura» che si rapporti al mondo globale come ci si rapporta alla famiglia, capace di far dilatare il noi al di fuori dei confini di prossimità con consanguinei o concittadini e di estendere la solidarietà al nonumano, ad altre forme di vita. La conservazione va declinata come scelta etica di cura, in cui però è importante specificare come con «cura» non si intendano solo azioni di accudimento, protezione e nutrimento, «La cura non è una questione di fusione; può essere una questione di giusta distanza. (…) La cura intesa come opera concreta di manutenzione, con implicazioni etiche e affettive, e come politica vitale in mondi interdipendenti» (Puig de la Bellacasa, 2017: 5, traduzione mia). La cura, dunque, può richiedere di prendere distanza, non è una “fusione”, come l’unione nel “tutto” proposta da alcune visioni olistiche, ma è una relazione tra le parti e tra le parti e il tutto, come proposto dalla visione sistemica. La cura comporta la determinazione di sopravvivenze e di morti negli equilibri della convivenza: «Cosa deve essere reciso e cosa deve essere legato affinché le relazioni multispecie sulla terra, incluse le parentele tra esseri umani e esseri altro-dagli-umani, possano prosperare?» (Haraway, 2016: 2, traduzione mia).

71rnym0j-ql-_ac_uf10001000_ql80_Nel contesto delle Baragge questo significa che alcune specie prospereranno mantenendo un paesaggio aperto, ed altre invece si allontaneranno. Felci, arbusti o alberi che, trovando condizioni favorevoli crescono occupando gli spazi aperti, vengono bruciati, tagliati o mangiati e, con loro, arretrano le specie che in quei luoghi trovano casa. Questo rimanda al concetto di response-ability che, ricorda Haraway, riguarda «sia l’assenza che la presenza, uccidere e nutrire, vivere e morire – ricordando chi vive e chi muore e come, nell’intrecciarsi della storia naturalculturale» (ivi: 28, traduzione mia).

Una visione di conservazione che parta da un noi più esteso richiede, infine, di guardare più a un futuro da scegliere, che al ripristino o al mantenimento di un problematico – e presunto – stato di naturalità: 

«Tenendo conto del passato, un tale approccio orientato al futuro riconoscerebbe l’intricata e duratura intimità tra esseri umani e non umani e farebbe propria la consapevolezza che gli abitanti umani sono parte integrante di un ambiente che ha bisogno di cura più che di protezione o conservazione» (Gruppuso, 2018: 405, traduzione e corsivo miei). 
Dialoghi Mediterranei, n. 67, maggio 2024 
Riferimenti bibliografici 
Adams W. (2004), Against Extinction. The Story of Conservation, Earthscan, London
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Descola P. (2014), Oltre natura e cultura, SEID Editori, Torino.
Gibson-Graham J.K. (2011), A feminist project of belonging for the Anthropocene, Gender, Place, and Culture 18 (1):1–21.
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Haraway D. (2016), Staying with the Trouble. Making Kin in the Chthulucene, Duke University Press, Durham. Traduzione italiana Haraway D. (2019), Chthulucene, Nero Editions, Poznań. 
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Palsson G., Szerszynski B., Sörlin S. et al. (2012), Reconceptualizing the ‘Anthropos’ in the Anthropocene: Integrating the social sciences and humanities in global environmental change research, Elsevier, environmentalscience&policy 28: 3 – 13. 
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Whitehouse A. (2015), Anthropological approaches to conservation conflicts, in S.M. Redpath, R.J. Gutierrez, K.A. Wood and J.C. Young, Conflicts in Conservation. Navigating Towards Solutions, Cambridge University Press, Cambridge: 94-104. 
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Mila Casali, laureata magistrale in Antropologia ed Etnologia presso l’Università di Torino, dopo aver conseguito una laurea triennale in Filosofia e un master triennale in Counselling Sistemico Socio-Costruzionista a Milano, ha come principali ambiti di interesse il rapporto essere umano- ambiente, la crisi ecologica e la sperimentazione di pratiche solidali per affrontarla. È socia attiva dell’Associazione Alekoslab che promuove iniziative incentrate sull’ecologia presso il villaggio ecologico di Granara.

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