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Verga, la letteratura come antropologia

1di Alberto Giovanni Biuso 

Premessa da allievo 

Questo testo è nato dalla lettura del più recente libro di Giuseppe Savoca: Verga cristiano dal privato al vero [1]. Lettura che mi ha permesso di vivere alcuni giorni in compagnia di Giovanni Verga, della sua famiglia, dei miti e dei fantasmi, di un amore totale verso la scrittura e la bellezza che la scrittura sa creare.

In compagnia e dentro il mondo arcaico, disincantato e complesso da cui Verga e la sua arte sono germinate. La scrittura di Savoca infatti fa toccare, vivere, vedere quel mondo; scrittura analoga al modo in cui più di quarant’anni fa le lezioni di questo giovane professore dell’Università di Catania mi introducevano alla profondità di Proust, di Tozzi, di Svevo. Una scrittura che è appunto sempre rimasta singolarmente giovane e anche per questo coinvolgente.

Nel lavoro critico di questo studioso ci sono una stupefacente dottrina e un limpido argomentare. Ma c’è soprattutto la capacità di far emergere la dimensione teoretica della letteratura. Questo è ai miei occhi il suo merito più grande anche nel libro dedicato a Verga cristiano. 

Letteratura e antropologia 

Ogni scrittore, tutti i romanzieri, ovunque vivano e qualunque sia la loro epoca offrono anche e fondamentalmente una testimonianza antropologico-esistenziale del loro tempo, oltre che del proprio ambiente e di se stessi. Nel caso di scrittori siciliani le differenze di stile, di ideologia, di immediato contesto storico non cancellano, anzi mettono ancor più in risalto, alcune costanti, che sono dell’Isola ma sono di tutti. La Sicilia è infatti simbolo, emblema, sineddoche dell’intera umanità.

Il primo di questi elementi è la lotta, è la vita come diffidenza, imbroglio, fatica. Anche per questo, perché profondamente legato alla lotta, un altro elemento centrale è la solitudine: «Nel mondo dei Malavoglia tutti sono soli»[2]. Lotta e solitudine che accadono dentro l’arcaismo, il caos, la potenza senza scopo della natura. Sono anche questi gli elementi che plasmano la Stimmung dei siciliani, i loro sentimenti, al tempo di Verga come nel nostro. In Verga essi si esprimono nella particolare tonalità di una disincantata razionalità che si coniuga all’assurdo metafisico, che osserva come «tutte le cose umane dànno una mano alla ragione e l’altra all’assurdo» (La coda del diavolo: 15) [3], che «la verità…la verità…Non si può sapere la verità» (Il peccato di donna Santa: 697), sino a generare «uno sconforto amaro, un senso desolato del nulla d’ogni cosa umana, se non dura nemmeno il dolore» (Passato!: 770).

verga_novelleDolore che intride le esistenze di tutti gli umani, qualunque sia la loro condizione di vita, di carattere, di situazione, di spazio, di tempo. Umani che sono intrinsecamente, inevitabilmente, «dolorosamente egoisti» (Frammento per Messina!: 799). Dolore che li rende consapevoli che la miglior sorte è morire, il non essere, «e se non fosse mai nato sarebbe stato meglio» come Rosso Malpelo dice del grigio (168), un asino la cui vita fu una via crucis, figura anche cristologica come l’asino Balthazar del film di Robert Bresson (1966), che attraversa la vita e il male in un borgo e nelle campagne francesi. L’occhio oggettivo di Balthazar assiste alle azioni degli umani, alla loro violenza, insensatezza, malvagità. Assiste al loro pianto e alle loro menzogne. Caricato di pesi, ridicolizzato in un circo, oberato di lavoro, frustato e preso a calci, utilizzato per il contrabbando, si spegnerà in un mattino di luce, circondato da un gregge. 

Al grigio e a Rosso Malpelo è dedicato l’ultimo capitolo del libro di Savoca, il più bello e profondo. Come ricorda Leonardo Sciascia, da ragazzo anche Verga era rosso di capelli e anche Verga sembra spesso volere penetrare dentro, più dentro dove il male è male, così come Rosso Malpelo penetra e si perde nelle viscere della terra che avevano già inghiottito il padre. Malpelo rappresenta un trionfo della morte che affonda anche nei miti ctoni del Mediterraneo. Morte dal ragazzo temuta ma anche alla fine cercata poiché con essa «finiscono le sofferenze, le angherie e le violenze degli altri, ma sarebbe stato meglio non essere mai nati»[4].

Non nascere infatti sarebbe la cosa migliore come sa il saggio Sileno interrogato da Mida, come sanno Leopardi e gli gnostici, come argomentano Emil M. Cioran e David Benatar [5]. Come Amleto, il miserrimo ragazzo delle miniere siciliane pensa che sarebbe stato meglio se la madre non l’avesse partorito. Un’affermazione che Savoca ricorda più volte [6], sino a volgerla in argomento teoretico quando scrive che il «nucleo tragico generativo di tutto Rosso Malpelo […]  vada collocato nel nodo insolubile della nascita per la morte», nell’«esistere per la morte e con la morte»[7]. Davvero, e saggiamente, nessuna illusione sulla condizione umana, nessuna «speranza di salvezza per nessuno» nella storia e nella natura [8], intrise della ferocia dell’umano verso l’identità e il dolore degli altri animali (Storia dell’asino di san Giuseppe); della relazione di dipendenza che ogni affetto intrattiene con le condizioni economiche – «Il guaio è che non siamo ricchi, per volerci sempre bene» (Pane nero: 291) – poiché «Denari! tutto sta nei denari a questo mondo!» (In piazza della Scala: 338; Amore senza benda: 360); di un profondo scetticismo sulla giustizia sia come ideale sia come pratica – «la Giustizia è fatta per quelli che hanno da spendere» (Don Licciu Papa: 230) – e la conseguente giustificazione del silenzio, dell’omertà, del chiudersi in se stessi.

Tutti gli umani sono immersi in questo male, qualunque sia il loro nome, appartenenza, condizione, soddisfazione o disperazione. Una solitudine che, come si è detto, segna il dominio della lotta e del denaro, che di ogni relazione non serena con gli altri è sempre in qualche modo fonte, ragione ed espressione: «Il tema dei soldi, in tutte le lettere ai familiari, come anche in quelle ai nipoti, è assolutamente centrale e, si direbbe, ossessivo. Non c’è quasi nessuna lettera in cui Verga non chieda ai familiari invio di denaro»[9].

La lotta dei Malavoglia per la sopravvivenza; la fortuna accumulata da Mazzarò e soprattutto da Mastro don Gesualdo; il costante cruccio per la propria condizione economica che accomuna i personaggi delle novelle ambientate in Sicilia come di quelle che descrivono Milano, sono tutte espressioni dell’universale guerra che è il vivere e del tentativo di trovare un compenso alla solitudine in una vera e propria religione della famiglia. La famiglia costituisce infatti un altro dei nuclei fondamentali dell’antropologia di Verga. Non solo nei Malavoglia – ma con particolare chiarezza in quest’opera – il sentimento sacro della famiglia «è sostanzialmente una sublimazione artistica di quella che era la religione della famiglia nell’uomo Verga, ma anche di quella che era la religione ‘vera’ nella sua famiglia biografica»[10].

La famiglia si pone da un lato come luogo di possibile superamento della solitudine e dall’altro di chiusura, barriera, muro nei confronti del mondo esterno. La famiglia costituisce un elemento sacro perché in essa pulsa un legame tra i vivi e i morti, vincolo che è ontologico ed esistenziale, cultuale e prassico; è un filo tenace senza il quale per Savoca non è pensabile né possibile la narrativa di Verga. E infatti il libro non casualmente si chiude proprio su questo elemento: «Il vero pubblico e privato di Verga, dall’inizio alla fine, è che per lui da sempre c’è, cristianamente, oltre al cielo stellato, un Cielo nel quale ci si ritrova e si continua a vivere: ‘Gloria e paradiso ai Morti’»[11].

In queste righe compare l’elemento che dà il titolo al libro di Savoca, la centralità dell’elemento religioso e in particolare della fede cristiana. In netta opposizione a buona parte della critica che ritiene Verga e la sua opera improntata a canoni e prospettive atee e materialistiche, lo studioso cerca di argomentare esattamente il contrario. E lo fa sempre sui testi, sulle pagine dei romanzi, delle novelle e delle lettere – davvero tante – inviate da Verga alla famiglia. 

978885841224graLa potenza della terra, del mare, degli elementi 

Ciò che Savoca interpreta nella chiave di una fede cristiana tormentata ma profonda, che altri studiosi attribuiscono invece a una visione disincantata e materialistica del mondo, è in ogni caso un universale antropologico che però assume una luce particolarmente vivida nella «maschera d’indifferenza orientale che è la dignità del contadino siciliano» (Jeli il pastore: 130), di questi umani fatti di terra, dalla terra nati come i guerrieri di Tebe nacquero dai denti del drago seminati da Cadmo. Esseri che non credono «né a Dio né al diavolo, sebbene li rispett[ino] entrambi» (Le storie del castello di Trezza: 67), che sono ben consapevoli – lo hanno sperimentato sulla propria carne, oltre che sull’anima – di quanto avidi e iniqui siano i religiosi della Chiesa Romana, i loro frati e le monache, i loro ingordi e lussuriosi preti.

Gli umani di Verga sono costituiti degli elementi primordiali del mondo: l’acqua del mare, la durezza della terra, la solitudine dell’aria, la potenza del fuoco. Quest’ultimo vince sempre nelle colate di lava che di tanto in tanto ricordano agli etnei la fragilità del loro stare: «Dal cortiletto davanti al palmento si vedeva la montagna nera che si accatastava intorno alla vigna, fumando, franando qua e là. Con un acciottolio come se si fracassasse un monte di stoviglie, spaccandosi per lasciar vedere il fuoco rosso che bolliva dentro» (I galantuomini: 308-309; anche Un’altra inondazione: 758).

A questi elementi ancestrali, mediterranei, arcaici appunto, si aggiungono le sciagure storiche che Verga descrive in modi che spesso ricordano Manzoni: il colera – il cui racconto è presente anche ne I Malavoglia –, la peste, l’andare dei soldati e il loro saccheggio delle terre. Con Manzoni lo scrittore condivide un altro elemento: Milano. Città da lui evidentemente amata, nella quale l’esistere e il destino della gente è doloroso e miserabile come quello dei contadini siciliani ma che è tuttavia uno spazio aperto al divenire rispetto all’immobilità dell’Isola: «Tutto ciò infine prova che Milano è la città più città d’Italia. […] Il più bel fiore di quella campagna ricca ma monotona è Milano; un prodotto in cui l’uomo ha fatto più della natura» (I dintorni di Milano: 765).

Ma sono di ambiente siciliano i romanzi e le novelle più grandi di Verga, quelli nei quali un asciutto e oggettivo dolore intride la parola, plasma l’immaginazione, condivide il pianto. Sentimenti intimi, personali, emotivi, la cui forza è singolare proprio perché scaturisce invece dall’intenzione di un’«opera d’arte [che] sembrerà essersi fatta da sé, aver maturato ed esser sorta spontanea come un fatto naturale, senza serbare alcun punto di contatto col suo autore» (L’amante di Gramigna: 187). Capolavori della parola, del dolore e della storia sono Nedda, Rosso Malpelo, Il Reverendo, Libertà, L’ultima giornata, Un processo, Quelli del colera; novelle dalle quali non cito nulla perché soltanto una lettura integrale del tessuto narrativo unito al disincanto antropologico può restituirne il significato, l’emblema, la luce. Sì luce, perché nella parola raccontata, nella parola che racconta, nel racconto che il mondo diventa dentro la parola emerge il grande amore, l’esclusivo amore che coloro che scrivono nutrono verso la scrittura, simile a «quella donna che gli aveva irradiato di luce la vita in un attimo, e che amava più della vita» (Le storie del castello di Trezza: 84).

Una novella merita più di ogni altra lo stupore che ogni capolavoro desta in chi vi s’accosti. Un racconto nel quale la dimensione epica che intesse tutta la narrativa di Giovanni Verga – i romanzi come le novelle – sembra raggrumarsi in poche e totali pagine. Racconto che inizia nello spazio sconfinato della terra: «Il viandante che andava lungo il Biviere di Lentini, steso là come un pezzo di mare morto, e le stoppie riarse della Piana di Catania, e gli aranci sempre verdi di Francofonte, e i sugheri grigi di Resecone, e i pascoli deserti di Passaneto e di Passanitello, se domandava, per ingannare la noia della lunga strada polverosa, sotto il cielo fosco dal caldo, nell’ora in cui i campanelli della lettiga suonano tristemente nell’immensa campagna…». Racconto che diventa cosmico, come in Alighieri, come in Leopardi, come in ogni altro narratore che attinga la profondità degli enti e degli eventi: «Pareva che fosse di Mazzarò perfino il sole che tramontava, e le cicale che ronzavano, e gli uccelli che andavano a rannicchiarsi col volo breve dietro le zolle, e il sibilo dell’assiolo nel bosco. Pareva che Mazzarò fosse disteso tutto grande per quanto era grande la terra» (256-257). Si intitola, naturalmente, La roba questo racconto. La roba è parola tra i siciliani sacra tanto più quanto il rapporto con gli averi, con la fatica necessaria a ottenere roba e averi, descrive ne I Malavoglia la malasorte di un uomo – padron ‘Ntoni –, di una famiglia – i Toscano/Malavoglia –, di un paese – Acitrezza –, di un popolo – i meridionali –, dell’umanità – i vinti e i deboli di ogni tempo e luogo, i quali «levano le braccia disperate»[12].

Il romanzo nel quale l’epica fa tutt’uno con lo stile, la tenacia con la sconfitta, il progetto con il nulla è Mastro-don Gesualdo, capolavoro dell’antropologia letteraria. Un’umanità famelica, miserabile, buia viene scandita da un narrare limpido, lancinante, ironico e oggettivo. La vita di Gesualdo Motta si fa metafora del mondo, della vita, dell’essere tutti contro tutti dentro una società rurale, rassegnata e colma di rancore; scossa di tanto in tanto dall’illusione di un’impossibile giustizia. Si squaderna davanti a noi l’Isola di tripudi e di sfacelo, intrisa di segreta magia e di quotidiana fatica. Mastro-don Gesualdo è un romanzo ancestrale, una sintesi della Sicilia, delle sue maledizioni, della grandezza. «Sempre in moto, sempre affaticato, sempre in piedi, di qua e di là. Al vento, al sole, alla pioggia; colla testa grave di pensieri, il cuore grosso d’inquietudini, le ossa rotte di stanchezza»[13], Gesualdo è la solitudine stessa. Dei siciliani, certo, ma anche di ogni umano che non si voglia ingannare sulla propria condizione. «Col cuore grosso dell’ingratitudine che raccoglieva sempre», dinanzi alla morte che un tumore allo stomaco gli prepara – tumore naturalmente psicosomatico, come lui stesso intuisce – «avrebbe voluto distruggere d’un colpo tutto quel ben di Dio che aveva accumulato a poco a poco. Voleva che la sua roba se ne andasse con lui, disperata come lui»[14]. Nell’implacabile epica del mondo, della sua fatica, della morte, Mazzarò e Gesualdo sono la persona umana, fatta di gaudio inquieto, di prestazione, di possesso, di ferocia: «Roba mia, vientene con me!» (La roba: 262). 

verga_mastro_don_gesualdoLa Sicilia, il sacro 

Savoca non nega affatto la presenza di questi elementi ancestrali, ctoni, disperati, nel mondo di Verga. L’elemento cristiano che pur tuttavia vi ravvisa sembra in realtà affondare in un più ampio sentimento del sacro, delle potenze infere del mondo, del male e di un riscatto che è naturale sperare ma che è saggio non pretendere. Si tratta di un elemento sul quale Verga «è stato sempre riservatissimo»[15], un elemento anche sociologico, proprio perché un narratore è sempre anche un sismografo antropologico. Verga infatti «rappresenta un mondo cristiano qual è quello della Sicilia ottocentesca. Ovviamente, la religione non è oggetto primario della sua narrazione, ma è tuttavia un elemento costitutivo, ineliminabile, del mondo rappresentato. Verso questa componente egli non esprime giudizi e non si pone in attitudine di distacco, come non si astiene dal rappresentare le deformazioni di quelle che sono le manifestazioni popolari, intrise di superstizione, o i tradimenti della vera fede cristiana anche se perpetrati dai ministri del culto»[16]. Ma si tratta soprattutto di un elemento ontologico, radicato in ciò che Heidegger chiama esistenza, Dasein.

Il riferimento a Heidegger non è casuale o arbitrario. Pur non facendone il nome, Savoca insiste sull’essere alla morte, Sein-zum-Tode, che intride i personaggi di Verga. Personaggi e storie per i quali e dentro i quali la morte è onnipresente e dominante, «e spesso tutto si svolge in relazione a questo evento, che costituisce l’unica verità assoluta dell’esistenza, e insieme la verità indicibile»[17]. La morte in mare di Bastianazzo Malavoglia. La morte solitaria ed epica di Mastro-Don Gesualdo. La morte disperata di Mazzarò. La morte arcaica, struggente, favolosa e crudele di Rosso Malpelo.

Nel tentativo di mostrare e argomentare la fede cristiana di Giovanni Verga, Giuseppe Savoca tocca dunque qualcosa di più ampio e più profondo: un sentimento sacro del mondo e dell’esserci umano in esso, la sacralità della vita come esperienza del morire, il sentimento di Verga «del lutto permanente dell’esistenza»[18]. Un lutto che percorre e pervade la vita e il sentimento del tempo siciliani e quindi la nostra letteratura. Questa terra davvero «impareggiabile», questa luce calda e lontana, quest’Isola della distanza e della gloria è un emblema della potenza suprema che tutti ci sovrasta: umani, altri animali, piante, rocce, stelle, galassie. Dentro le galassie, le stelle, le rocce, le piante, gli animali abita «il genere umano perduto»[19].

Il Ritratto d’uomo del più grande dei pittori siciliani, Antonello, parla con lo sguardo e sembra dire: «Lo so, la vita senso alcuno non ha, ma io la godo come la più sensuale delle amanti». La Sicilia è davvero «la chiave di tutto», come scrisse Goethe a Palermo il 13 aprile del 1787. L’Isola plurale appare uguale a se stessa nel tempo e nello spazio ma nel tempo e nello spazio sempre diversa. All’immobilità antica, al «silenzio di secoli»[20], all’indifferenza del cielo, all’arsura del latifondo intorno a Caltanissetta ed Enna, si affiancano le montagne innevate dei Nebrodi e delle Madonie; al nero lavico dell’Etna si uniscono i colori smaglianti dei mari che la circondano; ai templi occidentali si coniuga la dolcezza degli Iblei.

Giovanni Verga

Giovanni Verga

Dal culto greco verso gli dèi e Dioniso Pantocratore, i siciliani sono passati a quello verso il Cristo redentore, transitando per la civiltà islamica. Nel silenzio degli spazi e delle persone, nella bellezza sfrontata dei luoghi naturali e storici, sembra davvero che la contraddizione sia il segno della storia e del carattere siciliani. Perché la Sicilia è un enigma magnifico e doloroso, che rimane più forte di ogni bruttura che la deturpa, di ogni volontà malvagia che la uccide. Ne è prova anche lo sguardo stupito e felice di chi la coglie arrivando da altre terre o di chi in essa è nato e nonostante tutto continua ad amarla, a tornarvi se lontano – come fece alla fine anche Verga –, a nutrirla come pensiero profondo della mente.

Da dove questa terra trae tanta forza? Forse dalla luce ambigua della quale parla Bufalino, intessuta dello «splendore folgorante del sole» ma pure della «sua funebre ombra»[21]. Anche con questa sua inquieta luminosità l’Isola rimane fedele alla sua radice greca, fedele al fasto apollineo dei templi, dei teatri, delle πόλεις, fedele al culto dionisiaco della morte trasfigurante e trasfigurata in mito, pianto, odio. Ancora nella processione del Venerdì Santo del 1930 a Caltanissetta, Antonio Baldini ascoltava attonito «un lamento che rompe acuto da un fondo immemoriale di dolore e di spasimo», nel quale percepiva «il mitico compianto per la morte di Adone, l’approssimarsi dei terrori notturni, l’informe sgomento del poi, l’immotivato sconforto degli adolescenti, il sussulto incontenibile delle isteriche, il vuoto dei monti sopraffatto dalla notte, la solitudine dei mari, la tristezza delle campagne, la somma di vita che se ne va senza più ritorno»[22].

Il dolore dei siciliani è per se stessi, per ciascuno di loro sprangato nella propria solitudine, ma è anche sempre «per il dolore del mondo offeso»[23], del quale sembra metafora il paesaggio e gli umani che lo abitano, apparendo in esso – paesaggi e umani – quasi sempre estremi, pericolosi, belli, desolati e soprattutto, come abbiamo visto con Savoca e con Verga, pervasi di solitudine. L’esser soli è la vera natura di questa terra, la sua identità. A un siciliano è perciò facile capire che «ognuno sta solo sul cuor della terra / trafitto da un raggio di sole»[24], poiché un siciliano «è e si fa isola da sé, e da sé si gode – ma, appena, se l’ha – la sua poca gioia; da sé, taciturno, senza cercare conforti, si soffre il suo dolore, spesso disperato»[25].

Se la festa in Sicilia è vissuta con un’intensità totale è anche perché è nella festa che il siciliano sembra uscire dalla «propria naturale e tragica solitudine»[26]. A un siciliano non sarà troppo difficile trasformare in festa l’intera esistenza, sia che la trascorra in «questa terra grande e infelice»[27] sia che porti altrove il proprio disincanto e la saggezza.

Per un siciliano questo è «il terribile: la quiete della non speranza. Credere il genere umano perduto e non aver febbre di fare qualcosa in contrario, voglia di perdermi, ad esempio, con lui»[28]. Perdersi nella storia, nel paesaggio, e quindi nello spazio e nel tempo. Ma dentro questo mondo perduto, dentro la perdita che è il mondo, riuscire anche a fare della vita un tripudio di colori, di suoni, di gaiezza e di forza. Questo è il sacro, questo è la condizione per sopportare l’esistenza, per farsene carico e vincerla. La morte arriverà come un sorriso solo un poco amaro. 

Dialoghi Mediterranei, n. 54, marzo 2022
Note
[1] G. Savoca, Verga cristiano dal privato al vero, Olschki Editore, Firenze 2021.
[2] Ivi: 122.
[3] G. Verga, Tutte le novelle, a cura di G. Zaccaria, Einaudi, Torino 2015. Le citazioni da questo volume saranno indicate nel testo con il titolo della novella e il numero di pagina.
[4] G. Savoca, Verga cristiano dal privato al vero, cit.: 172.
[5] Sugli gnostici si veda L. Fava, Un itinerario nel mito gnostico, in «Vita pensata», n. 18, febbraio 2019: 26-37; su Benatar si veda S. Dierna, «È il nascere che non ci voleva». Introduzione a David Benatar, in «Vita pensata», n. 26, gennaio 2022: 32-38. Entrambi i testi si possono leggere sul sito della rivista: https://www.vitapensata.eu.
[6] G. Savoca, Verga cristiano dal privato al vero, cit.: 133, 167 e 173.
[7] Ivi: 175 e 179.
[8] Ivi: 118.
[9] Ivi: 91
[10] Ivi: 149.
[11] Ivi: 183.
[12] G. Verga, I Malavoglia, Mondadori, Milano 1976: 52.
[13] Id., Mastro-don Gesualdo, Mondadori, Milano 1963: 78.
[14] Ivi: 260 e 347.
[15] G. Savoca, Verga cristiano dal privato al vero, cit.: 161.
[16] Ivi: 42.
[17] Ivi: 164.
[18] Ivi: 165.
[19] E. Vittorini, Conversazione in Sicilia, Einaudi, Torino 1979: 5.
[20] L. Sciascia, Il giorno della civetta, Einaudi, Torino 1972: 10.
[21] G. Bufalino, in Le vie del mondo. Viaggi d’autore, a. IV, n. 22, «Sicilia», Touring Club Editore, Milano 1999: 12.
[22] A. Baldini, in Le vie del mondo. Viaggi d’autore, cit.: 98.
[23] E. Vittorini, Conversazione in Sicilia, cit.: 134.
[24] S. Quasimodo, «Ed è subito sera», in «Acque e terre», in Poesie e discorsi sulla poesia, a cura di G. Finzi, Meridiani Mondadori, Milano 1983: 9.
[25] L. Pirandello, in Le vie del mondo. Viaggi d’autore, cit.: 13.
[26] L. Sciascia, Il giorno della civetta, cit.: 93.
[27] G. Bufalino, in Le vie del mondo, cit.: 14.
[28] E. Vittorini, Conversazione in Sicilia, cit.: 5.

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Alberto Giovanni Biuso, professore ordinario di Filosofia teoretica nel Dipartimento di Scienze Umanistiche dell’Università di Catania, dove insegna Filosofia teoretica, Filosofia delle menti artificiali e Epistemologia. È collaboratore, redattore e membro del Comitato scientifico di numerose riviste italiane ed europee. È direttore scientifico della rivista Vita pensata. Tema privilegiato della sua ricerca è il tempo, in particolare la relazione tra temporalità e metafisica. Si occupa inoltre della mente come dispositivo semantico; della vitalità delle filosofie e delle religioni pagane; delle strutture ontologiche e dei fondamenti politici di Internet; della questione animale come luogo di superamento del paradigma umanistico. I suoi due libri più recenti sono: Tempo e materia. Una metafisica (Olschki Editore), Animalia (Villaggio Maori Edizioni).

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