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Venti baltici. Uno sguardo nell’Europa deportata

copertinadi Laura D’Alessandro

Il 23 agosto 1989 due milioni di persone in Estonia, Lettonia e Lituania si presero per mano formando una catena umana di seicento chilometri, da Tallin a Vilnius, lungo tutta la Via Baltica. Celebravano il cinquantenario del Patto di Stalin e Hitler che aveva posto fine all’autonomia degli Stati Baltici. Con quella pacifica manifestazione di massa costrinsero il Cremlino a concedere l’indipendenza. La domanda da rivolgere a qualsiasi estone, lettone e lituano è: dov’era il 23 agosto del 1989, perché per tutti loro quella data segna un passaggio importante. La portata di quella data e di ciò che ne seguì è scritto nella storia, una storia non così lontana.

Paesi per lungo tempo oscurati da vicissitudine storiche tragiche e violente di cui difficilmente si è sentito raccontare. Paesi che, nell’arco della loro esistenza, sono stati continuamente e drammaticamente conquistati, devastati, usurpati, occupati e contesi. Terre dominate in cui gli autentici abitanti, estoni, lettoni e lituani, si sono visti disgregare, deportare, uccidere e mettere in fuga da continue invasioni e violenze. Dove eravamo noi tutti quando in questi Paesi scorreva comunque la vita, seppur drammatica e violenta?

Ecco perché riprendere in mano un libro come Anime baltiche, di Jan Brokken (edito nel 2010 da Iperborea), può aiutarci ad avvicinarci a realtà geograficamente e culturalmente poco conosciute. «Estonia. Conoscevo il paese solo di nome, per via di quell’elenco imparato a scuola: Estonia, Lettonia e Lituania. Una filastrocca impossibile da dimenticare». È lo stesso autore a sottolineare questa distanza. Eppure Jan Brokken è un olandese, dunque un uomo del nord. Ma è soprattutto un attento e sensibile viaggiatore che si è dedicato, nell’arco di diversi anni, a conoscere e scoprire i tre Paesi Baltici, offrendoci racconti coinvolgenti, toccanti e sorprendenti. E lo fa ricostruendo la vita straordinaria di personaggi celebri, ma anche persone comuni, da cui emerge la vitalità di una terra da sempre invasa e contesa, dove la violenza della Storia è stata combattuta con l’arte, la poesia e la musica.

E scopriamo che c’è un legame sotterraneo tra alcuni grandi nomi della cultura mondiale, il legame dei Paesi Baltici dove sono nati e la cui anima li ha accompagnati nella fuga oltre confine. E sempre attraverso questi personaggi e il sapiente racconto di Brokken, scopriamo luoghi, città e curiosi particolari. Protagonisti, oltre ai personaggi raccontati, sono sicuramente anche le popolazioni e dalla lettura dei racconti delle “anime baltiche” emerge con forza, sia il fervore culturale e umano, sia l’incanto e la magia della natura baltica: «Sotto la neve appena caduta, betulle, pini e querce emanano la calma maestosa delle statue (…)  è un paesaggio che impone la contemplazione».

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Libreria Janis Roze

Uno dei primi racconti, dal titolo quasi fiabesco Il libraio di Riga, è sicuramente fra i più toccanti. Si parte dalla Lettonia, nel gennaio del 2007 quando Brokken si imbatte nella storia di Janis Roze, del suo lavoro di libraio ed editore a Riga, bruscamente e brutalmente interrotto dall’invasione russa del 14 giugno 1941 quando i Roze vengono deportati in Siberia insieme a migliaia di lettoni. Dall’incontro del giornalista con Ainars Roze, il nipote di Jane Roze, fluisce un racconto pieno di coraggio, di amore e di resistenza, di passione per i libri e per la cultura. E di dolore e sofferenza per gli eventi storici che si abbatterono sul Paese. Faceva un caldo torrido quel giorno, quando i treni partirono per la Siberia.

«Janis fu arrestato perché considerato un nemico di classe: era a capo di un’impresa capitalista con sessanta dipendenti. Ogni lettone che possedeva un pezzo di terra, una casa, un negozio o un’azienda venne deportato con tutta la famiglia. Fu un’epurazione etnica e sociale: chi era privilegiato doveva pagare. Ecco perché il 1° luglio del 1941 quando entrarono a Riga a passo di marcia, i nazisti furono accolti come salvatori e coperti di fiori. Ancora una volta, tuttavia, i lettoni vennero imbrogliati: approfittando abilmente di quella momentanea ondata di simpatia, Hitler costituì una Legione Volontaria locale agli ordini della Waffen-SS. Volontaria per modo di dire: i ragazzi e gli uomini arrestati durante i rastrellamenti venivano costretti a firmare. Circa centomila lettoni servirono da carne da macello nella lotta contro l’Armata Rossa – tra loro anche parecchi dipendenti della Janis Roze».

Gli ottantamila ebrei di Riga – e tra questi anche alcuni dipendenti della libreria di Via Barona – morirono quasi tutti nei campi di concentramento di Rumbula e Salaspis. Un terzo della popolazione lettone, circa mezzo milione di persone, persero la vita durante la Seconda guerra mondiale. Nel 1997 Ainars, ricevette da Mosca, e precisamente dagli archivi sovietici, una copia della sentenza pronunciata nei confronti di suo nonno Janis, da cui emerge che il 13 febbraio del 1943 un tribunale russo lo aveva condannato a cinque anni di lavori forzati. Janis però era già morto nel maggio del 1942, ucciso dalla fame e dallo sfinimento, ben nove mesi prima della sentenza.

Janis Roze aveva pubblicato ottocento titoli in vent’anni e venduto due milioni di copie. Inoltre, nel negozio aveva quaderni, timbri in ottone, blocchi, raccoglitori, penne e articoli vari per ufficio.

«La Janis Roze situata nel centro storico dietro l’università, vendeva sia testi letterari che accademici. Era una libreria raffinata, dove si potevano comprare anche calendari e almanacchi e quelli di Roze riportavano le date e i nomi dei villaggi dove si svolgevano le varie fiere, annoverando così tra i propri clienti anche contadini e paesani».

Ancora oggi la Libreria Roze è un simbolo di Riga e della sua storia e quindi una tappa fondamentale dove fermarsi per conoscere la città. E questa è la grande eredità che ci ha lasciato Janis Roze.

educazione-europeaLituania, marzo 2009. Come fu che un camaleonte scoppiò. Roman Kacev di Vilnè. È il professore Dovid Katz ad accompagnare Brokken per le strade di Vilnius per mostrargli la città, le sue curiosità, e soprattutto per mostrargli i luoghi dove trascorse l’infanzia lo scrittore ebreo Romain Gary (il cui vero nome era Roman Kacev), che nella letteratura trovò rifugio dai campi nazisti senza mai riuscire a perdonarsi di essere un sopravvissuto. A dodici anni si trasferì in Polonia e a quattordici in Francia. Fu un eroe di guerra e un famoso scrittore francese. Abbandonato dal padre, porterà sempre con sé il dolore dell’abbandono e del rifiuto al punto da vendicarsi nelle interviste e nelle conversazioni private sostenendo che suo padre aveva una nazionalità diversa dalla sua, a volte polacca, a volte russa o tartara. Desiderava liberarsi della figura del suo vero padre.

Scrisse un libro ambientato in Polonia dal titolo cinico Educazione europea, che uscì prima in Inghilterra e poi nel 1945 in Francia. Dal quel momento ebbe inizio una brillante carriera letteraria che gli valse anche il Premio Goncourt. Una vita finita tragicamente con il suicidio nel dicembre del 1980, quindici mesi dopo il suicidio di sua moglie, la stella del cinema Jean Seberg. Matrimonio che lo rese famoso in tutto il mondo. Dopo la sua morte alcuni giornalisti indagarono sulla sua vita e sugli ultimi suoi misteriosi e rocamboleschi anni, senza mai citare la sua reale provenienza o il suo luogo di nascita. Ben ventisette anni dopo la sua morte si lesse su un locale quotidiano francese, in un trafiletto di poche righe, che a Vilnius capitale della Lituania, era stata posata una lapide commemorativa sulla facciata della casa di Romain Gary. Una casa borghese di fine Ottocento in pietra rosso ocra, con tocchi Jugendstil alle finestre ogiva e nella cancellata di ferro battuto, incredibilmente rimasta in piedi sfidando due guerre mondiali. Con una vista stupenda sulla cupola della chiesa ortodossa dello Spirito Santo e le torri della chiesa cattolica di Santa Teresa e del convento dei Carmelitani.

Come in tutti i racconti del libro, ciò che colpisce, oltre alle vicissitudini dei protagonisti, è la descrizione e la storia dei luoghi dove sono vissuti. E con questo racconto scopriamo Vilnius. Una bella città, molto diversa dal passato, un passato non troppo lontano. La capitale di quello che un tempo fu un grande Paese, un Granducato che nei secoli XIV e XX si estendeva dal Mar Baltico al Mar Nero.  Una città fondata lungo un fiume, il Neris, in cui sfocia un altro fiume molto più piccolo il Vilnia. È una città costruita su colli e da ogni colle si scorgono delle torri.

Brokken ne è affascinato: «Il quarto giorno della mia permanenza, i quartieri più bassi vennero sommersi dalla nebbia e dal colle più alto potevo vedere solo le torri che spuntavano sopra quel mare bianco: uno spettacolo di una bellezza mozzafiato». E ci sono molte chiese. Torri di chiese e conventi che giocano al rilancio una con l’altra, «rivaleggiano una contro l’altra», come scrive Karl Schlögel in Arcipelago Europa. Viaggio nello spirito delle città (Mondadori, 2011). Le tante chiese della città un tempo gareggiano in importanza con le tante sinagoghe e case di preghiera ebraiche. Un tempo a Vilnius c’erano molte Sinagoghe o “scole”, una in ogni strada. La più grande era la più grande del mondo, talmente estesa da accogliere ben tremila fedeli. Oggi ne è rimasta una sola delle cento presenti nella città. Le altre sono state incendiate, bombardate, rase al suolo, fatte a pezzi o, nel migliore dei casi, demolite.

Oggi la città è chiamata Vilnius ma in passato ha avuto tanti nomi quanti sonno stati i padroni che si sono avvicendati nella sua tragica storia: Wilno in polacco, Wilna in tedesco, Vilnius in russo, Vilnè o Wilne in yiddish, Vilnius in lituano. Tra il 1914 e il 1921, la città è passata da una potenza all’altra, cambiando sovranità otto volte. Vilnius oggi è una città completamente lituana, ricostruita in modo esemplare, ordinata, pulita ed elegante, proiettata verso il futuro e con un passato doloroso. Brokken sottolinea che ad ogni passo si avverte una sensazione di vuoto. Per capire da dove provenga questa sensazione, occorre leggere gli atti del processo di Norimberga contro i principali criminali di guerra, responsabili della distruzione di un intero quartiere, quello ebraico, il vero cuore pulsante della città di un tempo. Ciò che resta di quel quartiere ha le sembianze di «una mummia risistemata ad arte». Con la comunità ebraica è sparita per sempre una cultura, una lingua, un modo di vivere. La città somiglia molto a come appare nell’epoca letteraria di Romain Gary: «non più che un’ombra, un posto dove lui e la sua famiglia erano solo di passaggio». Il professor Dovid Katz, rivolgendosi a Brokken, ricorda che un tempo la città veniva chiamata Vilnè dalla comunità ebraica, mentre «Oggi dicono tutti Vinius, Vilnè non esiste più. Io vorrei chiederle di intitolare la sua storia “Roman Kacev di Vilnè”. Così il nome di Vilnè continuerà a esistere ancora per un po’».

Lettonia, febbraio 2007. Le scarpe dell’architetto. Ejzenštejn contro Ejzenštejn, è il titolo di un altro dei racconti, introdotto proprio dallo stesso Brokken:

«Ogni mattina cammino per le strade di Riga e ogni mattina guardo con occhi diversi le case della Strēlnieku Iela, Alberta Iela e Elizabetes Iela. Tutte le sere, in effetti, nelle mie letture, vengo a sapere sempre di più sull’architetto che ha progettato la maggior parte di questi edifici, Michail Ėjzenštejn, padre del leggendario cineasta Sergej Ėjzenštejn. Prima del mio soggiorno a Riga ignoravo che gli Ėjzenštejn illustri fossero due».

Il capitolo è dedicato agli Ejzenštejn, il padre Michail e il suo celebre figliolo Sergej. Una disputa tra generazioni e personalità, un padre e un figlio entrambi celebri in patria in ambiti diversi. 

«Michail Ejzenštejn era l’Otto Wagner di Riga, l’architetto che fece della città sulla Daugava la rivale di Vienna, l’ideatore di diciannove progetti architettonici, di cui sedici in Jugendstil, tutti nello stesso quartiere, alcuni attigui tra loro. Edifici dalle facciate azzurro cielo, verdi, giallo ambra, rosso granata o bianche, con colonne e pilastri, ornati di dee, sirene, sfingi e draghi, con balconi dalle ringhiere in ferro battuto e fiori sui vetri colorati delle finestre. La prima impressione può essere sconcertante per l’eccesso di dettagli. Tutti gli appartamenti hanno la stessa struttura: le cucine e le scale per il personale di servizio sul retro, le sale di rappresentanza e i salotti, destinati a impressionare i visitatori sul lato della strada. Per Ejzenštejn figlio già questa ripartizione era motivo sufficiente per disprezzare il padre».
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Sergej Ejzenštejn

Eppure, nonostante il cineasta abbia sempre cercato nel corso della sua vita di tenersi alla larga dal famoso padre, per aspetti diversi lo ha, inconsapevolmente, celebrato attraverso lo sguardo cinematografico della sua arte.

La cultura fa da sfondo a molti altri racconti, come quella dello scultore Jacques Lipchitz lituano con un nome ben diverso, Chaim Jacob, o del pittore Mark Rothko che in realtà si chiamava Marcus Rotkowics, vissuto a Dvinsk in Lettonia, fino ai dieci anni. Le sue tele, simili a un soffio di pittura, sono attraversate dal mistero di quello che è lontano, remoto, perso nella dimensione di ciò che non si può comprendere. E ancora, il racconto del musicista estone Arvo Pärt: «attraversando il nordest dell’Estonia non si può fare a meno di avvertire un legame tra la musica cupa e malinconica di Pärt e questo paesaggio desolato».

Altra tormentata anima baltica è quella di Gidon Kremer, obbligato dal padre, Markus Kremer, uno scampato alla Shoah, a essere orgogliosamente ebreo e, soprattutto, a divenire uno dei violinisti più talentuosi del mondo. E ancora, la nota intellettuale Hannah Arendt, originaria della città di Kant, la prussiana Konigsberg, diventata la Kalingrad russa, «per diventare a fine secolo una città di banditi»; lo scrittore von Keyserling e la baronessa Alexandra che diventò la moglie di Tomasi di Lampedusa, si rifugiò a Roma dove fu la prima psicoanalista italiana.

Anime Baltiche è un libro del 2010 ma è ancora oggi una lettura estremamente interessante e di grande attualità perché la memoria sbiadita degli uomini tende a replicare tristemente gli eventi. E ancora una volta il coraggio e la forza delle “anime” ci ricorda che bisogna lottare sempre contro i soprusi e le dittature. Se, infatti, come abbiamo ricordato, il 23 agosto del 1989 due milioni di persone in Estonia, Lettonia e Lituania si presero per mano formando una catena umana di seicento chilometri, da Tallin a Vilnius, pochi giorni fa, il 21 agosto, in Bielorussia a Kurapaty, in un’area boschiva alla periferia di Minsk, si formava un’altra catena umana contro il regime di Lukashenko. E solo pochi giorni prima, il 13 agosto sempre a Minsk, molte donne di ogni età si sono prese per mano indossando abiti bianchi dando vita ad una catena umana per invocare la fine della repressione da parte delle autorità Bielorusse in seguito all’esito del voto presidenziale.

È una lettura che lascia sicuramente il segno, che ci fa capire meglio la storia e le vicissitudini del XX secolo perché, come sostiene lo stesso Brokken, «viaggiare, insieme a leggere e ascoltare, è la via più breve per arrivare a sé stessi».

Dialoghi Mediterranei, n. 45, settembre 2020

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Laura D’Alessandro, ricercatrice, è laureata in Sociologia, presso Università La Sapienza di Roma e ha conseguito un Master in Cittadinanza europea e integrazione euromediterranea: i beni e le attività culturali come fattore di coesione e sviluppo (Università Roma Tre). Ha pubblicato il saggio Mediterraneo crocevia di storia e culture. Un caleidoscopio di immagini, 2011 (ristampa 2016), sui tipi di L’Harmattan. Ha collaborato con riviste e periodici.

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