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Una laurea lunga una vita (e qualcosa in più)

Palermo, conferimento della laurea a Mimmo Cuticchio

Palermo, conferimento della laurea honoris causa a Mimmo Cuticchio

di Marina Castiglione 

Il 10 luglio 2019 il Consiglio del Corso di Studi in Italianistica dell’Università degli Studi di Palermo votò all’unanimità la proposta di conferimento della Laurea honoris causa a Mimmo Cuticchio. Proponente ne fui io, dopo averne già discusso in precedenti sedute a partire dal 2018. Le motivazioni allegate alla delibera di quel Consiglio sono state lette dalla Coordinatrice del corso di Studi e Prorettrice alla Didattica dell’Ateneo, prof.ssa Luisa Amenta, in data 13 marzo 2024, giorno in cui, finalmente, Mimmo Cuticchio è stato insignito del titolo, nell’Aula Magna di Palazzo Steri, sede del Rettorato. Di seguito riporto la laudatio che ho pronunciato nell’occasione. 

Quando nel dicembre del 2018 proposi al Consiglio di Corso di Studi di assegnare la Laurea honoris causa ad una figura ampiamente rappresentativa della cultura e dell’arte in tutte le sue sfaccettature, pensai che sarebbe sorta una domanda legittima sulla congruità dell’indirizzo e degli obiettivi del Corso e la personalità a cui stiamo oggi conferendo il titolo di Dottore che, come è noto, opera nel recupero e nella rielaborazione del teatro delle marionette e della tradizione del cunto siciliano. Andando a ritroso, però, non trovo alcun dubbio, alcuna perplessità, alcun distinguo mossi dai colleghi e dalle colleghe. Segno che l’ovvio non si spiega.

D’altra parte non c’era e non c’è bisogno di illustrare la biografia di Mimmo Cuticchio o di esporre cosa rappresenti per Palermo, per la Sicilia, per la cultura teatrale italiana e internazionale; le motivazioni testé lette garantiscono la necessità e l’orgoglio di trovarci qui oggi. 

Una laurea in Italianistica, però, bisogna meritarsela; oggi siamo qui anche per verificare che ci siano i presupposti perché il titolo possa essere attribuito con pieno fondamento. Proverò, dunque, a percorrere le discipline del corso e a individuare, nella carriera del nostro laureando, i passaggi che ce ne consegnano manifesta prova di superamento.

Nella formazione di Mimmo Cuticchio trovano spazio, innanzitutto, la conoscenza della ‘Letteratura italiana d’età medievale e di età rinascimentale’. Essa è stata verificata da questa Commissione a partire dai riferimenti che costituiscono il fondamento del repertorio dell’Opra dei pupi: alle Chansons de geste, alla Chanson de Roland, La storia dei Reali di Francia di Andrea da Barberino, sino ai poemi rinascimentali: del Boiardo (cioè l’Orlando innamorato), dell’Ariosto (Orlando furioso, in particolare gli episodi della Pazzia di Orlando e Astolfo nell’isola di Alcina) e del Tasso (Gerusalemme liberata, in particolare, l’episodio di Tancredi e Clorinda tratto dal Consiglio di Goffredo di Buglione). Di recente è stato portato in scena un prezioso ed eclettico percorso dantesco, corredato da mostre, laboratori e spettacoli, con il titolo Sulle vie dell’Inferno (2021). Siamo certi, quindi, che i primi crediti si possano dichiarare meritatamente conseguiti.

9788868436742_0_536_0_75Il docente di ‘Filologia romanza’ potrebbe valutare positivamente la solerte applicazione alle trascrizioni dei 371 canovacci storici e alla integrazione di glosse e rimaneggiamenti – testimoni dell’adeguamento alla ricezione del pubblico nel trascorrere del tempo – oggi editi nel volume Alle armi, cavalieri! (Donzelli, 2017). La lunga esperienza in questa pratica è comprovata dal fatto che oltre al ciclo carolingio, Mimmo Cuticchio ha trascritto i copioni dell’ultimo dei cuntisti della tradizione ottocentesca, don Peppino Celano (1903-1973), copiati a loro volta da quelli di don Cecè Argento suo maestro (1873-1948). Tali materiali preziosi e unici avrebbero interessato anche il prof. Ettore Li Gotti, acuto filologo, tra i fondatori del Centro di studi filologici e linguistici siciliani, che nel 1956 se ne occupò nello studio dedicato a Sopravvivenza delle leggende carolingie in Sicilia [1].  

Caligula

Caligula

Anche ‘Lingua e letteratura latina’ si può ritenere superata grazie alla rappresentazione di un melodramma seicentesco di Giovanni Maria Pagliardi, Caligula delirante (2011), in cui, all’ombra delle candele e al suono di violini barocchi, le marionette di legno incarnano una variegata gamma di sentimenti, tra cui la follia del potere del tiranno.

Una disciplina come ‘Forme e gerarchie sociali XIII-XVII secolo’ si può dichiarare sostenuta grazie alla scrittura di Francesco e il Sultano (con Salvo Licata, 1992): un’altra scelta non scontata e inedita per il teatro dei pupi, ma rivisitata alla luce di un continuo trasferimento tra cultura alta e bassa, colta e popolare, in cui Francesco si fa paladino di una cristianità alternativa e di una convivenza universale pacifica, sebbene raccontata in una Palermo della prima metà del XIII secolo, funestata da conflitti sociali e repressa dall’autoritarismo di Federico II.

Potremmo valutare che nel programma di ‘Politiche e conflitti XVIII-XX secolo’ rientrino numerosi testi inediti “presentati” dal candidato, che trasformano un processo di comunicazione artistica in una pratica di impegno civile: tra cui Vita e morte del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa (1983), L’infanzia di Emanuele Paolo Borsellino (1994), O a Palermo o all’inferno. Ovvero lo sbarco di Garibaldi in Sicilia (2011). Persino le farse, che si inserivano in coda ad episodi particolarmente drammatici con la funzione di allentare la tensione attraverso il riso, andrebbero considerate come una polemica sociale attualizzata, che sottende il bisogno delle classi popolari di immaginare un diverso ordine della società.

Vita morte e miracoli di Santa Rosalia

Vita morte e miracolo di Santa Rosalia

‘Storia delle Chiese e dei movimenti religiosi’ è una disciplina i cui temi attraversano passaggi cronologicamente cadenzati della carriera di Mimmo Cuticchio: Vita, morte e miracolo di Santa Rosalia (1978), La Passione di Cristo (dai Vangeli e da testi apocrifi, 1980), il Triunfo di Santa Rosalia (1981), Il Natale all’Olivella (1992), sino al più recente Vangelo – parte seconda (2017).

Continuo con ‘Metodi e temi della comparatistica letteraria’: una disciplina che trova ampio riscontro con le rappresentazioni musicate de La rotta di Moby-Dick (2003), El Retablo de Maese Pedro (2004), la trilogia su Don Chisciotte: Il Risveglio di Don Chisciotte – Prime avventure – Duello Finale (2005), nonché con le numerose riduzioni tratte dal teatro di Shakespeare, che appartengono anche ad una porzione della tradizione pupara che recupera la tragicità dell’esistenza alla base dell’opera del Bardo (forse anch’egli di origini siciliane…). 

I docenti di ‘Storia della lingua italiana’, ‘Dialettologia’ e ‘Lingue e società’, impegnati da anni nello studio in diacronia e in sincronia del repertorio linguistico e testuale, in specie siciliano, non possono che trovare significativi riscontri della tradizione che si fa attualità nella lingua, scrittura teatrale e nell’espressione artistica di Mimmo Cuticchio. Dai primi copioni risalenti agli anni ‘70 – innanzitutto il primo testo originale della scrittura di Cuticchio, Giuseppe Balsamo conte di Cagliostro (1973), e di seguito Genoveffa di Brabante, Skanderbeg, l’eroe degli albanesi (1976) – emerge un nuovo modello di linguaggio artistico, che mentre si fa inventa e reinventa se stesso senza perdere la propria artigianalità e la coscienza del suo farsi sociale, mescidando con consapevolezza e magistero formale codici linguistici antichi e moderni e aprendosi ad una fruizione trasversale sia dal punto di vista culturale che generazionale. Sul palcoscenico si intrecciano quindi – in una partitura, a volte sommessa, talaltra marzialmente ritmata dal clangore delle armi e dal battito dei piedi sul palco –registri linguistici che spaziano dall’uso massiccio di un palermitano verace sino a incursioni verso l’aulico e il lirico: manca il registro medio, sostanzialmente impoetico ai fini della rappresentazione. Arricchiscono il repertorio di Mimmo Cuticchio testi tragici e mitologici, cavallereschi ed epici, comici e improvvisati che si estendono dal registro eroico, carico di parole sonanti e arcaiche, a quello ordinario e persino disfemico del dialetto delle farse di Nofriu e Virticchiu, vastasi e popolani un po’ macchiettistici, il cui orizzonte di vita sociale si riassume nella presa in giro dell’altro e nel piccolo espediente.

manifesto-mds-2022Persino le discipline legate alla didattica – novità delle più recenti offerte formative del corso in Italianistica – si possono considerare brillantemente superate, grazie a ‘Tirocini’ – se così possiamo definirli – svolti con e presso numerose scuole, palermitane e non, nonché con le edizioni del Festival “La macchina dei sogni” che quest’anno celebra i quarant’anni. Mimmo Cuticchio ha scelto i suoi maestri ma ha anche realizzato spazi, ossia la “Scuola per pupari e cuntisti”, in cui coltivare la passione fisica e intellettuale, materiale e culturale in cui i giovani possano continuare l’arte dei maestri.

Consideriamo svolti anche quei crediti formativi che riguardano le cosiddette ‘Esperienze extracurriculari’: siamo certi di poter valutare tali, ad esempio, la Visita guidata all’Opera dei pupi (1989, con Salvo Licata), la partecipazione al progetto di valorizzazione dei pupi siciliani del museo etnografico Pitrè (2014), così come la passeggiata tra i vicoli, i personaggi e le storie nascoste di una Palermo postbellica, che non aveva ancora rinunciato alle ville Liberty né ai teatrini dei pupi [2], condotta con Simonetta Agnello Hornby (Siamo Palermo, Mondadori 2019), in una sorta di analisi esperienziale del naufragare di una società che smarrisce la propria identità e i propri valori, persino il proprio rapporto con il mare, a causa dell’accelerazione dovuta al boom economico, al consumismo e alla nascita della televisione.

È senz’altro valutabile come materia opzionale, tra quelle a scelta del curriculum, ‘Antropologia della musica’, con affondi in musiche classiche e/o originali, spesso ad opera del figlio Giacomo: Il combattimento di Tancredi e Clorinda (1990), Tancredi di Rossini per la Staatsoper di Berlino (1994), Tosca (1998), Manon (1999), La terribile e spaventosa storia del Principe di Venosa e della bella Maria (1999, con musiche di Salvatore Sciarrino), Macbeth (2001), Don Giovanni all’Opera dei Pupi (2002, con le musiche di Mozart), Aladino di tutti i colori (2007), La Riscoperta di Troia (2007), Carlo Magno reale e immaginario (2012), Una corona sporca di sangue (2015), ecc. Ma forse un’altra disciplina che potrebbe completare questo già ricco percorso magistrale sarebbe la ‘Storia e critica del cinema’, dal momento che Mimmo Cuticchio non solo ha portato in video il suo teatro, ma ha anche partecipato come attore a molti film (tra tutti, qui si citano Cento giorni a Palermo di Giuseppe Ferrara, Il Padrino – Parte III di Francis Ford Coppola, Baarìa di Giuseppe Tornatore e Terraferma di Emanuele Crialese).

Con questo articolato elenco, gli aspetti accademici più formali si possono dire espletati.

Ma cosa rende questo pomeriggio qualcosa in più rispetto al conferimento di un titolo accademico? Io credo che Mimmo Cuticchio non avesse bisogno del nostro attestato; credo invece il contrario, ossia che, nelle politiche culturali di un Ateneo, il contatto con l’opera vivente e con un ‘Tesoro umano vivente’ (come è stato considerato ufficialmente Mimmo Cuticchio nel R.E.I.S.) coaguli un binomio che dà forza a piani multiprospettici di intervento e riflessione, su categorie come ‘cultura’ e ‘trasmissione’.

Mi concentrerò brevemente su due ambiti di esplorazione e di applicazione del suo talento artistico e della sua maestria artigianale (dove l’uno e l’altra convivono in pari dignità ed equilibrio). Seguirò quindi il filo di due parole chiave: opra e cunto.

2570180127500_0_536_0_75Ètienne Souriau [3] afferma «siamo figli delle nostre opere». Questa prospettiva ribalta il senso del nostro esistere da esseri agenti e cogitanti ad esseri che si impregnano della stessa sostanza delle proprie azioni e delle proprie opere. Mimmo Cuticchio suole spesso ricordare che a casa sua «eravamo figli e pupi tutto insieme: un miscuglio tra la vita di tutti i giorni e quella avventurosa dei cavalieri che viaggiavano e che facevano le loro storie» [4]. La metafora si incarna nella testa del mago Demogene, da lui stesso ideata e costruita, che si moltiplica nei volti dei fratelli e delle sorelle Cuticchio, attorno al sole di cui essi sono una costellazione, ossia il padre Giacomo, e nel “ris-volto” della madre che controlla tutti stando alle spalle. In questo rispecchiamento forse lui stesso si è fatto figlio dei suoi pupi e da questi è pirandellianamente mosso e necessitato.

Se, infatti, all’alba della sua esperienza di figlio di puparo e oprante, per parte di padre, e di pittrice di cartelli e scene, per parte di madre, questi pupi erano attori di un teatro in cui pubblico e opranti costituivano un unicum in quanto ad omogeneità culturale, dopo quello che si può chiamare “lo scisma di Parigi” [5] del 1967, Cuticchio va alla ricerca di un suo pubblico, non quello dei turisti che cercano folklore a buon mercato e fuori contesto, che considerino le marionette un bene effimero di consumo, ma un pubblico nuovo, aperto alle contaminazioni e alla sperimentazione, alla ricerca di investimenti semantici che guardino all’Altro e all’Altrove. In questo nuovo corso non trova come alleato il padre e quindi deve imparare a farsi i pupi da sé, nel senso materiale del termine.

L’opera dei pupi è, infatti, testo che opera attraverso la materia fisica ed estetica del cosiddetto mestiere, ossia l’attrezzatura completa dell’oprante: pupi, armati e no; teste di ricambio; marionette di sirene, draghi, giganti; fondali; sipario, fondino e pannoni; pianino meccanico e altri strumenti sonori. Un teatro, infine. Uno spazio che sia casa per questa nuova famiglia e salotto per questo nuovo pubblico. Via Bara all’Olivella accoglie il nuovo teatro dei Fratelli d’arte Cuticchio [6] e il teatro popolare si fa «zattera che si muove» [7]. In questa traversata, però, Mimmo Cuticchio non vuole essere solo e partecipa alla breve stagione dell’Associazione teatro Stabile delle Marionette Città di Palermo degli anni ’80, con Giuseppe Argento presidente. Una decina di anni dopo fonda – come già accennato – la prima “Scuola per pupari e cuntisti” (1997), creata con l’obiettivo di garantire un futuro al teatro dei pupi e al cunto attraverso la formazione di giovani, e sviluppa due progetti espositivi: “Un museo all’Opra”, mostra permanente (inaugurata nel 2007) allestita nei locali antistanti al teatro di via Bara e dichiarata di interesse storico (decreto regionale n. 211/2013), e l’esposizione permanente della “Collezione di Pupi Siciliani di Giacomo Cuticchio” (inaugurata nel novembre del 2015) ubicata a Palazzo Branciforte (Palermo). 

Pur innovando, Cuticchio mantiene lo stile classico dei temi standard, l’uso degli epiteti e delle formule, la dialettica caratterizzata dal tono agonistico che si sviluppa nella polarità biasimo/lode, la struttura costituita da una serie di unità stereotipe che Antonio Pasqualino divideva in micro e macro unità [8], come ad esempio il Consiglio, che può essere cristiano o pagano, o ancora, pubblico o privato; ma quando lo spettacolo lo richiede, rompe la quarta parete e mostra il “mestiere” e ogni altro armamentario senza la struttura del teatrino, senza le tele, a scena aperta e con la manovra a vista: un pupo tra i pupi  – eroi, santi, sapienti, briganti, assassini – che oltre ad aver dato vita alla materia inerte del legno attraverso i fili e attraverso la voce, mostra nelle sue stesse espressioni mimiche la speranza e la paura, il coraggio e la vendetta, l’emarginazione degli “scalcagnati” e l’orgoglio.

L’opra/opera, dunque, si rinnova e invera il suo stesso etimo, mettendo in moto i sensi ivi riposti ed evidentemente ancora tutti attivi nel teatro di Mimmo Cuticchio: la radice protoindoeuropea OP- accende i significati di ‘lavoro’, ‘ricchezza’, ‘prodotto’, ma anche di ‘dovere’, ‘necessità’ (opus est). Ne derivano il lat. opus ‘lavoro/ ‘azione’/’occupazione’, opulentus ‘ricco’, optimum ‘eccellente’, copia (cum ope) ‘insieme di ricchezze’, cornucopia come segno di fertilità, op(i)ficina da cui ‘officina’, op(i)ficium da cui ‘ufficio’ e ‘uffizio’. Ben strana coincidenza il fatto che nella Sala Magna dello Steri ove siamo riuniti, un tempo sede del Santo Uffizio, i pupari si ispirassero all’enciclopedia visuale delle figure di dame e cavalieri dipinte sul soffitto ligneo, per allestire la propria opra dei pupi…[9]. L’opus, dunque, come gioia e lieta necessità dell’agire, con il suo derivato ‘opera’/opra, si contrappone all’idea del “lavoro-pena”, ben rappresentato dal gallicismo siciliano travagliu (da lat. trepalium, non a caso uno strumento di tortura).

Ma perché l’opera si faccia opra abbisogna da un lato dell’orbita figurativa delle marionette, di quel variegato sferragliare di spade e armature e volteggiare di stoffe, giummi e pizzi, per cui comunque serve «sudare la maglia»[10] e dall’altro della voce e delle voci che, modulandosi tra maschile e femminile, giovane e anziano, evocano passioni e imprimono ritmo alla narrazione. E quanto è maggiore la maestria del puparo nell’incarnare i moti dell’animo che sono i suoi e quelli di tutti, tanto maggiore è la partecipazione attiva del pubblico alle vicende rappresentate, che esplode in momenti metateatrali di confusione tra ciò che accade in scena e in platea. 

«L’opera è tale quando opera, quando è operativa, performativa: non conta per quel che è, ma per quel che fa; […] Il contagio, l’azione per contatto, fra un uomo e l’oggetto che provoca questo stato, fra un uomo e altri che hanno accolto quell’oggetto sono […] il segno sicuro dell’arte» [11]. 
Mimmo Cuticchiu cuntista

Mimmo Cuticchio cuntista

Andiamo al cunto. Forma orale per eccellenza, esso si situa all’interno della stratificazione sociale di società complesse, in ambienti che conoscono la scrittura ma che non vi ricorrono per costruire e determinare la propria identità sociale: nelle narrazioni orali – dagli aedi a Mimmo Cuticchio – si alternano moduli bilanciati, strutturati attraverso l’uso di ripetizioni ed antitesi, allitterazioni e assonanze, cerniere di rime ntruccate. La sintassi del periodo è caratterizzata più dalla paratassi che dall’ipotassi, e a dominare è più l’aspetto che procede per accumulazioni che non per approfondimenti. Questi elementi, ed altri che potremmo con Ong [12] definire “somatici” – come il processo respiratorio, i gesti e la simmetria bilaterale del corpo umano –, costituiscono l’asse attorno a cui ruota il processo mnemonico che è proprio delle narrazioni orali.

Tradizionalmente è il canto a dare forma ad una condizione incantantoria (in-cantum) quasi magico-religiosa, che produce manifestazioni fisiche di imbambolamento, assenza di sé, vaghezza incosciente. Eppure il cuntu tradizionale, orale e prevalentemente dialettale, assorbe una parte di questa affabulazione/affatturazione in virtù di una ritmica che non è melos, ma plastico corpo a corpo con una vicenda drammatica in cui atti locutivi come minacce, sortilegi, prescrizioni, preghiere, formule taumaturgiche, promesse e annunci si fanno sentiero per narrare la grande epopea dell’Uomo. Ad ogni passaggio di scena, la parola insieme all’affondo di un fendente di spada, squarcia una soglia il cui effetto di fascinazione non può che magnetizzare l’attenzione del pubblico: sembra di penetrare, attraverso il gesto e la voce tonante, in una memoria profonda che ratifica la coincidenza tra realtà e finzione, tra fatto etnografico e legame con l’identità stratificata di un popolo. Tutto ciò che nel cunto si fa atto locutorio e performativo non può che essere contemporaneamente atto di fede e di potenza etica, anticorpo di non dimenticanza. Tutt’altro che un universo di pura evasione. Paladini e personaggi leggendari oltrepassano l’orizzonte fantastico e vengono consegnati, in carne e sentimenti, alla storia e alla coscienza collettiva.

Ad ogni sillabazione sulla tonica si scandisce e si sancisce la dinamica dialogica tra il cuntista e la platea, tra il passato e il presente, tra la vita e la letteratura. Al posto dei colori sgargianti degli abiti e del luccichio delle armature, la voce si fa tavolozza di modulazioni espressive: il coinvolgimento avviene nell’irrequietezza del movimento, nella dimensione amplificata del gesto. E come ebbe ad avvertire Paolo Emiliani Giudici nella prima testimonianza scritta di un cunto, recitato a Mussomeli tra il 1822 e il 1833, il cuntista in quel rito sospeso nel tempo si trasforma nel «tiranno dei cuori di tutti» [13].

Però la ricezione ha (o meglio aveva) anche le sue regole. Si trattava di un pubblico molto esigente, che aveva dimestichezza e familiarità con le storie che si narravano. Per questo motivo non si perdona(va) al cuntista una pausa, una nuova digressione, una contorsione inopportuna della voce. Come ebbe a dire Giuseppe Pitrè «Cammini quanto e come vuole il mondo, il racconto di Rinaldo dev’esser recitato sempre a un modo, con le medesime pause, con la medesima cantilena, con una declamazione spesso concitata, più spesso affannosa, intenzionalmente oratoria; talora lenta, alcuna volta mutata d’improvviso in discorso familiare e rapido. Testa, braccia, gambe, tutto deve prender parte al racconto; la mimica essendo parte essenziale del lavoro del narratore» [14].

Oggi, che il mondo ha continuato a camminare, Mimmo Cuticchio ha intrapreso la faticosa strada di ricostruire codici e prassi che un tempo creavano un costume comune. Innanzitutto il cunto ha spesso dovuto trovarsi uno spazio chiuso, e ha trovato il teatro. In alcuni casi, però, l’azione è tornata laddove si svolse storicamente: nel 2018, accompagnato dal violoncello di Giovanni Sollima, Cuticchio ha portato a Roncisvalle il cunto della battaglia e, contemporaneamente, le parole di pace del poverello d’Assisi.

Inoltre, sebbene il pubblico di oggi sia occasionale e sempre diverso, è rimasto immutato l’effetto drammaturgico: nel corpo vibrante del cunto agiscono rallentamenti e precipizi, in un lavoro calibrato di forze opposte che focalizzano l’attenzione su una materia narrativa complessa, a incastro, che crea una nuova intimità e un confine dentro cui ci si sente misteriosamente attirati, come da un canto delle sirene.

Alla fine di questo breve e non esaustivo percorso, sono certa che questa Laurea verrà condivisa –almeno simbolicamente – anche con il padre Giacomo (1917-1985); con la famiglia Greco che, a partire da don Gaetano, ha avuto il merito di aver arricchito e contaminato il teatro dei Pupi studiando modifiche tecniche, strutturali e testuali necessarie a difendere sin da subito la vita di un genere che già a pochi anni dalla nascita rischiava di esser soffocato dalla sua stessa tradizione; ma soprattutto verrà condivisa con Peppino Celano (1903-1973) – maestro anche nell’arte dei pupi e ultimo cuntista “di tradizione” – un secondo padre per il nostro laureando, per il quale nel 1983, a dieci anni dalla morte del maestro, Mimmo Cuticchio realizza in pubblico il suo primo spettacolo sul cunto, La Spada di Celano. E verrà condivisa con la sua famiglia, con la moglie Elisa e i figli, che lo seguono e sostengono da sempre.

Forse Mimmo Cuticchio non è stato un camminante come il padre, però ha consentito alla tradizione dell’opra dei pupi e del cunto di camminare assai di più: li ha traghettati, novello Noè, nel Terzo millennio con volontà e ostinazione, a volte in solitudine e a volte con straordinari compagni di strada, recuperando testi e antiche pratiche, immaginando nuovi spazi e costruendo nuove storie, inseguendo un sogno alimentato dalla certezza profonda che, in fondo, la tradizione sia un’innovazione ben riuscita. 

Chiuderei questa laudatio con il pupo che appare nel tondino, quello vestito in marsina e cappello, detto Perdomàni, che annuncia la fine di uno spettacolo e l’appuntamento al prossimo episodio, sulle note del pianino a cilindro, ma invece – come se apparisse nel fumo di un boccascena – passo la parola e il gesto a chi della parola e del gesto è maestro e focoso generatore. 

Dialoghi Mediterranei, n. 67, maggio 2024
Note
[1] Un’opera postuma uscì ad un anno dalla sua morte, segno dell’interesse del grande filologo, allievo del Cesareo: Il teatro dei pupi, Sansoni editore, Firenze 1957.
[2] «In questo butta-butta hanno buttato tutto l’antico scambiandolo per vecchio, e tra queste cose c’era mio padre con i suoi pupi», afferma Cuticchio in V. Venturini, a cura di, Dal cunto all’Opera dei pupi. Il teatro di Cuticchio, Dino Audino Editore, Roma 2003: 33.
[3] È. Souriau, Les différents modes d’existence. Suivi de l’œuvre à faire, Paris, PUF, 1943 (2ª ed. PUF 2009). Trad. it. a cura di F. Domenicali, Milano, Mimesis 2017: 116.
[4] Venturini cit.: 39.
[5] Sino al 1967 Mimmo Cuticchio lavora con il padre e lo segue nei suoi spettacoli itineranti tra i piccoli centri della Sicilia, dove l’Opera dei pupi interessava un pubblico di pescatori, contadini, artigiani, non ancora completamente avvezzo ai consumi televisivi e cinematografici.
[6] Giuseppe Pitrè contava 25 teatri con un’opra stabile in tutta l’isola (G. Pitrè, Le tradizioni cavalleresche in Sicilia, in Usi e costumi, credenze e pregiudizi del popolo siciliano, vol. I, Palermo, Clausen 1889: 121-336). Già alla fine degli anni ’50 soltanto in quattro restarono attivi (Sclafani, Cuticchio, Mancuso e Argento), mentre gli altri vendettero, o meglio svendettero, il proprio materiale di scena (A. Pasqualino, L’opera dei pupi, in «Nuove Effemeridi», 1996/I: 52-65).
[7] Venturini cit.: 43.
[8] «Le scene-tipo sono un numero limitato di schemi che determinano le musiche, i rumori, l’ingresso, l’uscita, le posizioni, i movimenti e una serie di frasi dei personaggi secondo la loro collocazione in una tipologia generale (amici/nemici; re/cavaliere/soldato/popolano; uomo/donna; vecchio/giovane; ecc.» (A. Pasqualino, L’opera dei pupi, introduzione di A. Buttitta, Sellerio editore, Palermo 1978: 89). 
[9] A. Buttitta, La dimensione antropologica: i “cavallier, l’arme, gli onori”, in A. I. Lima, a cura di, Lo Steri dei Chiaromonte a Palermo, 2 voll., Plumelia edizioni, Palermo 2015: 135-144. 
[10] Venturini cit.: 37.
[11] T. Migliore, I sensi del visibile. Immagine, testo, opera, Mimesis, Fano 2018: 104-105.
[12] W.J. Ong, Oralità e scrittura. Le tecnologie della parola, Introduzione all’edizione italiana di R. Loretelli, il Mulino, Bologna 1986: 100.
[13] P. Emiliani Giudici, Storia della letteratura italiana, Le Monnier, Firenze 1855-1863: 397.
[14] Pitrè cit.: 178.

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Marina Castiglione, professoressa ordinaria di Linguistica italiana e Coordinatrice del Dottorato di ricerca in Studi umanistici presso l’Università degli Studi di Palermo, ha svolto corsi di Filologia della letteratura italiana, Dialettologia, Storia della lingua, Pragmatica e testualità. Fa parte del Comitato scientifico del Bollettino del Centro di Studi Filologici e Siciliani e della Rivista di studi “Il nome nel testo”.  Curatrice della collana editoriale Diàlektos, Piccola Biblioteca per la scuola con Luisa Amenta e Iride Valenti, che si occupa della divulgazione del patrimonio linguistico regionale per la Legge 9/2011. Direttrice del progetto DASES (Dizionario Atlante dei soprannomi etnici in Sicilia) che compone la sezione onomastica dell’Atlante linguistico della Sicilia (ALS), è impegnata nella ricerca sui lessici settoriali, sulla onomastica letteraria, sulla linguistica testuale. Ha al suo attivo numerose pubblicazioni tra cui: L’incesto della parola. Lingua e scrittura in Silvana Grasso (2009); Parole e strumenti dei gessai in Sicilia. Lessico di un mestiere scomparso (2012); L’identità nel nome. Profili antroponimici in Sicilia (2019). Nel 2020 è uscita la curatela, insieme ad Elena Riccio, del volume Leonardo Sciascia (1821-1989). Letteratura, critica, militanza civile, CSFLS e Dipartimento di Scienze umanistiche.

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