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Un prontuario per fare chiarezza in un dibattito confuso e avvelenato

copertinadi Eleonora Bommarito

«Politiche migratorie. Sbarchi. File di profughi alle frontiere. Attentati terroristici. Uomini, donne e bambini morti nel Mediterraneo. Costruzione di centri di accoglienza. Conflitti tra culture a livello locale. Accoglienza di massa. Nuovi muri che si erigono ai confini dell’Europa e dentro di essa. Pattugliamenti, controlli, sicurezza. Elaborazione di politiche migratorie a livello europeo, nazionale, locale. Matrimoni e famiglie miste. Conflitti politici. Seconde generazioni. Politiche scolastiche. Radicalismi emergenti, tra gli immigrati e contro gli immigrati. Guerre». La premessa al libro scritto da Stefano Allievi e Giampiero Dalla Zuanna, Tutto quello che non vi hanno mai detto sull’immigrazione (Laterza 2016), presenta in maniera chiara e puntuale i temi e i problemi connessi alle recenti ondate migratorie in Europa che i due autori affrontano con approccio scientifico, proprio per spiegare e ragionare sulle reali motivazioni e conseguenze dell’arrivo di tantissima gente in fuga da guerre, crisi economiche e condizioni di vita spesso drammatiche.

I due autori, sociologo il primo e docente di demografia il secondo, si occupano da anni di fenomeni legati alla migrazione e questo ha permesso loro di non perdersi nell’inseguimento delle ultime notizie di attualità per tentare di

«offrire una sintesi di alcuni aspetti cruciali del processo migratorio che ha investito l’Italia negli ultimi quarant’anni, raccontando da alcune (non tutte, naturalmente) prospettive questa storia grandiosa, piena di speranze e soddisfazioni, ma anche delusioni e sofferenze, dove un Paese che si credeva monoculturale e in passato di emigrazione si è trasformato, nel giro di un paio di generazioni, in un grande porto di mare. Dove gli italiani, nella necessità di confrontarsi con l’altro, sono costretti a fare i conti con la propria identità. Dove, negli utlimi anni e e mesi, gli italiani si trovano a confrontarsi con l’assoluta novità (per loro) delle migrazioni forzate di massa. Dove, infine, lo spostamento connesso alle migrazioni si mescola con la paura per le minacce terroristiche».

La loro analisi, che potrebbe sembrare simile a molte altre sul nuovo fenomeno migratorio degli ultimi anni, iniziato dopo l’esplosione, nel 2011, delle cosidette primavere arabe, ha il vantaggio di accompagnare le riflessioni sui dati statistici e sulle implicazioni sociali delle recenti migrazioni con proposte concrete per quella che loro stessi, nella premessa al libro, definiscono «una ricetta, nell’auspicio che la torta migratoria riesca ben amalgamata e facilmente digeribile».

Il libro si apre con una riflessione, affidata alla certezza dei numeri, sulle caratteristiche comuni a tutti i fenomeni migratori, ovvero la necessità degli individui di far fronte a risorse insufficienti nel Paese di origine: chi decide di partire è disposto a sopportare sacrifici e privazioni pur di realizzare il proprio progetto di vita – da qui la seconda caratteristica, la selezione – per raggiungere un luogo dove invece le opportunità del mercato sono sovrabbondanti rispetto alla domanda. Grazie a questa selezione, i migranti che riescono a portare a termine il proprio percorso migratorio diventeranno sempre più simili agli abitanti del Paese che li accoglie, integrandosi – ecco la terza caratteristica – fino a essere praticamente indistinguibili da questi nel giro di poche generazioni.

1.Per gli autori, a causare il cortocircuito tra domanda e offerta di lavoro è, sin dagli inizi del XIX secolo, la rivoluzione demografica che in tempi diversi ha investito tutto il mondo e detta le condizioni per cui gli individui decidono di partire. La migrazione diventa dunque necessaria per mantenere un certo equilibrio demografico, secondo il meccanismo di push and pull, letteralmente spinte e attrazioni, che la sociologia anglosassone utilizza per spiegare le dinamiche di mobilità. Per alcuni è la volontà di trovare un lavoro adeguato al proprio titolo di studio, per altri l’impossibilità di trovare un’occupazione nel proprio paese di origine, dove la forza lavoro è maggiore rispetto alle necessità e alle richieste dell’economia. In entrambi i casi e per un meccanismo identico, un giovane italiano sceglierà un college americano per iniziare la propria carriera professionale e uno srilankese verrà in Italia a lavorare nelle concerie di pellame in Veneto, uno dei tanti dirty, dangerous and demeaning jobs (ddd jobs) che la maggioranza dei nativi può permettersi di rifiutare.

 «Le migrazioni moderne sono profondamente diverse da quelle delle società agricole. Perché la loro causa profonda risiede in qualcosa che non si era mai verificato prima nella storia dell’umanità, ossia la rivoluzione demografica [...]  Quante persone dovrebbero entrare nei paesi ricchi e in Italia nei prossimi vent’anni, affinché la popolazione in età 20-64 (la potenziale forza lavoro) non diminuisca? E quante persone dovrebbero uscire dai paesi poveri, affinché la popolazione della stessa età non aumenti? [...] Se il sogno di alcuni si realizzasse, e i Paesi ricchi “blindassero” le loro frontiere, nel giro di vent’anni i loro abitanti in età lavorativa passerebbero da 753 a 664 milioni, con una diminuzione fra il 2015 e il 2035 di quasi 4,5 milioni l’anno. D’altro canto, se i Paesi poveri chiudessero improvvisamente le loro frontiere, nel giro di vent’anni la loro popolazione in età 20-64 aumenterebbe di quasi 850 milioni di unità, ossia più di 42 milioni l’anno. Nel prossimo ventennio, dunque, il mondo ricco non potrà fare a meno dei migranti».

Per fare un esempio concreto, gli autori citano le cifre pubblicate dall’ISTAT sul Pil italiano del 2014, che per il 8,8%, pari a 123 miliardi di euro, è stato prodotto dagli stranieri: tutti incassi in attivo, dato che la percentuale di pensionati e anziani tra gli stranieri è veramente molto bassa, quindi la spesa per sanità e pensioni molto contenuta. Inutile, dunque, parlare di stranieri-che-ci-rubano-il-lavoro. Molti di loro sono apprezzati per la duttilità e la flessibilità e, cosa ancora più importante, queste caratteristiche hanno permesso agli italiani di negoziare e migliorare le loro condizioni lavorative: le badanti straniere permettono alle donne italiane di andare in pensione più tardi, spingendo in alto il tasso di occupazione femminile; la larga disponibilità di lavoro a basso costo degli stranieri contribuisce a mantenere bassi i prezzi di molti servizi e a migliorare la produttività di aziende e industrie che si servono di lavoratori stranieri pagati meno degli italiani, garantendo a questi ultimi un benessere economico altrimenti impossibile da raggiungere.

Le difficoltà sofferte dagli immigrati adulti nel nostro Paese riguardano purtroppo anche i loro figli, costretti a fare i conti con le precarie condizioni economiche e il basso livello d’istruzione dei genitori. Più che  l’essere di origine straniera, infatti, influisce il contesto socio-economico in cui crescono i bambini e gli adolescenti giunti in Italia dopo aver compiuto i dieci anni. Questi, a differenza dei più piccoli per cui il processo di socializzazione inizia in età precoce a scuola, soffriranno sempre le mancanze di una politica per nulla orientata all’inclusione. Tra i fattori critici elencati nel testo ci sono il minore capitale sociale e culturale delle famiglie, la mancanza di supporto nello studio da parte dei genitori, per mancanza di conoscenza linguistica e, più in generale, il disinteresse ad investire nella formazione scolastica. Tutto questo produce diseguaglianze strutturali nelle carriere dei giovani stranieri, con effetti persistenti nel lungo periodo.

Per far fonte a queste difficoltà, gli autori suggeriscono alcune soluzioni pratiche da adottare, per scongiurare il rischio di aumentare le diseguaglianze future dei giovani stranieri e italiani, sfruttando il potenziale inclusivo della scuola:

«La scuola è un luogo, oltre che un’istituzione, dove l’incontro tra culture diverse, oltre che essere un dato, ha una sua ragion d’essere e di essere teorizzato: perché va a toccare l’idea e la definizione stessa di cultura come patrimonio sociale che la scuola ha il compito di trasmettere. Solo che un approccio multiculturale, che oggi si preferisce definire interculturale – che ha per presupposto il rispetto per l’altro e l’invenzione di modalità di convivenza tra culture diverse – si può portare avanti  in molti modi. Si può fare per addizione: aggiungendo contenuti, conoscenze, simboli, momenti e luoghi di incontro, prodotti e consumi diversi. Si può, ancor meglio, procedere per interpenetrazione: facendo lo sforzo di pensare modalità diverse di incontro e di confronto [...] Quello che non ha nessun senso fare è procedere per sottrazione: negando la propria cultura, o nascondendone i simboli [...]»

2.Dalle ricerche dei due autori emerge quindi un quadro positivo del ruolo svolto dalle istituzioni scolastiche italiane, che agiscono nella quasi totale assenza di sostegno statale che promuova percorsi di aggiornamento per insegnanti lasciati soli in questo difficile compito di inclusione degli alunni stranieri. Un grave errore, se si considera il potenziale positivo rappresentato proprio dalla scuola per superare certe visioni culturaliste e scioviniste che ultimamente stanno prendendo piede anche in Italia, dove la conoscenza degli stranieri avviene a seguito di notizie di cronaca  i cui protagonisti sono prima di tutto persone con un vissuto difficile, piuttosto che immigrati, quindi criminali in senso lato. Riconoscere il ruolo centrale e formativo della scuola aiuterebbe invece a promuovere le politiche adottate in materia, per esempio, di cittadinanza, cambiando la legge a favore di un riconoscimento positivo e concreto del percorso scolastico, trasformando i giovani stranieri che frequentano la scuola in futuri cittadini italiani:

«L’integrazione sui banchi di scuola avrà quindi degli effetti integrativi di lungo termine su tutta la società. Ciò offre una certa legittimazione e dà una singolare pertinenza al ragionamento che si sta facendo nelle proposte di cambiamento della legge sulla cittadinanza: dove si suggerisce di passare, più che da uno ius sanguinis sostanziale a uno ius soli temperato, verso una sorta di ius scholae, in cui la cittadinanza possa essere acquisita da tutti coloto che hanno compiuto un ciclo scolastico nel nostro paese; assumendo che sia questo, più e prima ancora che il compimento della maggiore età, ciò che attesta un percorso di integrazione e i mezzi per portarlo a buon fine».

Come abbiamo visto, per i due studiosi, il vero problema dell’inclusione ruota tutta intorno a due fattori – l’età di arrivo in Italia e le possibilità economiche della famiglia – che insieme partecipano a strutturare anche il pensiero dei giovani stranieri rispetto ad alcuni aspetti come come le amicizie, la religione, il tempo libero e l’orientamento verso il futuro. Secondo quanto dimostrato da Itagen2, la prima ricerca quantitativa nazionale statisticamente rappresentativa condotta su diecimila ragazzi stranieri e altrettanti italiani di età compresa tra undici e quattordici anni, la somiglianza e la condivisione di ideali e comportamenti cresce col diminuire dell’età di arrivo in Italia, quindi in corrispondenza della possibilità di partecipazione alla vita sociale del Paese attraverso la frequenza delle scuole dell’obbligo e la conseguente possibilità di entrare in contatto con un modello culturale di riferimento in un’età tale da permettere di acquisire i riferimenti culturali.

Promuovere queste forme di assimilazione, nel senso di condivisione di intenti ed ideali, per riconoscersi a pieno titolo come appartenenti ad una comunità unita, seppur caleidoscopica, come la definiscono gli stessi autori,  risulta lo strumento più efficace per scongiurare, un domani, forme di opposizione, rancore e antagonismo verso la società che li ospita e le sue regole: sentirsi straniero, oltre che esserlo in parte, aumenta infatti quel senso di frustrazione che, in assenza di condizioni di vita economicamente dignitose e valori morali stabili, porta spesso a sposare cause estremiste e a divenire facile preda della propaganda anti occidentale come quella dei giovani arruolati dall’Isis. Se non ci sono possibilità concrete di sviluppare «l’ansietà di miglioramento» che spinge i genitori a lasciare i propri Paesi di origine per garantire un futuro migliore ai figli, i potenziali cittadini italiani di domani potrebbero considerarsi essi stessi un target generalizzato – stranieri, criminali, musulmani – e non accettato dalla società che li ha accolti fisicamente, ma non sostenuti umanamente.

3.Le conclusioni a cui giungono gli autori prendono le mosse da un assunto chiaro: «la questione dell’immigrazione non è più, se mai lo è stata, una questione emergenziale. È un dato strutturale del mondo globale e va affrontata come tale, con strategie e non con parole d’ordine, con politiche e non con slogan». In quest’ottica, i sistemi giuridici europei e le leggi nazionali dei Paesi coinvolti come punti di approdo dei migranti sono obsoleti e superati. Prendiamo il caso dell’Italia. La legge di riferimento per decidere del destino di migliaia di rifugiati e migranti economici, tanto quanto dei giovani in attesa di ottenere la cittadinanza italiana è la Legge Bossi-Fini del 2002 che ha fallito nell’intento di regolamentare i flussi in entrata, legandoli rigidamente all’ottenimento di un contratto di lavoro regolare acquisito ancora prima di giungere in Italia, dove il mercato del lavoro, soprattutto per i migranti, ha quasi sempre una connotazione illegale: «Una moltitudine di stranieri ha vissuto il ricatto e il rischio di definire un percorso di integrazione che avrebbe potuto essere più rapido e agevole».

Come agire, dunque, per promuovere delle regole chiare e utili a orientare positivamente le potenzialità della presenza straniera, anche rispetto ai nativi europei e italiani? Le proposte  di Allievi e Dalla Zuanna sono concrete e di realistica attuazione: occorre pianificare gli ingressi e agire a livello locale, creando una struttura di accompagamento degli enti locali, attivando contemporaneamente dei meccanismi di incentivazione e compensazione dei Comuni, programmando i flussi e spiegando a sindaci e cittadini cosa sta accadendo e perché. Lasciare che l’incontro con i rifugiati avvenga solo attraverso le immagini degli sbarchi sulle coste o, peggio ancora prima dell’arrivo delle navi, con le notizie dei morti in mare, non fa altro che aumentare la sensazione di pericolo percepito da chi si trova nella condizione di dover accogliere suo malgrado un flusso importante di persone.

Raccontare esempi positivi di dialogo interreligioso e inteculturale rappresenta l’antidoto più efficace per evitare uno scontro culturale inteso come scontro di civiltà, secondo il modello teorizzato e descritto da Samuel Huntington nel libro The Clash of Civilizations and the Remaking of World Order  (Simon and Shuster, 1996). Non siamo in presenza, come teorizzava il politologo americano all’indomani della Guerra Fredda, di un mondo in cui le culture possono considerarsi ancora come blocchi monolitici contrapposti, in una visione ereditata dalla dicotomia classica di Est e Ovest, Occidente e Oriente, Russia e America, considerati più modelli di pensiero che realtà geopolitiche e territoriali abitate da uomini e idee in movimento, non solo per gli aspetti legati al permesso di soggiorno o all’ingresso nel mondo del lavoro. Riconoscere il conflitto e saperlo gestire è la soluzione al problema dell’estremizzazione e del fraintendimento di alcune dinamiche che altrimenti rischiano di esacerbare la situazione odierna e peggio ancora, lo scenario futuro entro il quale continuerà a svilupparsi il fenomeno delle migrazioni. In questo senso, anche una conoscenza più profonda e ragionata della religione islamica europea, definita dai due autori come “illuminata” rispetto a quella dei Paesi di origine, potrebbe agevolare il dialogo e favorire il rispetto del principio della libertà religiosa, sancito dalla nostra Costituzione e promosso dalla Corte Internazionale dei Diritti dell’Uomo.

Nulla di impossibile o particolarmente difficile: l’Italia, concludono gli autori, ha il vantaggio di essere un Paese che ha evitato la “migrazione ghettizzata”, promuovendo contatti diretti e proficui tra italiani e stranieri, grazie alla scuola, ad un sistema produttivo basato sulle piccole imprese e a un saldo sistema di associazioni di volontariato. Ma non basta, a causa dell’italianità di alcuni comportamenti:

«[...] l’integrazione stessa può venire fortemente rallentata da alcune storture molto “italiane”. Le principali sono: la pretesa di determinare per via burocratica e in modo nominativo gli ingressi e le uscite; la rigidità del sistema scolastico; la difficoltà di gestire le richieste d’asilo. Per non parlare dei timori irragionevoli e degli ingiustificati buonismi, entrambi politicamente alimentati e strumentalizzati. In sintesi, ci sembra che una buona fusione fra italiani e stranieri abbia tre grandi nemici, fra loro alleati: una pubblica amministrazione rigida, inefficiente e poco propensa a lottare contro le diseguaglianze; una società italiana che non valorizza il merito e l’impegno individuale; un’errata narrazione pubblica dei grandiosi fenomeni di globalizzazione. Chi nei prossimi anni governerà l’Italia dovrà combatterli con tenacia, competenza e passione».

Nell’inquieto contesto del nostro tempo, agitato da demagogie populiste e concitate e ansiogene comunicazioni mediatiche, la lettura del libro di Allievi e Dalla Zuanna si offre come utile ed equilibrato contributo conoscitivo alla comprensione oggettiva del fenomeno che è in sè  complesso e di vasta portata e non può essere affrontato né risolto con slogan ideologici o isterie politiche.  Abbiamo bisogno di fare chiarezza anche sul piano delle informazioni, troppo spesso inquinate e strumentalizzate. E questo prontuario di dati, fatti e documenti ci dice come stanno effettualmente le cose al di là della propaganda e dei pregiudizi.

Dialoghi Mediterranei, n.24, marzo 2017

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Eleonora Bommarito, laureata in Beni demoetnoantropologici presso l’Università degli studi di Palermo, ha conseguito la laurea specialistica in Antropologia culturale. Si occupa prevalentemente di temi legati all’antropologia delle migrazioni transnazionali. Attualmente collabora con diverse testate giornalistiche online e sta approfondendo il tema dell’antropologia alimentare.

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