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Un mosaico di Sicilie nella narrazione delle sue identità

il-mistero-e-lingannodi Sergio Todesco

Mario Bolognari, antropologo e politico siciliano, ha da tempo rivolto la sua attenzione verso i meccanismi che disciplinano la costruzione dell’identità, e la negoziazione delle diverse forme identitarie, nelle comunità della sua isola. Di tali meccanismi egli aveva già offerto alcuni anni or sono un esempio assai pregnante esaminando lo sguardo del barone Wilhelm Von Gloeden, fotografo, omosessuale ed esteta, su Taormina nei circa cinquant’anni della sua permanenza, e svelando come l’attività di Von Gloeden sia consistita nella costruzione di un’identità – quella di Taormina e dei suoi abitanti a cavallo dei secoli XIX e XX – in larga misura fasulla e mistificata, incentrata su un mito (quello della classicità e dell’Arcadia) e su un’ideologia (quella secondo la quale i nativi taorminesi da lui fotografati sarebbero stati dei “tesori umani viventi”, ossia una sorta di palinsesto antropologico delle culture precedenti).

Già in quel libro (I ragazzi di Von Gloeden. Poetiche omosessuali e rappresentazioni dell’erotismo siciliano tra Ottocento e Novecento, Città del sole edizioni, 2012) Bolognari svolgeva una radicale opera di de-mitizzazione sulle origini e sui frutti del turismo a Taormina dimostrando come l’operazione di “costruzione” del mito del centro ionico a cavallo dei due secoli fosse frutto di una convergenza di interessi tra le esigenze “romantiche” di una larga fascia di intellettuali europei in cerca di una patria elettiva (et in Arcadia ego) ma anche di un porto franco per l’esercizio di forme di turismo sessuale, e le aspirazioni di una rampante minoranza locale disposta a ridisegnare il proprio territorio secondo un modello costruito sulle dinamiche di “accoglienza” dell’altro, del visitatore straniero in grado di introdurre “sguardi esterni” e capitali in un’economia ancora scandita secondo i ritmi della cultura agro-pastorale. Tale somma di sguardi, interni ed esterni alla realtà taorminese, avevano bisogno a vario titolo di sovrapporre alla realtà concreta di Taormina una serie di stereotipi.

glodenNell’analisi delle dinamiche messe in moto da tali esigenze Bolognari non mirava tanto alla ricostruzione di una realtà storica (come tale sempre sfuggente e problematica) quanto a verificare quali processi di riplasmazione della realtà territoriale e antropologica avesse attivato la comunità locale in rapporto alla presenza e all’attività di Von Gloeden a Taormina, mostrando in concreto come i meccanismi di costruzione dell’identità, veicolati attraverso la logica degli sguardi, non siano mai neutrali ma rinvìino sempre a rapporti di forza e di potere.

Nell’ultimo volume, Il mistero e l’inganno. Pensare, narrare e creare la Sicilia (Navarra editore 2021) da lui curato e comprendente oltre alla densa introduzione sette contributi, i saggi che lo compongono si prefiggono di ripensare i contorni dell’identità siciliana, sottraendola ai luoghi comuni, alle retoriche, alle narrazioni di segno opposto – ma convergente nella mistificazione – che su di essa si sono elaborati. Nell’esame delle narrazioni dominanti sull’identità della Sicilia ciascun autore ne mette in discussione l’autenticità. Queste narrazioni non sono tutte unidirezionali, ma si dispongono anche secondo piani opposti. Dalla Sicilia sottosviluppata, arcaica, culla della mafia etc. alla Sicilia ombelico del mondo, isola in cui (come annotava Goethe) risiede “la chiave di tutto”.

I saggi rivelano invece come la realtà siciliana sia magmatica, ambigua, proteiforme, e dunque nel loro complesso mettono in evidenza l’incredibile varietà di narrazioni, che contano tanto voci colte che voci alternative.  Gli autori suggeriscono quindi un modo nuovo di ristrutturare la consapevolezza che della Sicilia tutti in qualche misura, siciliani e non siciliani, abbiamo sedimentato accogliendo passivamente frasi fatte e luoghi comuni.

L’assunto generale, e il messaggio che proviene da queste riflessioni a più voci, è che la realtà dell’isola Sicilia sia una realtà multiforme, stratificata, composita, meticcia. Da esso scaturisce implicitamente una critica definitiva dell’identità monolitica, sempre uguale a se stessa e impermeabile ai mutamenti. Ciò che noi chiamiamo identità in realtà è sempre l’esito di una dialettica tra il mutamento e la persistenza, l’equilibrio (sempre instabile e provvisorio) tra queste realtà. Al contempo, come ci ha insegnato Antonino Buttitta, ogni seria indagine antropologica non può prescindere dalla consapevolezza della distanza che intercorre tra la realtà e le sue rappresentazioni.

culture-ibrideIl volume si inserisce dunque degnamente e a pieno titolo nella scia di una serie di contributi apparsi a partire dalla fine degli anni ’80, tra i quali occorre citare almeno I frutti puri impazziscono del 1988, di James Clifford, Culture ibride del 1990, di Nestor Garcia Canclini, e Contro l’identità del 1996, di Francesco Remotti, testi nei quali, benché da prospettive e con contenuti diversi, si rappresenta la necessità di non rimanere prigionieri di clichés cristallizzati e si critica la reificazione del concetto d’identità, che negli incontri tra culture risulta sempre cangiante, e dunque sempre da rinegoziare.

Cosa emerge da questi contributi? Che le cosiddette “tradizioni” (i frutti puri) sono destinate a “impazzire” allorquando non si arrendono alle promiscuità, alle contaminazioni. Bolognari parla infatti di una «concezione dell’identità siciliana come costruzione narrativa, come variabile dipendente dalla storia e dalla cultura che si modifica e si adatta alle esigenze della contemporaneità», e tutti i contributi, nel loro complesso, offrono spunti per procedere a una de-mitizzazione delle immagini, delle narrazioni ordinariamente rese sulla Sicilia.

Sulla Sicilia si sono infatti esercitate due opposte ma convergenti forme di narrazione, entrambe mistificanti: l’omogeneizzazione industriale e postindustriale e la diversificazione regionalistica grottesca e di maniera. Le identità legate al territorio e le identità legate agli usi e costumi sono, a ben vedere, delle identità illusorie in quanto sia il territorio che i modi di atteggiarsi delle comunità subiscono continue modifiche e trasformazioni ad opera delle influenze esterne, e lo spazio definito dall’immaginario mainstream non sempre corrisponde allo spazio reale.

Se un’identità debba in realtà essere attribuita all’Isola, è piuttosto quella che declina la Sicilia quale “continente della narrativa”. De Roberto, Pirandello, Tomasi di Lampedusa, Sciascia, e molti altri autori al loro seguito hanno provato, ognuno a suo modo, a demistificare le false narrazioni intorno alla Sicilia, anche se spesso la loro produzione è stata travisata e, paradossalmente, letta in segno opposto.

Pirandello, Verga, Quasimodo, Sciascia

Pirandello, Verga, Quasimodo, Sciascia

Neanche lo “sguardo da lontano” è rimasto indenne dall’abbandonarsi agli stereotipi e alle retoriche, come rivelano le descrizioni dei viaggiatori stranieri sette-ottocenteschi, oltremodo condizionate dall’ideologia del “pittoresco” che stimola la ripetizione da parte di molti viaggiatori, quasi con le stesse parole, dei giudizi dei viaggiatori precedenti. Assistiamo in questi, come in molti altri casi anche più recenti, a meccanismi che sono stati puntualmente descritti ed etichettati come Orientalismo da Edward Said.

Come è agevole rilevare anche nell’attuale comunicazione di massa, sono state messe in atto modalità diversificate di comunicazione delle storie che in realtà rivelano il sostanziale saccheggio da parte della grande industria di lacerti identitari piegati al profitto e strumentalmente sottratti ai loro contesti socio-culturali (si confrontino a mò di esempio le foto scattate a Savoca da Oliviero Toscani per Benetton, le performances di Dolce e Gabbana giocate sugli stilemi iconografici dell’arte popolare etc.). Il volume tratta insomma di ciò che nelle narrazioni sulla Sicilia è fittizio, ambiguo, ingannevole, retorico, costruito su luoghi comuni etc.

In letteratura, ad esempio, i primi due saggi di Mauro Geraci e di Flaviana Astone dispiegano acute considerazioni sui meccanismi che le scritture adottano per ridurre a realtà addomesticate elementi culturali, territoriali, antropologici non riconducibili ad un unicum. Mauro Geraci offre così una smagliante carrellata lungo una pluralità di voci, scritte, orali e visuali che adottano ottiche diversificate (ingigantimento ovvero miniaturizzazione) nella descrizione della realtà isolana. Alla ricchezza narrativa, davvero incredibile per un angolo di mondo estremamente esiguo, si accompagna la multiformità di voci, colte e popolari, che nel corso dei secoli si sono cimentate nella descrizione dell’Isola, quasi tutte tentando di adottare un focus unitario di comprensione del suo zeitgeist. In realtà, suggerisce l’autore, ogni singola narrazione non può che scontrarsi con l’impossibilità di adottare chiavi uniche di lettura, dato che – come sappiamo – una chiave in grado di aprire tutte le porte è con grande probabilità una chiave falsa. Analoghe considerazioni vengono svolte su tutti gli altri giacimenti di stereotipi (nel cinema, nella pittura, nella fotografia).

51zr6chcfql-_sx382_bo1204203200_Flaviana Astone esamina con grande consapevolezza critica il ruolo della letteratura e del cinema come veicoli di propaganda (a favore e contro) e le conseguenze della loro influenza nella creazione di un immaginario stereotipato. Esamina lo stigma, le false identità appioppate alla Sicilia (dallo “sguardo altrui” cinque-secentesco agli atteggiamenti critici e “orientalisti” del XIX secolo) attraverso le percezioni e le retoriche letterarie (in particolare, con una lettura del romanzo di Robert Hichens, The call of the Blood). La letteratura e le arti visive sono responsabili di narrazioni che hanno finito col cristallizzare l’immagine della Sicilia, da D.H. Lawrence a Truman Capote. In realtà, suggerisce l’autrice, un’identità ipotetica rimane in vita perché soddisfa interessi diversi (un esempio, oggi tristemente assai praticato, è quello di tipo populistico).

Altri contributi, come quelli di Giulia Bitto e di Roberta Pandolfino, si addentrano nelle svariate forme di costruzione ed esibizione dell’identità in due luoghi concentrazionari per eccellenza, la prigione e l’ospedale psichiatrico giudiziario. Giulia Bitto esamina tali meccanismi nell’esperienza privata e nei vissuti dei detenuti per associazione mafiosa presso il carcere di Catania Bicocca. Anche in questo caso il mafioso adotta degli stereotipi per presentare di sé un’immagine conforme a quella che il comune sentire si attende. Le autobiografie hanno dunque la caratteristica di celare la verità, adeguandosi piuttosto a schemi narrativi di comodo, consolidati ma proprio perciò retorici. Le autobiografie di costoro rivelano infatti forme di autorappresentazione inficiate da luoghi comuni e dall’esigenza di mantenersi fedeli a codici tradizionali valevoli a conservarne intatto lo status presso il proprio ambiente sociale

Roberta Pandolfino esamina alcune figure di ricoverati presso l’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Barcellona P.G., facendo emergere – attraverso le cartelle cliniche, le lettere, le relazioni sanitarie e le stesse testimonianze – una narrazione fatta di mezze verità, di inganni e allusioni, di luoghi comuni patriarcali e di alterazione delle storie personali. Anche nel caso di questi due contributi il pensiero non può che andare al Foucault di Sorvegliare e punire, in cui gli spazi concentrazionari risultano essere creati per controllare, sorvegliare, classificare ed emarginare gli individui ritenuti pericolosi. Nei due casi siciliani i sistemi di misurazione e di valutazione si mescolano e diventano opachi.

Film documentario di Vittorio De Seta

Film documentario di Vittorio De Seta

Le costruzioni dell’identità hanno anche delle proiezioni territoriali, come mostrano Irene Falconieri e Marcello Mollica. La prima esamina la storia di una “Modernizzazione” imposta, portando ad esempio la RASIOM di Augusta e il Petrolchimico ENICHEM di Priolo Gargallo, e facendo il punto sulle criticità legate all’industrializzazione forzata della Regione, che ha trovato il suo puntello ideologico nella costruzione di una Sicilia immobile, arretrata, sottosviluppata, e quindi necessitante di interventi etero diretti. Vengono in mente i documentari di Vittorio De Seta sulle trasformazioni radicali cui sono andate incontro le regioni meridionali in obbedienza alla logica dello sviluppo, uno sviluppo che come lucidamente profetizzava Pier Paolo Pasolini nulla aveva in comune con il reale progresso civile del Paese (negli Scritti Corsari si parla appunto di un’Italia “paese dello sviluppo senza progresso”). Le false narrazioni sullo “sviluppo”, come oggi amaramente registriamo, hanno impedito che l’economia siciliana potesse esprimersi secondo prospettive differenti, ad esempio nei settori del Turismo e dei Beni Culturali.

Analogamente Marcello Mollica discute della perimetrazione dei Parchi archeologici (quello di Tyndaris in particolare) mettendone in rilievo le intime contraddizioni e la difficoltà a definire contorni coerenti a motivo delle zavorre burocratiche e delle strumentalizzazioni che la politica da sempre esercita su iniziative quasi sempre sottratte al controllo e all’accettazione delle comunità locali. L’autore si sofferma con efficacia sulla discrepanza tra la memoria storica dei luoghi e la configurazione degli stessi secondo le logiche politico-istituzionali. In realtà, ogni perimetrazione comporta, anche senza che ne siano pienamente consapevoli i promotori, un’organizzazione simbolica del territorio. Risulta quindi evidente come tale procedura, quale risulta essere stata adottata dall’Amministrazione Regionale, poco abbia a che fare con le reali vocazioni del territorio stesso, e come essa abbia finito col mortificare le comunità locali disattendendone le aspirazioni e i bisogni reali.

Lo scarto tra la determinazione dell’Area Archeologica e la determinazione del Parco Archeologico (che meglio dunque sarebbe da ridenominare “Parco Culturale” o “Rete Ecomuseale”) ha quindi prodotto un pernicioso scollamento tra le comunità locali e i loro patrimoni (i patrimoni vengono sottratti al controllo e alle decisioni di chi li ha storicamente “abitati”, vissuti, fruiti). È dunque fatale che queste comunità finiscano con l’esprimere «opposizione a fittizie costruzioni socio-culturali della realtà».

Petrolchimico e Marina di Melilli (Siracusa)

Petrolchimico e Marina di Melilli (Siracusa)

Angela Princiotto offre infine un’ulteriore traccia di lettura che si addentra nelle strategie identitarie e nelle dinamiche intergenerazionali, e stila una mappa dell’identità siciliana a partire dalle memorie dei migranti in un’ottica trans-generazionale. Le diverse “identità” dei siciliani migranti rivelano dunque la sostanziale contraddizione tra la povertà della Sicilia abbandonata e il benessere della nuova patria raggiunta. Tale gap, tanto culturale quanto affondante nelle pieghe delle differenze tra immigrati di prima, seconda o terza generazione, viene esplicitato esaminando la pratica dei tatuaggi e le loro variegate simbologie che tentano l’ancoraggio a memorie destoricizzate e rivelano piuttosto la reale illusorietà delle identità di gruppo da essi veicolate. Anche in questo contributo l’autrice mette in luce le pratiche di ri-significazione dei referenti iconografici tradizionali e la loro continua negoziazione con i modelli affermatisi nei moderni universi delle immagini, pur emergendo a tratti una qualche “nostalgia delle origini” (Eliade), ad esempio nel caso delle immagini dei parenti morti percepiti in veste di Lari o nell’assunzione del corpo tatuato come “spazio votivo”.

Se dovessimo in conclusione descrivere l’identità siciliana adottando un’immagine pregnante, la scelta non potrebbe che ricadere su quella di un mosaico costituito da tessere continuamente ricomponentesi secondo incastri sempre diversi. In tale realtà in sommo grado composita, la singola tessera che pretendesse di ergersi a elemento rappresentativo del tutto risulterebbe velleitaria, proprio come ogni singola narrazione sulla Sicilia che si illudesse di poter compendiare e definire tutta l’identità siciliana. Risulta quindi illusoria e mistificante ogni pretesa di “narrare” in modo definitivo quanto costituisce il cuore, la ragione, il télos di quest’Isola.

L’approfondita indagine a più voci offertaci dal volume getta utili scandagli sui meccanismi che determinano la costruzione delle identità, e sulla dialettica tra un’identità percepita e un’identità storicamente (troppo spesso) subita. L’impressione generale che se ne ricava, il messaggio che i saggi nel loro insieme intendono lanciare risulta essere quello che solo la consapevolezza delle identità multiple della nostra Isola possa proteggerci dal rischio di condividere le mitologie e le retoriche che populisti di ieri e di oggi propagano e cavalcano. E l’antidoto per non cadere in tali trappole ideologiche è rappresentato da un continuo sguardo critico e dalla buona letteratura. 

Dialoghi Mediterranei, n. 56, luglio 2022
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Sergio Todesco, laureato in Filosofia, si è poi dedicato agli studi antropologici. Ha diretto la Sezione Antropologica della Soprintendenza di Messina, il Museo Regionale “Giuseppe Cocchiara”, il Parco Archeologico dei Nebrodi Occidentali, la Biblioteca Regionale di Messina. Ha svolto attività di docenza universitaria nelle discipline demo-etno-antropologiche e museografiche. Ha al suo attivo numerose pubblicazioni, tra le quali Teatro mobile. Le feste di Mezz’agosto a Messina, 1991; Atlante dei Beni Etno-antropologici eoliani, 1995; IconaeMessanenses – Edicole votive nella città di Messina, 1997; Angelino Patti fotografo in Tusa, 1999; In forma di festa. Le ragioni del sacro in provincidi Messina, 2003; Miracoli. Il patrimonio votivo popolare della provincia di Messina, 2007; Vet-ri-flessi. Un pincisanti del XXI secolo, 2011; Matrimoniu. Nozze tradizionali di Sicilia, 2014; Castel di Tusa nelle immagini e nelle trame orali di un secolo, 2016; Angoli di mondo, 2020; L’immaginario rappresentato. Orizzonti rituali, mitologie, narrazioni (2021).

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