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Un dialogo personale con Marc Augé

41jt0qu0vl-_ac_uf10001000_ql80_di Giovanni Gugg 

Un etnologo in Circumvesuviana

Nei miei anni da studente universitario ho avuto una vita piuttosto in linea retta, perché trascorrevo diverse ore ogni giorno a bordo del treno che, da capolinea a capolinea, mi trasportava tra Sorrento, dove vivevo, a Napoli, dove studiavo. La linea ferroviaria circumvesuviana, che va da un lato all’altro del Golfo di Napoli, passando per tutte le città costiere dell’area vesuviana, era gran parte della mia routine, dacché la mia vita studentesca, familiare ed amicale ne era alquanto influenzata, perché, come sanno tutti i pendolari, mi imponeva i suoi punti di riferimento e i suoi ritmi. Si tratta di una ferrovia a scartamento ridotto che per decenni è stata il vanto dei napoletani, fin dal 1890: una ferrovia che si comportava come una metropolitana molto tempo prima che comparisse nelle città principali. Una volta c’erano sedili di velluto, oggi sono di plastica dura e scrostata, i finestrini istoriati dai graffiti, affollatissima o deserta. Maria Pace Ottieri (2018: 21) ha scritto che,

«Sulla Circum o la Vesuviana, come la chiamano i suoi passeggeri abituali, si incontrano i poveri di una volta, facce smunte, solcate dai segni di dure esperienze, bocche sdentate, barbe lunghe, odori forti, inguaribili stanchezze che piegano le teste scure contro i finestrini, ai piedi o nei sedili accanto, i bagagli sono gonfi sacchi di plastica pesantissimi. La vita qui pare assoluta, pane assoluto: pane senza companatico».

Come è noto tra gli utenti delle linee ferroviarie locali, durante il viaggio il tempo passa in sospensione: si fissa un punto qualsiasi nello spazio o si gioca a carte con i colleghi, oppure si origliano le discussioni dei vicini, riconoscendo le facoltà universitarie frequentate o le incombenze degli insegnanti che lottano tra calendari e direttori didattici. In alcuni casi, almeno tra gli anni Novanta e Duemila, il viaggio era scandito anche dalla lettura di un giornale o di un libro: era il mio caso che, non dovendo prestare attenzione alla fermata intermedia, perché la mia uscita era l’ultima della corsa, trascorrevo un’ora e un quarto in apnea, preparando gli esami universitari o immergendomi in testi laterali. Fu in quel contesto che scoprii e lessi Un etnologo nel metrò di Marc Augé (1991), in cui ogni pagina era come una descrizione di quel che vivevo in quell’esatto momento: a seconda delle fasce orarie, osservavo lo studente nello scompartimento di fronte con “il manifesto” o l’impiegato con “Il Mattino” che spiegavano senza troppe esibizioni quelle che Augé chiamava «piccole bandiere individuali», che mi permettevano di immaginare le loro preoccupazioni politico-sociali; mi accorgevo degli sguardi languidi degli innamorati che salivano tra Torre Annunziata e Castellammare di Stabia per trascorrere una serata romantica in Penisola Sorrentina, nonché di quelli stupiti o disorientati dei turisti diretti agli Scavi di Pompei; riconoscevo negli altri viaggiatori abituali la strategia di posizionamento che io stesso adottavo, ovvero cercare un sediolino in corrispondenza dell’uscita futura, quando il treno sarebbe entrato nella stazione di destinazione, e nelle stagioni calde, conoscendo il movimento del convoglio, dal lato opposto a quello del sole, siccome non c’erano tendine ai finestrini o aria condizionata.

Circumvesuviana

Circumvesuviana

Quel libro fu come un saggio vissuto in diretta, che mi diceva come la mia solitudine nello spazio anonimo del treno fosse meno sonnolenta perché, avendo a disposizione vari punti di riferimento, poteva invece trasformarsi in uno stimolo a fare attenzione ai dettagli e ad affinare lo sguardo sul mondo che mi circondava. Fantasticavo che un giorno avrei elaborato la versione partenopea di quel testo e il titolo non avrebbe potuto essere che “Un etnologo in Circumvesuviana”, ma non l’ho mai fatto e questa è la prima volta che ne scrivo. 

Sorrento e altri nonluoghi

Successivamente passai alla lettura di altri due testi celebri di Augé: Nonluoghi, introduzione a una antropologia della surmodernità (1993) e Disneyland e altri nonluoghi (2000). Lo stimolo arrivò soprattutto dallo studio per la mia tesi di laurea in antropologia del paesaggio sulla Penisola Sorrentina; avevo bisogno di orientarmi teoricamente ed ero alla ricerca di definizioni: cosa differenzia un luogo da uno spazio, cos’è il paesaggio, che impatto ha il turismo di massa, come si legge un territorio “fermo” all’Ottocento (l’area “Malacoccola-Sant’Elia”, nel mio caso: Gugg 2003, 2015) nel pieno della modernità contemporanea (o “surmodernità”, diceva Augé). In altre parole, ero onnivoro: leggevo vecchi romanzi e resoconti di viaggio (ad esempio Norman Douglas), nonché testi di storia e toponomastica locale (come Edwin Cerio); studiavo volumi di geografia umana e antropologia dei luoghi (da Eugenio Turri a Franco Lai, fino ad Amalia Signorelli e Vito Teti); mi interessavo di ecomuseografia (ovviamente George Henry Riviére); tentavo di tracciare un legame tra il Campanile di Marcellinara di Ernesto De Martino e i nonluoghi di Marc Augé.

61qposkmsel-_ac_uf350350_ql50_Nelle sue pagine, l’antropologo francese era molto chiaro, le sue definizioni erano estremamente comprensibili. Un “luogo antropologico”, diceva, ha tre caratteristiche: è relazionale, storico e identitario, per cui, con tutta evidenza, il “nonluogo” è il contrario, ossia manca di almeno uno dei suddetti elementi. Di conseguenza, il luogo antropologico è «sia ciò che esprime l’identità del gruppo sia ciò che il gruppo deve difendere contro le minacce esterne e interne perché il linguaggio dell’identità conservi un senso» (Augé 1993: 45). In quel momento della mia vita di studente universitario e di cittadino, le parole di Augé ebbero un forte impatto: tentavo di recuperare la storia di un pezzo dimenticato della Penisola Sorrentina, il solo in cui non erano state costruite strade e dove non era dilagato il cemento, quella che già Norman Douglas definì, agli inizi del Novecento, «ultima Thule della Terra delle Sirene» (1972: 141), vale a dire il “luogo ideale” della mitologia, il punto più lontano, la meta di ogni viaggio, l’estremo limite non solo geografico, ma il modello perfetto cui aspirare per trovare una dimensione alternativa e un distacco dalla vita quotidiana.

L’area “Malacoccola-Sant’Elia”, sul versante meridionale della Penisola Sorrentina, è un altrove rispetto al suo contesto più ampio, dove invece il turismo di massa e l’urbanizzazione hanno cambiato i connotati del paesaggio e delle relazioni sociali; la mia cittadina – che amavo e che amo ancora – cominciò a sembrarmi finta, una “Disneyland” in cui i turisti, il più delle volte in gruppo, «per far provvista di sole e d’immagini, si espongono, nel migliore dei casi, a trovare solo quel che si aspettavano: alberghi stranamente simili a quelli che frequentavano altrove l’anno prima, camere con televisione per guardare la CNN» (Augé 2000: 10-11).

Una località turistica ha intrinsecamente una quota di finzione, come ha spiegato Alessandro Morello proprio su “Dialoghi Mediterranei” nel n. 29 del 2018:

«La conversione delle comunità in oggetti turistici implica che i valori sociali e culturali tradizionali assumano una funzione commerciale – per soddisfare le aspettative dei turisti – perdendo di fatto quelle connotazioni simboliche che prima caratterizzavano quei determinati oggetti. Guardare alla città e alle sue rappresentazioni offerte allo sguardo del turista permette di riflettere sulla nozione di autentico, un nodo che è sempre presente e difficile da sciogliere».
Sorrento (ph. Giovanni Gugg)

Sorrento (ph. Giovanni Gugg)

In quanto abitante della Penisola Sorrentina, quei testi di Augé mi permisero di interrogarmi sulla categoria dell’autentico, cioè sui concetti di vero e di falso. Certo, Sorrento è una città produttrice di immagini e di immaginario che traduce in un’offerta economica per un pubblico di massa: ma per questo è meno “vera” di altre città? Evidentemente no: era ed è reale. La questione, piuttosto, è comprendere di quale realtà parliamo.

Quella che era andata sviluppandosi nell’ultima parte del Novecento e che aveva coinvolto anche i miei luoghi era una “mcdonaldizzazione”, una “disneyzzazione”, con in più la caratterizzazione paesaggistica, sociale e mediale mediterranea (Ritzer 1997; Augé 2000; Bryman 2004) in bilico tra cornice italiana e souvenir tour. In altre parole, era andato sviluppandosi un sapido mix tra globale e locale, dove il turista sembrava andare alla ricerca di immagini e di un luogo rassicurante, colorato e pittoresco, costruito dai media, fruito in maniera standard attraverso i mezzi di locomozione, nella efficienza, nella calcolabilità, nella prevedibilità e nel controllo. Improvvisamente, Sorrento mi sembrò come un parco a tema dove lo scivolare delle immagini appiattisce la profondità di natura e storia, rendendole artificio e finzione.

nonluoghiIn cantiere, non in rovina

Abitavo dunque in un nonluogo? Studiavo un paesaggio ipocrita? Viaggiavo con un mezzo alienante? La mia stessa vita era dunque scandita da imposture? Dopo una prima fase di seduzione, l’approccio teorico di Augé mi apparve progressivamente meno calzante: illuminava certamente molti aspetti, eppure ne lasciava altri al buio. Non frequentavo i nonluoghi, come ad esempio i centri commerciali e i grandi hub di trasporto, eppure avevo una certa consuetudine con l’aeroporto, perché mio fratello nel frattempo era stato assunto come steward da una compagnia aerea, fino a diventarne responsabile di bordo: per lavoro si era trasferito a Milano, poiché l’aerostazione di Linate era la sua base, e, pertanto, i suoi amici e i suoi affetti erano colleghi e colleghe che, come lui, gravitavano intorno a quello scalo, il quale per loro divenne uno spazio usuale e di routine. Quando andavo a trovarlo, notavo come si muovesse con scioltezza in quei corridoi e salutasse tantissime persone che vi lavoravano, quasi si trattasse della piazza di un paese, quanto avesse uno sguardo strategico per calcolare i percorsi più rapidi o, ancora, come lui e i suoi amici si dessero appuntamento proprio a Linate – e nei suoi parcheggi multipiano in cui godevano di alcuni vantaggi – per poi proseguire la serata altrove, magari con gli autobus urbani verso il centro cittadino o, comunque, in direzione del Duomo.

Insomma, per me il “Forlanini” restava un luogo di transito in cui, come insegnava Augé, non lasciavo nulla e da cui non ricevevo niente in termini di rapporti umani e di senso di appartenenza, se non i servizi essenziali al mio viaggio. Al contrario, per mio fratello quello era qualcosa di più, un luogo familiare e relazionale, per certi versi addirittura identitario, considerando il suo lavoro e quello delle persone che frequentava. Evidentemente, l’aeroporto non era un nonluogo assoluto e ai miei occhi il neologismo di Augé scricchiolava.

Delle cose accadevano anche nei nonluoghi, quindi, e potevano essere osservate, magari capite, dacché l’antropologia non era semplicemente la disciplina che evidenziava la differenza tra quelle tipologie di luoghi, ma era soprattutto la scienza che permetteva di esaminare il rapporto tra le persone in un determinato contesto spaziale e temporale. A Sorrento c’erano (ci sono) luoghi e pratiche per turisti ed altri per noi autoctoni: certe pizzerie sono frequentate solo dai residenti, dove ad esempio si celebrano i compleanni in famiglia o le cene di classe a fine anno scolastico, così come determinate feste popolari possono essere grandiose e un po’ “messe in scena” in favore delle telecamere, mentre altre sono invece più contenute, senza bancarelle e fuochi d’artificio, ma con i pasticcini preparati in casa e distribuiti gratuitamente agli intervenuti.

il-metro-rivisitato-711Non che non vedessi la “disneyzation of society” (Bryman 2004) o la sempre più forte tendenza a sovrapporsi e confondersi di tali poli con la pretesa (altro non è che una nuova offerta turistica) di scoprire “l’autentica Sorrento”, ma sapevo che c’era anche una forma di “resistenza” che usava quello stesso spazio in maniera diversa, cioè che nella mia città era andata instaurandosi una dinamica di intrusione/esclusione, con spazi da “palcoscenico” e da “retroscena”, differenti stadi di contatto con la popolazione locale e di originalità dell’esperienza turistica. Uno di questi spazi e tempi altri erano i concerti della rockband locale che seguivo all’epoca: eventi ristretti di punk-grunge, con un pubblico di fedelissimi refrattari alle discoteche, in cui tra una cover e l’altra degli Smiths e dei Nirvana o dei Talking Heads e dei Depeche Mode, ogni tanto si inseriva un brano inedito del virtuoso chitarrista Alfonso “Fofò” Bruno, generalmente in dialetto napoletano, ironico e corale, come “’A Circumvesuviana”, in cui si raccontavano le disavventure di un passeggero dell’amata/odiata linea ferroviaria che ci univa alla grande città.

Indubbiamente, in quei “nonluoghi” – turistici, commerciali o di transito – c’erano le nostre storie, le nostre vite e non erano meno “vere” – felici o disperate, facili o affaticate – di quelle esperite altrove. Intanto il successo editoriale di Marc Augé aumentava, al punto che ogni anno usciva un suo pamphlet, talvolta si trattava della trascrizione di una sua conferenza o del suo diario intorno ad un evento di particolare importanza. In questo modo è riuscito a rendere popolare l’antropologia culturale e a inserire nel dibattito pubblico concetti elaborati all’interno della disciplina, sebbene la sua maniera di scrivere – più da romanzo che da saggio antropologico – abbia indotto il lettore a un assenso quasi incondizionato alle sue affermazioni, senza poter riflettere sulla giustezza delle sue conclusioni.

In ogni caso, forse quel che è mancato nella produzione di Augé degli ultimi anni è un raccordo tra quei tanti contributi, così da sistematizzare le idee, dare loro profondità e, perché no, problematizzarle. Tra il grande pubblico, ad esempio, non molti sanno che lo stesso Augé aveva rivisitato il metrò parigino (2009) e, soprattutto, aveva ridefinito la nozione di nonluoghi. In Perché viviamo? (2004: 96), l’antropologo scrive:

«Se si definisce il nonluogo come uno spazio empiricamente reperibile (un aeroporto, un supermercato o uno schermo televisivo), ma come lo spazio creato dallo sguardo che lo prende per oggetto, si può ammettere che il nonluogo degli uni (per esempio i passeggeri in transito in un aeroporto) sia un luogo per altri (per esempio coloro che lavorano in quell’aeroporto)».

9788883536243_0_424_0_75In vari decenni, le questioni trattate da Augé non sono cambiate: la metropolitana della capitale francese continua a essere un luogo straniante e pieno di solitudine anche se, proprio nelle ultime pagine del volume (Augé 2009), dopo aver di nuovo descritto il luogo spersonalizzato e i cambiamenti da esso subiti in vent’anni, pare che qualche forma di comunicazione all’interno delle stazioni parigine abbia cominciato ad esserci e che le stazioni da luoghi degradati nel mondo contemporaneo si siano gradualmente trasformate in luoghi di eccellenza e di lusso per tutti, stimolando una qualche comunicazione tra gli esseri umani, ad esempio attraverso l’incisione, i graffiti o alcune poesie. Similmente, distinguendo tra spazio pubblico e spazio del pubblico e tra spazio privato e spazio del privato, Augé riconosce che il nonluogo è tanto ambivalente quanto il luogo, per cui «non si può escludere che nei nonluoghi si creino dei luoghi» (Augé 2004: 97).

Si tratta di osservazioni meno disperanti di quelle precedenti, in cui si coglie una dose di fiducia, perché Augé dà una chance a luoghi che a lui non piacevano, sebbene fosse costretto a usarli e ad attraversarli. È come se avesse fatto antropologia di sé, costringendosi a interrogarsi su sé stesso e ad assumere verso la sua quotidianità e la sua scrittura quel minimo di distanza richiesto dal suo “mestiere”, quello che lui stesso ha definito «un’analisi critica degli etnocentrismi culturali locali» (2007: 42).

41xkt1lk6zl-_ac_uf10001000_ql80_Il vero campo etnografico di Augé è stato il mondo contemporaneo, che è al contempo il risultato della globalizzazione e della planetarizzazione, ossia della rete economica e tecnologica che avvolge il mondo, ma anche della “coscienza planetaria” che è andata prendendo piede con la scoperta delle caratteristiche e delle debolezze del pianeta Terra, maltrattato dall’attività umana. È in questo scenario che, a mio avviso, resiste più delle altre una nozione di Augé, ovvero quella di “surmodernità”, con cui intende che la moltiplicazione di uniformità globale si deve all’uomo occidentale che ha fatto prevalere le sue forme di dominio e di cultura, anche se queste, poi, partendo dalla razionalità moderna, si sono autonomizzate e relativizzate, andando al di là della semplice modernità e superandola in una sorta di sovra-modernità che non significa crisi della modernità, ma esaltazione ed evoluzione della stessa in forme che, ormai, la razionalità umana non riesce quasi più a controllare e dominare. In questo, l’antropologia – e l’antropologia di Marc Augé – può svolgere un ruolo importante, perché è in grado di riconoscere la pluralità delle culture, ma anche i loro riferimenti comuni e le differenze interne alla singola cultura, per la costruzione di un nuovo umanesimo che emerga dall’addizione, dal confronto e dalla reciproca messa alla prova dei diversi modelli sociali. D’altronde, diceva ancora Marc Augé, «l’umanità non è in rovina, è in cantiere» (2003).

Dialoghi Mediterranei, n. 63, settembre 2023 
Riferimenti bibliografici
Augé Marc, 1991: Un etnologo nel metrò, Elèuthera, Milano.
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Augé Marc, 2000: Disneyland e altri nonluoghi. Il turismo e le sue immagini, Bollati Boringhieri, Torino.
Augé Marc, 2003: Rovine e macerie. Il senso del tempo, Bollati Boringhieri, Torino.
Augé Marc, 2004: Perché viviamo?, Meltemi, Roma.
Augé Marc, 2007: Il mestiere dell’antropologo, Bollati Boringhieri, Torino.
Augé Marc, 2009: Il metrò rivisitato, Raffaello Cortina Editore, Milano.
Bryman Alan, 2004: The Disneyzation of Society, Sage Publications, London.
Cerio Edwin (a cura di), 1993: Il Convegno del Paesaggio [Iᵃ ed. 1923], Edizioni La Conchiglia, Capri (Napoli).
De Martino Ernesto, 1977: Il campanile di Marcellinara, in Id., La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, Giulio Einaudi, Torino.
Douglas Norman, 1972: La Terra delle Sirene [Iᵃ ed. 1911], Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli.
Gugg Giovanni, 2003: Antropologia del paesaggio e storia di un territorio. Dagli usi tradizionali ad una proposta ecomuseale in Penisola Sorrentina, tesi di laurea, Università degli Studi di Napoli “Federico II”, Napoli.
Gugg Giovanni, 2015: Un altrove dietro casa, postfazione a De Angelis Antonino, Li Cuonti. La collina degli uccelli di passo, Edizioni La Conchiglia, Capri (Napoli).
Lai Franco, 1999: La Giara degli uomini. Spazio e mutamento sociale nella Sardegna contemporanea, CUEC, Cagliari.
Lai Franco, 2001: Antropologia del paesaggio, Carocci, Roma.
Morello Alessandro, 2018: L’industria turistica tra realtà e finzione, in “Dialoghi Mediterranei”, n. 29, gennaio: https://www.istitutoeuroarabo.it/DM/lindustria-turistica-tra-realta-e-finzione/
Ottieri Maria Pace, 2018: Il Vesuvio universale, Einaudi, Torino.
Ritzer George, 1997: Il mondo alla McDonald’s, Il Mulino, Bologna.
Riviére George Henry, 1977: L’Ecomusée, dattiloscritto, 20 aprile, archivio dell’Ecomusée de Le Creusot-Montceau.
Signorelli Amalia, 1996: Antropologia urbana, Guerini e Associati, Milano.
Teti Vito, 2004: Il senso dei luoghi. Memoria e storia dei paesi abbandonati, Donzelli, Roma.
Turri Eugenio, 1974: Antropologia del paesaggio, Edizioni di Comunità, Milano.

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Giovanni Gugg, dottore di ricerca in Antropologia culturale è assegnista di ricerca presso il LESC (Laboratoire d’Ethnologie et de Sociologie Comparative) dell’Université Paris-Nanterre e del CNRS (Centre National de la Recherche Scientifique) e docente a contratto di Antropologia urbana presso il Dipartimento di Ingegneria dell’Università “Federico II” di Napoli. Attualmente è scientific advisor per ISSNOVA (Institute for Sustainable Society and Innovation) e membro del consiglio di amministrazione del CMEA (Centro Meridionale di Educazione Ambientale). I suoi studi riguardano il rapporto tra le comunità umane e il loro ambiente, soprattutto quando si tratta di territori a rischio, e la relazione tra umani e animali, con particolare attenzione al contesto giuridico e giudiziario. . Ha recentemente pubblicato per le edizioni del Museo Pasqualino il volume: Crisi e riti della contemporaneità. Antropologia ed emergenze sanitarie, belliche e climatiche.

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