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Un altro sguardo: la Palestina vista dalla Tunisia

Sinagoga, Tunisi (ph. Chiara Sebastiani)

Sinagoga, Tunisi (ph. Chiara Sebastiani)

di Chiara Sebastiani 

Anni Sessanta e seguenti: gli ebrei tunisini e la decolonizzazione 

All’inizio degli anni Sessanta, poco dopo l’Indipendenza, il centro di Tunisi – la cosiddetta “città europea” o “città coloniale” – aveva una struttura simile a quella dei centri delle grandi capitali europei: un mix di spazi pubblici e edifici residenziali, negozi e uffici, viali alberati e un grande parco, cinema e teatri, librerie e gallerie, caffè e ristoranti, alberghi e ambasciate. Era tutto in stile coloniale e liberty. Ospitava una borghesia media e alta, tutta francofona. Sorgeva a ridosso dell’altro centro, il vecchio centro storico, ovvero la medina, parola che in arabo significa semplicemente città ma che veniva e viene tradotto con “città araba”, a distinguerla dalla “città europea”.

Nella città europea un viale fiancheggiato da alberi di giacaranda collegava il “corso”, quella che oggi è l’avenue Borguiba, con il parco del Belvedere. A metà circa di questo viale, che allora si chiamava avenue de Paris ed ora è stato ribattezzato (salvo una piccola porzione) shara al hurriyat, viale della Libertà, c’è un quartiere residenziale ancora conosciuto con il nome che gli hanno dato i Francesi: LaFayette. Era allora un quartiere elegante.

Sull’avenue de Paris sorgeva la Grande Sinagoga, un maestoso edificio bianco, con cupole in stile orientale, una scalinata sormontata da una cancellata di ferro battuto e una grande stella di Davide sul frontone. Quasi di fronte alla sinagoga la macelleria kosher. Poco lontano una piazza che ha cambiato nome tante volte: negli anni Sessanta era ancora piazza Giovanna d’Arco, poi è stata piazza d’Africa, dopo la rivoluzione piazza del Martire Mohamed Brahmi. Dietro la piazza un grande edificio ospitava una scuola femminile privata tenuta da suore francesi: ricopriva l’insegnamento secondario dalle medie al liceo. Le alunne erano prevalentemente cattoliche francesi e italiane ma c’era una piccola componente di tunisine, sia arabe musulmane sia ebree. In quella scuola alle adolescenti si faceva leggere il Diario di Anna Frank; nelle discussioni in classe le ragazze ebree raccontavano alle altre, spesso ignare, la persecuzione e lo sterminio degli ebrei.

Elhara, il ghetto ebraico di Tuunisi, 1893

Elhara, il ghetto ebraico di Tunisi, 1893

La Tunisia ospita una comunità ebraica antichissima di cui permangono tracce importanti nel suo patrimonio culturale. La più importante di queste è la sinagoga della Ghriba, sull’isola di Djerba, importante mèta di pellegrinaggio. Negli anni Cinquanta la comunità ebraica tunisina era stimata intorno ai 95 mila abitanti. Dopo l’Indipendenza, nel 1956, molti lasciarono il Paese ed emigrarono in Francia o in Israele. A capo della Tunisia indipendente c’era il carismatico presidente Habib Burghiba, eroe della lotta anticoloniale contro la Francia. Burghiba era noto per le sue posizioni moderate e pragmatiche: in contrasto con quasi tutti i Paesi arabi aveva consigliato ai Palestinesi di accettare la spartizione votata dall’Onu nel 1947 e il piano dei due Stati.

Bombardamento Hammam Chatt dall"Archivio nazionale digitale palestinese

Bombardamento Hammam Chatt, 1985 (dall”Archivio nazionale digitale palestinese)

Nel 1967 la Guerra dei Sei Giorni vede lo scatenarsi di violenti sommosse antiebraiche. Nella capitale vengono aggredite le abitazioni di ebrei, saccheggiati i loro negozi, vandalizzata la Grande Sinagoga. Burghiba lancia un appello invitando alla calma, convoca i rabbini e presenta loro le sue scuse, promettendo di punire i colpevoli. Cionondimeno molti ebrei lasciano il Paese considerato ormai invivibile per loro. Oggi nel quartiere LaFayette c’è ancora la Grande Sinagoga: circondata da filo spinato e cavalli di frisia e difesa giorno e notte da una postazione delle forze di sicurezza. C’è ancora la macelleria ebraica dove i clienti musulmani si servono fianco a fianco degli ebrei. Non ci sono più le suore francesi: l’edificio ora ospita una prestigiosa fondazione scolastica tunisina che alle elementari offre un insegnamento in lingua francese.

Nel 1982 la direzione dell’Olp, costretta a lasciare il Libano dopo l’attacco israeliano, si trasferisce in Tunisia e stabilisce il suo quartiere generale a Hammam Chatt, un tranquillo sobborgo marino a venticinque chilometri a sud della capitale. Il 1 ottobre 1985 la sede dell’Olp viene bombardata dalle forze aeree israeliane: il bilancio è di 68 morti, 50 palestinesi e 18 civili tunisini, più numerosi feriti. Oltre alle perdite umane e materiali, l’intervento di una potenza straniera in violazione del proprio territorio, della propria sovranità, del diritto internazionale e dello statuto dell’Onu, in mezzo alle proprie case e alle proprie famiglie, apre una ferita permanente nella memoria collettiva dei Tunisini. Su pressione di Burghiba l’Onu condanna l’intervento. Ma serve a poco. La posizione moderata di Burghiba, incline al negoziato, già contrastata dall’opposizione interna a cominciare dalla potente unione sindacale Ugtt, ne esce gravemente indebolita [1]. Due anni dopo, nel 1987, con un colpo di stato, Ben Ali estromette Burghiba e prende il potere. Sotto il suo regime dittatoriale le uniche manifestazioni che vengono ancora ammesse sono quelle a favore della Palestina [2]. 

Tunisi, Quartiere Lafayette (ph. Chiara Sebastiani)

Tunisi, Quartiere Lafayette (ph. Chiara Sebastiani)

2011-2021: la rivoluzione e la questione palestinese 

Poi, nel 2011, il popolo tunisino scende di nuovo per le strade. Non per reclamare la libertà della Palestina, questa volta, ma la propria. Ben Ali sarà anche un difensore della causa palestinese che sta a cuore di tutti i Tunisini ma ora il popolo ne invoca la caduta. Le strade si riempiono di manifestazioni non autorizzate, nelle periferie popolari vengono attaccate le sedi dell’odiata polizia di regime, simbolo di violenza e di arbitrio. Alcune centinaia di manifestanti inermi muoiono sotto il fuoco di poliziotti e cecchini mentre l’esercito si rifiuta di marciare contro il popolo. Ben Ali fugge in Arabia Saudita e nell’ottobre 2011 – con elezioni certificate come “libere, oneste, trasparenti” da centinaia di osservatori internazionali – viene eletta un’Assemblea Nazionale Costituente.

Nei dieci anni di transizione democratica si possono individuare tre momenti salienti che caratterizzano la questione palestinese vista dalla Tunisia e l’evolversi delle relazioni tra la Tunisia e Israele. Il primo momento è dato dal dibattito intorno alla nuova Costituzione. É significativo il fatto che la presenza della questione palestinese all’interno della Costituzione tunisina non venga nemmeno messa in discussione: il dibattito riguarda piuttosto i termini in cui la Palestina deve essere richiamata. Una prima bozza di Costituzione, pubblicata nel 2012, includeva nel suo preambolo il principio di solidarietà della Tunisia con gli oppressi di tutto il mondo, e «con i legittimi movimenti di liberazione ivi incluso il Movimento per la Liberazione della Palestina». A questo si aggiungeva il sostegno a «la lotta contro ogni forma di discriminazione e di razzismo … ivi compreso il sionismo» [3] Nella stesura finale della Costituzione votata nel 2014 il riferimento al sionismo come forma di razzismo è stato soppresso: resta solo il richiamo alla lotta di liberazione della Palestina e ad «ogni forma di colonialismo e razzismo».

Il secondo momento saliente è rappresentato dall’assassinio di Mohamed Zouari, un ingegnere aerospaziale tunisino, ricercato e rifugiato in Siria sotto Ben Ali, tornato in patria dopo la rivoluzione. A lui si deve la progettazione dei droni Ababil, utilizzati per la prima volta da Hamas nella battaglia di Gaza del 2014. L’omicidio viene quasi unanimemente attributo al Mossad, il governo israeliano non smentisce, la Croazia rifiuta di estradare il presunto assassino. Come nel caso del bombardamento di Hammam Chott, le masse tunisine non dimenticano. Ancora una volta il sentimento prevalente è quello di una ferita inferta alla propria sovranità e di un insopportabile doppio standard praticato dall’Occidente: esso garantirebbe l’impunità ad un atto che in altro contesto definirebbe terroristico

Teatro municipale di Tunisi (ph. Chiara Sebastiani)

Teatro municipale di Tunisi (ph. Chiara Sebastiani)

Il terzo momento si può ravvisare nel maggio 2021. A seguito dei raid israeliani su Gaza, manifestazioni a favore della Palestina si svolgono sull’avenue Bourguiba. Il premier Hichem Mechichi, a capo di un governo tecnico sostenuto da Ennahdha, ribadisce il sostegno totale della Tunisia alla causa del popolo palestinese. Per l’opposizione, in particolare per la sinistra, si tratta tuttavia di una posizione largamente strumentale: la causa palestinese serve a incanalare le proteste delle opposizioni su un obiettivo diverso dal governo il cui consenso è messo a dura prova dal combinato disposto della crisi economica e della pandemia. Era in corso, inoltre, una grave crisi istituzionale: il conflitto tra parlamento e presidenza si era coagulato in quello tra due figure emblematiche, il Presidente della Repubblica Kais Saied e il Presidente dell’Assemblea dei Rappresentanti del Popolo, il carismatico leader di Ennahdha Rashid Ghannushi. Nello scambio di accuse figurava anche, da ambedue le parti, l’accusa di perseguire la “normalizzazione” con Israele. “In Tunisia è tornata la Palestina” titolava il quotidiano Il Manifesto. Appena due mesi dopo, il 25 luglio 2021, Kais Saied, che doveva la sua popolarità tra i giovani anche alla sua posizione a favore della Palestina, considerata più intransigente di quella compromissoria degli islamisti e dei governi tecnici, estromette con un colpo di stato il governo e il parlamento e si aggiudica i pieni poteri.

Nel decennio di transizione democratica a guida islamista non si ricordano attentati a carattere antisemita, come quelli che nel 1985, poi nel 2002 e poi di nuovo nel 2023 hanno preso di mira la sinagoga della Ghriba. Al contrario in quel periodo il pellegrinaggio annuale alla Ghriba conosce un boom favorito dal ministro del Turismo René Trabelsi, lui stesso di origine ebraica e determinato a giocare la carta del turismo israeliano in Tunisia. Nello sforzo di separare la questione palestinese dai sentimenti anti-ebraici Ennahdha aveva offerto una candidatura alle elezioni municipali ad un esponente della comunità ebraica [4]. Quest’ultimo, dopo averla accettata, è stato costretto a rinunciare per le pressioni subite all’interno della sua comunità. Molti deputati, in particolare della sinistra, in occasione della nomina ministeriale di René Trabelsi, avevano accusato l’allora capo di governo Yousef Chahed (un governo tecnico sostenuto da Ennahdha) di «normalizzare le relazioni con Israele».

Osserva Majdi Karbai, deputato eletto all’assemblea parlamentare tunisina poi sciolta da Kais Saied, in un partito di stampo socialdemocratico, Attayar: «Colpisce che nessuno colga le contraddizioni della sinistra. Da un lato accusa Ennahdha di voler normalizzare le relazioni con Israele a danno della Palestina. Dall’altro lo accusa, per la sua vicinanza con i Fratelli musulmani, di essere un sostenitore di Hamas e del terrorismo». 

Tunisi

Tunisi

La questione palestinese dopo il colpo di stato di Kais Saied 

Potremmo aggiungere che anche buona parte dell’Europa non sembra aver colto questa contraddizione. Le cancellerie europee hanno accolto tutto sommato con favore il colpo di stato di Kais Saied che hanno evitato di definire tale. Hanno concesso al presidente tunisino una esplicita “apertura di credito” secondo le parole di Andrea Cozzolino – all’epoca presidente della Commissione europea per i rapporti con i Paesi del Maghreb – giustificandola con il presunto sostegno popolare di cui Kais Saied avrebbe goduto.

Nella sua ansia di sostenere il regime change in Tunisia l’Ue sembra non essersi nemmeno accorta del fatto che la comunità ebraica era assai meno entusiasta. Esattamente un anno fa, nel mese di ottobre 2022, il film Du TGM au TGV – un bel documentario sulla vicenda degli ebrei tunisini emigrati n Francia dopo la guerra dei Sei Giorni – è stato presentato a Milano a cura della Fondazione Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea. In quella occasione feci una breve intervista alla sceneggiatrice Sonia Fellous. Come vedeva la Tunisia dopo l’avvento di Kais Saied? «Come vuole che la vediamo, con un presidente che ha costituzionalizzato il non riconoscimento di Israele? Siamo molto inquieti». In realtà non è proprio così. Il Preambolo della Costituzione tunisina del 2022 (opera personale di Kais Saied, entrata in vigore dopo un referendum a cui ha partecipato appena il 28% degli aventi diritto) riprende la dichiarazione di sostegno alla lotta del popolo palestinese ma ne modifica un poco i termini. Adesso si legge: «Siamo attaccati alla legalità internazionale e ai diritti legittimi dei popoli all’autodeterminazione, in primo luogo il diritto del popolo palestinese alla terra di cui è stato spogliato e all’insediamento del proprio Stato su questa terra, dopo la sua liberazione, con Al-Quds Al-Sharif (Gerusalemme) come capitale». Un commento del Jerusalem Post [5] fa però notare che il riferimento alla terra rubata al popolo palestinese potrebbe essere inteso come una rivendicazione dei Palestinesi su tutto Israele.

Sinagoga, interno, Tunisi (ph. Chiara Sebastiani)

Sinagoga, interno, Tunisi

Voci provenienti dalla comunità ebraica manifestano altresì la loro inquietudine perché Kais Saie è appoggiato da partiti facenti capo alla corrente del nazionalismo arabo (Movimento popolare, Corrente popolare e Watad). Un ricercatore di Gerusalemme trova utile ricordare un dettaglio che sui media era passato inosservato: l’avvocato Chokri Belaid, assassinato nel febbraio 2013, conosciuto come un laico e fiero oppositore del movimento islamista Ennahdha (che l’opposizione accusò subito di essere mandante dell’omicidio) era anche a capo di un agguerrito comitato “anti-normalizzazione” [6]. E conclude che «islamisti e nazionalisti arabi sono ferocemente opposti su tutto fuorché su Israele». Ora sarà anche vero che islamisti e nazionalisti arabi su questo punto e questo solo vanno d’accordo, ma quello che l’Europa pare incapace di capire è che su questo punto si ritrova d’accordo la Tunisia tutta, al di là di tutte le divisioni politiche, sociali, regionali. E soprattutto al di fuori dello schema dicotomico laici/islamisti, filo- e anti-occidentali.

L’Ue, pur entrata in fibrillazione per il riferimento di Kais Saied alla “identità arabo-islamica” della Tunisia minacciata da una massiccia immigrazione subsahariana, ha continuato ad illudersi che il colpo di stato fosse servito ad eliminare il mal digerito governo d’ispirazione islamica uscito vincitore dalle urne nel 2011 e che dopo la Tunisia avrebbe assunto le vesti di un partner rispettabile, ovvero laico e modernista (qualunque cosa ciò significhi), soddisfacendo così gli umori islamofobi di una parte crescente dell’elettorato dei diversi Stati membri. Con il 7 ottobre si è evaporato questo miraggio: l’Europa viene di nuovo (era già successo ai tempi della rivoluzione) messa di fronte alla sua totale incomprensione dei sentimenti e dei giudizi del popolo tunisino. 

Partita di calcio in Tunisia, bandire dello StatoPalestinese

Partita di calcio in Tunisia, bandiere dello Stato Palestinese

Le conseguenze dell’azione di Hamas sulla politica interna in Tunisia 

Dopo il 7 ottobre in Tunisia, come in molti altri Paesi arabi, si svolgono imponenti manifestazioni di massa a favore della Palestina e contro Israele. Si mobilita in primis la società civile con in testa l’unione sindacale Ugtt (Unione Generale dei Lavoratori Tunisini) e la Lega Tunisina per i Diritti Umani. Scoppiano i mai sopiti umori anti-francesi, con la folla davanti all’ambasciata di Francia a reclamare la rottura delle relazioni diplomatiche. La relazione ambivalente, in termini non solo politici ma psicologici, dei Tunisini con i loro ex-colonizzatori francesi, si riflette normalmente nelle sue fratture sociali ma quando si tratta della Palestina l’intera società si ricompatta. Tanto più che la Francia ha vietato tutte le manifestazioni pro-Palestina: un atto che viene percepito come un passo ulteriore della deriva discriminatoria, razzista e islamofoba francese. Alle manifestazioni organizzate si affiancano quelle spontanee: quando viene bombardato l’ospedale battista di Gaza una folla furiosa si raduna dopo la preghiera del venerdì reclamando l’espulsione di tutti gli ambasciatori i cui Paesi sono solidali con Israele.

Messaggi di solidarietà provengono dal mondo del calcio tunisino: negli stadi si giocano partite sotto le bandiere palestinesi e striscioni inneggianti alle Brigate al-Qassam. Nel mondo dei media fanno sensazione le dimissioni del giornalista tunisino Bassen Bounenni dal canale della BBC “per problemi deontologici”, ha scritto sulla sua pagina Facebook senza dare ulteriori dettagli. Nel mondo dello sport, il messaggio di solidarietà ai palestinesi della tennista Ons Jabeur, gloria del tennis tunisino e beniamina del pubblico anche per il suo profilo di giovane donna emancipata, provoca la reazione stizzita della Federazione del Tennis israeliana.

In questo contesto paiono sgretolarsi i limiti ormai da tempo imposti dal regime di Kais Saied alla libertà di espressione e di manifestazione. Come negli altri Paesi arabi le manifestazioni vengono tollerate da governi autoritari, non perché servono le loro agende ma perché vietarle metterebbe a rischio il loro traballante consenso. Nel caso della Tunisia però – a conferma ancora una volta della sua peculiarità – il risveglio delle piazze potrebbe paradossalmente rafforzare il regime di Kais Saied il cui consenso negli ultimi tempi era in caduta libera.

Tunisi, Quartiere Lafayette (ph. Chiara Sebastiani)

Tunisi, Quartiere Lafayette (ph. Chiara Sebastiani)

«L’attenzione dell’opinione pubblica viene distratta dalla disastrosa situazione interna del Paese – dice ancora Karbai – In due anni in cui Kais Saied ha avuto i pieni poteri nessun problema è stato risolto. Ciononostante in questi giorni i deputati di questo nuovo parlamento pressoché privo di poteri hanno potuto aumentarsi di mille dinari l’indennità nella disattenzione generale e con molte famiglie alla fame». Per trarre profitto dalla situazione Kais Saied deve cavalcare l’onda del risentimento anti-europeo. Con un timing perfetto, il 9 ottobre restituisce i fondi dell’Ue versati una settimana prima sul conto della Banca Centrale Tunisina perché «questo metodo viola la nostra dignità».  

Se l’Europa ha puntato su un consolidamento del regime di Kais Saied sulla base della ricetta tradizionale di alleanze con governi autocratici purché stabili, il riemergere della questione palestinese cambia le carte in tavola. L’eventuale consolidamento del regime di Kais Saied offre poco all’Europa di che rallegrarsi perché riposa su una marea montante di umori anti-occidentali difficilmente imputabili agli islamisti i cui dirigenti sono da tempo in galera o comunque perseguitati. Trovano invece un sorprendente sostegno in quella intellighenzia tradizionalmente filo-occidentale, quella “borghesia laica e francofona”, fieramente avversa ai movimenti islamisti e per questo molto coccolata in Europa.

Fa una certa impressione vedere, all’indomani del 7 ottobre, i profili facebook di tranquilli intellettuali, professori, insegnanti, medici, giuristi, formatisi all’estero, nelle università europee e americane, riempirsi di contenuti pro-Palestina senza se e senza ma. Stupisce perfino chi conosce bene il Paese sentire persone colte, rispettabili, amanti dell’Europa che non solo manifestano il loro “disgusto” per la Francia ma – poste di fronte ad una domanda diretta su Hamas – esprimono senza mezzi termini il loro sostegno. Lasciano a bocca aperta i social media: non solo riflettono l’abisso che separa gli sguardi sulla Palestina tra le due sponde del Mediterraneo ma inneggiano agli eroi della guerriglia palestinese e sono attraversati da un improvviso risveglio dei valori religiosi in chi fino a poco tempo fa deplorava la politicizzazione dell’islam di stampo nadhaoui.

Se l’azione di Hamas dovesse stabilmente rafforzare Kais Saied, essa lo allontanerebbe al contempo proprio da quell’Europa che su di lui aveva scommesso. Il che dimostra ancora una volta come, imprigionata dai suoi schemi, ha capito ben poco della Tunisia e più in generale del mondo arabo-islamico. 

Tunisi, manifestazione Pro Palestina davanti all'ambasciata francese

Tunisi, manifestazione Pro Palestina davanti all’ambasciata francese, 17 ottobre 2023

Un altro sguardo: la resistenza culturale della Palestina 

D’altra parte, come potrebbe l’Europa capire il modo in cui la Tunisia vede la Palestina se per decenni ha pressoché ignorato la cultura palestinese, dedicandogli meno di un decimo dell’attenzione e degli spazi che invece ha riservato alla cultura israeliana? Dice ancora Karbai: «Non c’è solo la resistenza armata, c’è anche la resistenza culturale, oggi volta a salvaguardare il patrimonio culturale dei Palestinesi. Anche nelle piccole cose: un ragazzo palestinese ha aperto un ristorante a Brescia. Dice che vuol far conoscere i sapori del proprio Paese, è stufo di vedere gli israeliani appropriarsi di tutta la cucina araba e libanese, dall’hummus ai falafel!»

Da Tunisi la mia amica Kalthoum, con la quale ho visto in questi anni una nutrita serie di film palestinesi mai arrivati in Europa, mi annuncia l’annullamento della 34ema edizione delle JCC – le Giornate Cinematografiche di Cartagine, uno degli eventi culturali più prestigiosi e più amati dal pubblico tunisino. É arrabbiata e inquieta. «La ragione ufficiale del provvedimento è la solidarietà con il popolo palestinese. Ma non potevano invece cogliere l’occasione per fare più spazio al cinema palestinese? Temo che sia un modo per erodere ulteriormente gli spazi della cultura, già diventati molto stretti dopo l’avvento di Kais Saied».

La notizia mi lascia allibita. Chiedo a Karbai cosa ne pensa. «É una stupidata di Saied. Le JCC sono nate come festival di un cinema di resistenza, un cinema del sud del mondo. Dove vengono visti film fuori dal circuito commerciale. Il cinema palestinese ha conosciuto la sua fama grazie alle JCC.  Ha permesso di conoscere registi come Rashid Masharawi, Michel Khliefi, Elia Suleiman. L’anno scorso il Tanit d’oro per i corti è andato a un film palestinese intitolato Palestine 87». Karbai sa di cosa parla, si è laureato con una tesi sul cinema palestinese.

La Presse de Tunisie, il principale quotidiano francofono tunisino, da tempo diventato laudatore di Kais Saied come lo fu in passato di Ben Ali, dedica alla vicenda un editoriale di insolita durezza. Scrive Emna Soltani: «La direzione del festival ha cercato fino all’ultimo di mantenerlo in piedi … lo ha spogliato di tutti i suoi aspetti festivi come la cerimonia d’apertura e il red carpet, ha messo in prima fila il cinema palestinese. Piattaforma di un cinema indipendente che esprime cause giuste, le JCC dedicano da sempre una sezione intera al cinema palestinese, valorizzata come appuntamento fisso di tutte le edizioni. Questa edizione prevedeva uno spazio ancora maggiore per il cinema palestinese, non solo con la proiezione gratuita di grandi classici sull’avenue Bourguiba, ma invitando registi e cineasti palestinesi tra cui l’attore e regista Mohamed Bakri che al festival ha offerto la presentazione del suo ultimo film, Jenin 2023 in prima mondiale. Il festival è un atto di resistenza, atteso dal 7 ottobre da cineasti e amanti del cinema …» [7].

L’evento è così clamoroso da aprire numerosi interrogativi. Con la crisi palestinese potrebbero delinearsi scenari inediti. E non è detto che la ritrovata unità del popolo tunisino nella sua solidarietà con la Palestina vada necessariamente a favore di Kais Saied. 

Dialoghi Mediterranei, n. 64, novembre 2023
Note
[1] https://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1985/10/02/sei-minuti-inferno-sulla-tunisia.html
[2] https://ilmanifesto.it/in-tunisia-e-tornata-la-palestina
[3] https://journals.openedition.org/bcrfj/7352 
[4] https://www.lepoint.fr/monde/tunisie-presence-remarquee-d-un-candidat-juif-sur-une-liste-islamiste-29-04-2018-2214442_24.php#11 
[5] https://www.jpost.com/international/article-713311
[6] Samuel Ghiles-Meilhac, Tunisia’s relations with Israel in a comparative approach.  The case of the debate on normalisation during the Arab Awakening, Bulletin du Centre de Recherche Français à Jerusalem, 25/2014
[7] https://lapresse.tn/170665/annulation-de-la-34e-edition-des-journees-cinematographiques-de-carthage-les-jcc-ou-lart-de-resister/ 

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Chiara Sebastiani, sociologa, politologa, psicoanalista, è professore Alma Mater dell’Università di Bologna. Tra i suoi temi di interesse le politiche delle città, lo spazio pubblico, le questioni di genere. Ha vissuto e insegnato in Tunisia dove dal 2011 ha seguito sistematicamente le trasformazioni in corso, scrivendo numerosi articoli e un libro (Una città una rivoluzione. Tunisi e la riconquista dello spazio pubblico, Cosenza, Pellegrini Editore, 2014). Tra le sue altre pubblicazioni: La politica delle città, Bologna, Il Mulino, 2007 e La sfida delle parole. Lessico antiretorico per tempi di crisi, Bologna, Editrice Socialmente, 2014. Collabora a diverse riviste e webmagazines e lavora come psicoterapeuta a Milano.

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