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Temi e motivi medievali nella poesia italiana del Novecento (*)

Giosuè Carducci

Giosuè Carducci

 di Lucio Zinna

Venuto meno, nel tardo Ottocento, l’impulso romantico verso il Medio Evo quale età mistica, ma anche variamente carica di spinte passionali, si rendeva inattuale la contrapposizione, alle origini stesse di quel movimento, tra mondo greco-romano e mondo medioevale, tra ‘classico’ e ‘gotico’. Si dissolveva il tema del ritorno al M.E. quale privilegiato percorso nella ricerca di un approfondimento delle proprie origini spirituali, come nel protoromanticismo tedesco. L’inattualità era accentuata dalle nuove teorie positivistiche, che sollecitavano attenzione verso altri temi, quali, ad es., il rapporto letteratura-scienza, in particolare la nuova scienza: la sociologia. In quel periodo, tuttavia, non venne meno l’attenzione dei poeti nei riguardi del M.E., che finiva per porsi, in più casi e in maniera pertinente, come dimensione dello spirito. Subentrava una minore mole di riferimenti: uno sguardo talvolta occasionale ma non superficiale, che permarrà anche nel sec. XX. Né sguardi privilegiati né demonizzazioni (comunque, non è addebitabile al mondo letterario la sbrigativa considerazione della ‘età di mezzo’ come periodo di barbarie e di oscurantismo). I poeti che al M.E. si troveranno a riferirsi possono considerati legati, in varietà di visioni, dalla tendenza ad evocare figure, avvenimenti storici, prodotti artistici ecc. del mondo medievale, quali lectiones del gusto o dell’impegno esistenziale o della spiritualità. Etica, estetica e mistica sono tre linee, tre punti luce, che attirano i poeti dalla fine del sec. XIX a quella del sec. XX.

In tale percorso appare massiccia la figura del “vate della terza Italia”, Giosuè Carducci, peraltro inizialmente non immune da fascinazioni romantiche. Procedendo nel suo iter poetico, va liberandosi (non del tutto) dal classicismo, apprezzando, sul piano linguistico, la lezione dei trecentisti: «Non so come si rivelasse il trecento: certo non me lo appresero né mio padre né i miei maestri o compagni di scuola, ai quali parea barbarie. Il fatto è che a un tratto mi sorpresi innamorato dei trecentisti, non perché testi di lingua vecchia, ma perché testi nuovi dell’uso vivo di un popolo giovane, forte libero, quando aveva ingegno, fantasia, passione, e veracità e dignità, come non ebbe più mai» (Carducci, 1935-1940, v.XXIV: 45). Al mito classico egli va sostituendo il mito storico, come osserva Giambattista Salinari, avvicinandosi ai  poeti tedeschi, specialmente Heine, Goethe e Platen: «Questi lo guidarono alla scoperta della ballata romantica o romanza o, se si vuole, alla riscoperta di esse, che egli aveva conosciuto giovinetto in Berchet e in forma deteriore nel Carrer e nel Prati. Questa scoperta o riscoperta – nota ancora lo studioso – si può seguire nelle sue prime traduzioni dal tedesco […] e con le ballate tradotte, oltre che dal tedesco, anche dallo spagnolo, dal portoghese o dall’antico francese che furono poi raccolte in Rime Nuove» (Salinari, 1968: 659).

Nel 1885 compone La leggenda di Teodorico, l’anno successivo revisiona Faida di comune. Del 1888 è la mesta elegia di amore e morte ispirata al caso biografico del poeta provenzale Jaufré Rudel, che trattò nei suoi versi il tema dell’amore lontano, cantando, tra realtà e leggenda, di Melisenda, contessa di Tripoli, incontrata in quella città, che rimarrà per lui bella e inaccessibile. Si narra – ed è l’episodio cui il Carducci si ispira – che Jaufré si sia messo in viaggio per raggiungerla e che sia giunto a lei moribondo, ricevendone tre baci, primi e ultimi. Toccante la  conclusione del testo, poi confluito in Rime e Ritmi (1899). La raccolta contiene alcune composizioni epiche divenute famose: le romanze che rappresentano episodi e personaggi di vari fatti storici che assumeranno colore di leggenda, quali Sui campi di Marengo (in cui l’imperatore Federico Barbarossa si era ritirato dopo la sconfitta subita il sabato santo del 1175 ad Alessandria, di cui Marengo è frazione) e Il Parlamento, sulla figura di Alberto di Giussano, il capitano della Compagnia della Morte, che nel 1176, in un’assemblea tenuta in piazza, aveva  incitato i milanesi a combattere il Barbarossa: «“Vi sovvien”, dice Alberto di Giussano, / “La domenica triste degli ulivi “, / Ahi  passion di Cristo e di Milano». In Faida di comune, sulle lotte tra i pisani (ghibellini) e i lucchesi (guelfi) nel novembre 1313, si avverte quanto la Pisa medioevale affascini il poeta e quanto lo attraggano sia alcune figure di ambasciatori pisani, quali Banduccio di Buonconte, che seppe essere tanto eroico guerriero («tre ferite ebbe di punta, due di mazza alla Meloria») quanto giusto e pacifico cittadino, sia ambasciatori lucchesi quali Bonturo Dati (che Dante colloca tra i barattieri nel XXI canto dell’Inferno).

Nella stessa opera troviamo altresì le seguenti traduzioni/rielaborazioni: Il re di Thule, dalle “Ballate” di Goethe; La tomba nel Busento, dalle “Ballate” di Von Platen, quest’ultima sulla leggenda che vuole che il re goto Alarico, morto a Cosenza, fosse stato sepolto in una tomba scavata nel fiume Busento, all’uopo deviato e poi restituito al suo letto naturale; Il passo di Roncisvalle, mutuata da due romanze spagnole e una portoghese, sulla disastrosa rotta che i saraceni inflissero a Carlo Magno. Nelle Rime Nuove (1890) figura un’altra ballata, fascinosa per il movimento e per il ritmo rutilante: La leggenda di Teodorico, con la famosa strofa incipitaria: «Sul castello di Verona / Batte il sole a mezzogiorno, / Da la Chiusa al pian rintrona / Solitario un suon di corno, / Mormorando per l’aprico / Verde il grande Adige va: / Ed il re Teodorico / Vecchio e triste al bagno va». E mentre è al bagno, narra la leggenda, un “damigello” avverte il re di aver visto un bel cervo dalle corna d’oro. Teodorico salta dalle acque e ordina che gli si prepari l’occorrente per inseguirlo e catturarlo, quando gli appare all’improvviso un destriero nero e dagli occhi infuocati, che egli cavalca subito, non seguito da  famigli e cani da caccia, eccezion fatta per un fedele scudiero, che gli vien dietro a fatica. Il cavallo, forte e veloce, non accenna a fermarsi né il re può più scendere, percorrendo così monti e valli, fino a giungere davanti al mare di Lipari e alla reggia di Vulcano, nel cui cratere il destriero lo scaraventa.

 Giovanni Pascoli

Giovanni Pascoli

Non meno rilevante la figura di Giovanni Pascoli. Il poeta  traduce uno dei Canti popolari bretoni, intitolato La schiera di Artù, riducendolo in metro ‘pascoliano’ a effetto anapestico (in cui l’accento ritorna ogni terza sillaba per l’intera strofe).Vale la pena rileggerlo (prestando attenzione al ritmo): «Il fanciullo diceva al guerriero, / diceva a suo padre: “C’è nero / sui monti! / là tra la caligine scialba. / Oh! cavalli e cavalli e cavalli, // che passano in vista alle valli, / sui monti! / che rignano al freddo dell’alba. //  Tre per tre, tre per tre: cavalieri / che vanno su grigi corsieri! / son mille / le lancie [sic], che brillano forte. // Tre per tre, tre per tre, dietro nove / bandiere; ed il vento le muove / tra i mille: / un vento che vien dalla morte! // Tre per tre. Tra bandiera e bandiera /c’è un gitto di fionda. È la schiera, / la schiera d’Artù, / d’Artù che cavalca sui monti!” // “S’è la schiera d’Artù, qua saette! / se quella che va per le vette / de’ monti, è la schiera d’Artù, / qua Parco di frassino; e pronti!”».

Sempre dai Canti popolari bretoni è tradotta, o meglio ri-creata, la poesia Breus. Un fanciullo, Morvan, vive con la madre e la sorellina in un bosco della Cornovaglia. Un giorno incontra «un uomo tutto ferro», a cavallo, al quale chiede se fosse San Michele. L’uomo risponde che non è un santo ma un cavaliere e di chiamarsi Breus. Morvan domanda chi siano i cavalieri e resta affascinato dai brevi ma efficaci ragguagli che ne riceve. Dopo di che, monta sul suo ronzino e lo segue. Dieci anni dopo, in quel luogo e presso la stessa abitazione, ormai malmessa, si ferma un cavaliere, bussa e, alla vecchia nutrice che viene ad aprirgli, chiede di essere ospitato per una notte. Sopraggiunge una damigella che, alla vista dell’uomo corazzato, scoppia in lacrime e quando questi ne chiede il motivo, lei narra di un fratello, più o meno della stessa età dell’ospite, e della sua partenza improvvisa per farsi cavaliere, lasciando nel dolore la madre, che ne era morta. Il giovane impallidisce, riconosce la sorella e, affranto, si ritiene colpevole della perdita della madre: «O sorellina, io son pien di gloria / ogni giorno ho contato una vittoria: / ma se potevo indovinar quel giorno / che non l’avrei veduta al mio ritorno, / o sorellina non sarei partito! / o sorellina non sarei fuggito! / Oh! per vederla qui sul limitare, / per rivederla presso il focolare, / per abbracciare qui con te pur lei / le mie vittorie tutte le darei: / sarei felice, pur ch’a lei vicino, / di strigliar tuttavia quel mio ronzino!».

Ma riconduciamoci al Pascoli maggiore. In pieno Medioevo siamo con Le canzoni di Re Enzio (1908-1909). Re Enzo (Enzio, alla latina), figlio di Federico II (nato nel 1220 dalla relazione con la nobildonna germanica Adelaide) era detto ‘il Falconetto’ per la sua grazia. Amò, come il padre, la cultura, la caccia al falcone, le belle donne. Come condottiero, la sua valentia fu maggiore della sua fortuna. Sposò Adelasia di Sardegna e dell’isola sarda divenne re, rendendosi inviso a papa Gregorio IX, che mal tollerava un rampollo di casa sveva su quel territorio e infatti riuscirà, a tempo debito, a sciogliere il matrimonio, motivandolo con l’infedeltà del marito (Enzo si risposerà con una nipote di Ezzelino da Romano). Nell’opera pascoliana il re figura per la sua lunga lotta contro i Comuni lombardi, le imprese dei quali, in particolare quelle di Milano e del Carroccio e la battaglia di Legnano sono celebrate dal poeta, con vibrante ricostruzione di luoghi e ambienti e rapido incisivo tratteggio di personaggi. Nella battaglia di Fossalta (1249) Enzo fu sconfitto dai Bolognesi, che lo catturarono. Fino alla sua morte nel 1272, fu tenuto a Bologna, nel Palazzo del Podestà, in prigionia dorata e malinconica, durante la quale ebbe tempo e modo di divenire padre di due figlie naturali e di dedicarsi, con felici esiti, alla poesia.

La figura di Paulo Uccello – con la sua arte, la “divina” prospettiva, il suo francescanesimo – emerge statuaria ne I Poemi Italici (1911), il primo dei quali è dedicato al grande pittore toscano (gli altri due a Rossini e a Tolstoj). Mario Luzi pone in risalto, di questo poemetto, «la maestria episodica e quella verbale o meglio fraseologica non viziata per nulla dall’essere un poco arcaizzante perché di tale natura è lo spirito di semplicità che presiede all’incontro del poeta con il suo personaggio e non si tratta – precisa – di preziosità del gusto» (Luzi, 1968: 800).

Gabriele DAnnunzio

Gabriele D’Annunzio

Echi medioevali non mancano nella produzione di Gabriele D’Annunzio, benché il Romanticismo sia ormai alle spalle e nonostante l’attrazione del poeta verso la contemporaneità, non meno forte, comunque, di quella verso il passato. Un’opera narrativa, poco nota, che il poeta compose in lingua francese è Le dit du Sourd et Muet qui fut miraculé en l’an de grâce 1266. Di argomento medievale sono la Vita di Cola di Rienzo (1905) e i drammi Francesca da Rimini (1901) e, per la musica di Mascagni, La Parisina (1913). Per quanto attiene alla poesia, troviamo in Alcyone (1903) la splendida La sera fiesolana, con i riflessi dal Cantico delle creature di Francesco d’Assisi, in quanto a suggestioni formali: si pensi alle tre strofe di cui la lirica si compone, intervallate da un “refrain” francescano: «Laudata sii pel tuo viso di perla, / o Sera, e pei tuoi grandi umidi occhi ove si tace / l’acqua del cielo. // Laudata sii per le tue vesti aulenti,/ o Sera, e pel cinto che ti cinge come il salce / il fien che odora!; // Laudata sii per la tua pura morte, / o Sera, e per l’attesa che in te fa palpitare/ le prime stelle!».

Il Novecento letterario italiano, in più parti attraversato dal rapporto città-campagna, civiltà contadina-civiltà industriale, è dominato da contrapposte ideologie, dal nuovo mito (neopositivista) del progresso inarrestabile a quello del movimento, anzi della velocità, tipico del Futurismo, all’ansia distruttiva dei parametri espressivi della tradizione, che ha connotato le avanguardie storiche e le neoavanguardie. Il Medioevo è lontano, richiamato più spesso per il riferimento storico alla struttura verticistica del Feudalesimo. Comunque, distanti dall’epoca della quale discorriamo sono più gli storici e i sociologi della letteratura che non i poeti. Presenta, ad es., influenze dal Dies irae, il Laborintus del 1956 di Edoardo Sanguineti, autore già orientato verso una ricerca sperimentale e anticipatore dell’estetica del Gruppo 63.

Alessio Di Giovanni

Alessio Di Giovanni

Ma partiamo dall’inizio del secolo. Nell’anno 1900 il grande poeta dialettale siciliano Alessio Di Giovanni compone la nota ode Cristu, pervasa da un francescanesimo intensamente vissuto, in cui vibranti istanze sociali (in particolare per i carusi e i lavoratori delle zolfare) si accomunano al desiderio del poeta di relazionarsi al Nazareno al di là degli stereotipi sia del Dio punitore che di quello fatto oggetto di magnificazioni liturgiche. Pubblicato nel 1905, il testo è seguito l’anno dopo dalla pubblicazione de Lu puvireddu amurusu, poema giocato sulla contrapposizione tra mansuetudine e protervia, in cui il santo di Assisi e sorella Chiara sono collocati in Sicilia, in uno scenario agreste e in una visione mediterranea. Anche qui, motivazioni sociali si innestano a visioni paesaggistiche e si saldano agli empiti lirici e all’esaltazione dell’amore universale. Francesco è punto iniziale e terminale di un dialogo interiore, che dà senso alla vita e illimpidisce, scartandone gli orpelli, la stessa ricerca poetica. Autore delle Voci del feudo e della “surfara”, cantore della Valplatani, Di Giovanni, poeta culto, fece leva su una visione populistica, fatta di elementari strutture e mirata all’essenziale.

Con il Di Giovanni permaniamo in ambito verista. In quello crepuscolare, Fausto Maria Martini pubblica nel 1907, a Roma, la sua raccolta Panem nostrum, in cui spiccano un testo dedicato a Corazzini: Il rosario dell’anima e un Invito Francescano, rivolto dal poeta alla donna amata affinché abbandoni la città e lo raggiunga sul Terminillo, dove il «perfido gennaio» ha lasciato tracce di neve e la vita scorre «dolce e sincera», in un mondo fatto di piccole cose, in maniera implicita francescano. Ma anche esplicita, come si evince, ad es., dalle seguenti strofe, in cui è evidente l’influenza dei Fioretti: «Ora son certo che non ti rincresco, / se, parlando con te, soave amica, /  ov’è vera letizia anch’io ti dica, / come a Frate Leone San Francesco: // Pecorella di Dio, ecco già sento / che ti duole la troppa solitudine: / il mio giardino è triste, co’ suoi rudi / cespugli, come l’orto d’un convento. // […] // Sia fatta a molte pieghe la tua gonna, /  come di moda cinquant’anni fa, / senza merletti, senza falpalà, /  che non s’addice a una modesta donna … // Puoi, fuor della tua casa, per delizia / cogliere rosmarino e un po’ di fiori; / e se tornando a me, tutta ne odori, / pecorella di Dio, ivi è letizia! ».

Salvatore Quasimodo

Salvatore Quasimodo

Fra gli ermetici, troviamo echi medioevali nella poesia di Salvatore Quasimodo, con la sua Lamentazione di un fraticello di icona in Oboe sommerso (1932), con la delicata poesia Davanti al simulacro di Ilaria del Carretto in Nuove poesie [1936-1942], e con i sotterranei riferimenti danteschi sul tema dell’esilio (poiché sostanzialmente come tale il poeta percepì il suo trapiantarsi nel nord) in Vento a Tindari (da Acque e terre, 1930), in cui  il termine “esilio” è esplicitato tout court: «Aspro è l’esilio / e la ricerca che chiudevo in te / d’armonia oggi si muta / in ansia precoce di morire; / e ogni amore è schermo alla tristezza, / tacito passo nel buio / dove mi hai posto / amaro pane a rompere». L’aggettivo «aspro» riferito a «esilio» è mutuato dalle percezioni sensoriali gustative, come è «amaro» il «pane a rompere», che paiono richiamare i versi 57-58 del canto XVII del Paradiso, al «sì come sa di sale / lo pane altrui», mentre i successivi versi 61-62: «E quel che più ti graverà le spalle / sarà la compagnia malvagia e scempia» richiamano i versi  «molti mi devono lacrime / da uomo a uomo» della Lettera alla madre (da La vita non è sogno, 1949).

Giuseppe Ungaretti misura prevalentemente il M.E. sulle orme del Petrarca, da lui considerato il primo dei poeti moderni, lungo una linea che conduce a Mallarmé, che egli a sua volta considera il maggiore dei petrarchisti. Echi petrarcheschi sono altresì reperibili nella poesia di Andrea Zanzotto.

Eugenio Montale invece si rivolge al Medioevo sulla scia dell’Alighieri. Nel saggio dal titolo Dante ieri e oggi, in occasione del centenario del 1965, sostiene che l’autore della Comedia «non è un poeta moderno» (il corsivo è suo), essendo il nostro tempo connotato dalla perdita di centro, causata dallo sviluppo tecnologico. Nel poema dantesco, osserva Montale, in una commistione di temi metafisici e terreni, è posta in essere una «summa e un’enciclopedia del sapere», impresa oggi impossibile, per essere, il nostro, «un mondo in cui l’enciclopedismo non forma più una sfera, ma un immenso coacervo di nozioni provvisorie», che di fatto impedirebbe un itinerario simile a quello, irripetibile, del poeta fiorentino. Dante, «espressione di oggettivismo e di razionalismo poetico», resta estraneo alla civiltà contemporanea «soggettivistica e fondamentalmente irrazionale perché pone i suoi significati nei fatti e non nelle idee». La nostra civiltà, in continua espansione, dispersiva, è centrifuga, laddove Dante è un poeta «concentrico». Perciò non risulta facile, all’uomo di oggi, decifrare i segni dell’appartenenza a una civiltà complessa come la nostra, il che ci consentirebbe di avvertire Dante «stranamente vicino a noi», anzi «quanto più il suo mondo si allontana da noi, di tanto si accresce la nostra volontà di conoscerlo.» (Montale, 1976: 32-34 passim).

Eugenio Montale

Eugenio Montale

All’età di mezzo Montale si avvicina, indirettamente, anche attraverso una figura femminile, velata nello pseudonimo di Clizia, che è possibile intravedere in alcuni suoi testi (riconducibili a un limitato periodo della sua esistenza) e che egli stesso, in una lettera a Silvio Guarnieri del 1964, indica in Nuove stanze, Primavera hitleriana, Piccolo testamento, Palio, nonché nelle Sylvae e in Iride. Clizia era Irma Brandeis, conosciuta nel 1933: una ventottenne ebrea americana, elegante, discendente da antenati austriaci, italianista, studiosa del Medioevo e di Dante, ma anche del Futurismo. Aveva letto e ammirato gli Ossi di seppia e, desiderosa di conoscerne l’autore, era andata a trovarlo, a Firenze, al Gabinetto Viessieux, di cui egli era direttore. Fece colpo sul poeta (che aveva 37 anni), il quale invece, al primo incontro, apparve a lei più grande della sua età e piuttosto “piatto” e le sembrarono persino “stupide” alcune sue osservazioni. Poi rilesse gli Ossi e il fascino si riaccese. Ne nacque un’intensa relazione che durò fino al 1939. In quell’anno apparvero Le Occasioni dedicate “a I. B.” (cfr. Di Stefano, 2011).

Siamo alla vigilia della seconda guerra mondiale; nel 1938 erano state emanate le famigerate leggi razziali. Il poeta si era dimesso dal Viessieux non intendendo tesserarsi al partito fascista. La poesia Il palio evoca una partecipazione dei due alla tradizionale festa senese, di medievali ascendenze. Tripudio e clamore di folla non riescono a vanificare l’atmosfera cupa che domina, allusiva, forse, del grave momento storico. La donna mantiene un atteggiamento distaccato di fronte a quella brulicante manifestazione, come presaga degli eventi negativi che si preparano e che trovano risonanza nelle stesse condizioni climatiche: «l’odore di ragia e di tempesta imminente», il «tiepido stillare delle nubi strappate» ecc. La forza morale e la determinazione di lei appaiono come le sole ancore di solidità nell’incertezza, reale e metaforica, dell’insieme. Anche in Primavera hitleriana (ne La bufera e altro), che reca due date: 1939-1946, gli «occhi d’acciaio» di Clizia sono espressione di solidità, antinomica al “patto d’acciaio” Hitler-Mussolini, di cui la seconda data (1946) indicherà la sostanziale inconsistenza. Clizia quale elemento simbolico può correlarsi altresì, per alcune somiglianze e forse per maggiori differenze, alla figura di Beatrice e, come lei, salvifica, ma, nell’ottica montaliana, quale espressione della poesia, della speranza, non, in senso stilnovistico, quale scala al Fattore (prevale pur sempre in Montale la «divina indifferenza») (cfr. Coico, 2008).

Pier Paolo Pasolini si accosta al M.E. prevalentemente come regista cinematografico, con due scrigni narrativi del mondo medievale: dal Boccaccio Il Decamerone (1971) e da Chauser I racconti di Canterbury (1972). Con il successo di pubblico ottenuto con il primo inaugurò «un  sottogenere erotico boccaccesco» (Leporace, 2015: 129). Per quanto riguarda la scrittura – poetica, narrativa, teatrale – i riferimenti al M. E. sono fugaci. Edi Liccioli, nel suo saggio su “Bestia da stile: il mistero della poesia” (1995: 49), rileva una «libera rivisitazione dallo schema della sacra rappresentazione in La domenica ulivia» o la «massiccia introduzione di personaggi simbolici in quelle colte citazioni dei misteri due-trecenteschi che sono le serie dei dialoghi italiani e friuliani». Una riscrittura dantesca voleva essere l’incompiuta La Divina Mimesis (1975): un viaggio nel neocapitalismo, con peccatori del mondo moderno: i conformisti, i volgari, i cinici, i succubi etc., soprattutto i trasformisti. L’opera si pone come un Inferno in chiave autobiografica, in cui l’autore si «sdoppia in Dante e Virgilio, in una guida che cerca solo in sé la  propria guida» e quindi praticando in ciò il “trasformismo” (cfr. Marchi, 1995: 75).

Mario Luzi

Mario Luzi

Consistenti i riflessi medievali nell’opera di Mario Luzi, in cui figure dell’età di mezzo costituiscono perno anche di opere teatrali (teatro di poesia). Il Libro di Ipazia (1978) è incentrato sulla vicenda storica e psicologica di Sinesio, nominato vescovo di Cirene dopo le leggi speciali promulgate nel 392 dall’imperatore Teodosio contro i culti pagani in Egitto. Vi è rappresentata la cruenta morte della saggia Ipazia nel 415 per mano dei cristiani di Alessandria. Sinesio attende sgomento il preannunziato arrivo dei “nuovi barbari”, dei quali si sa poco. La crisi dell’impero romano e la mancanza di un potere politico centrale effettivo, capace di fronteggiare il pericolo, si innestano alla crisi della cultura greca classica. Una situazione angosciosa, che Sinesio supera con la fede, sull’esempio di Cristo, che non si sottrae all’evento doloroso che lo attende, nella considerazione di una “resurrezione”. A tale opera si affianca un altro testo teatrale, Corale della città di Palermo per Santa Rosalia, rappresentato nel 1989 dal Teatro Stabile di Palermo. La celebrazione della Santa romita assume connotazioni di “festa barocca” nella rappresentazione del ritrovamento delle ossa in occasione della pestilenza del 1625. Contrariamente alla tradizione, in cui la festa barocca era gestita dai rappresentanti del potere locale, politico ed ecclesiastico, nella Corale luziana è il popolo che se ne fa promotore: «è tutta una città che si inventa la sua Santa, è l’uomo che ha cercato dentro se stesso il divino», scrivono in proposito Lisa Rizzoli e Giorgio Morelli, i quali commentano: «In Santa Rosalia è presente la sofferenza della città di Palermo: la Sicilia non ha dovuto sopportare solo quella pestilenza, ma convive da sempre con molti altri mali. Luzi intende lasciare il senso di un augurio ai siciliani affinché riescano a liberarsi e a vincere il morbo odierno, la mafia, con quella stessa determinazione e fede con le quali debellarono la peste del 1625» (Rizzoli-Morelli, 1992:198).

Per quanto riguarda l’opera poetica, va posto all’attenzione il Viaggio terreno e celeste di Simone Martini (1994), poema di struggente intensità, reso ancor più fascinoso da un linguaggio modernissimo nei suoi risvolti arcaicizzanti. Il poeta immagina che il pittore Simone Martini, in tarda età e malato, sentendosi vicino alla fine, desideri tornare da Avignone, in cui vive ed opera (vi morirà nel 1344 ca.) a Siena, dove era nato (nel 1284 ca.), e che ad accompagnarlo nel viaggio siano la moglie Giovanna, il fratello Donato e la di lui consorte, anch’essa di nome Giovanna, oltre ad un ragazzo di bottega e ad uno studente, forse di teologia. La spinta a mettersi in cammino non è del tutto nostalgica, nascendo piuttosto da una motivazione spirituale. Colloquiando con i suoi accompagnatori, Simone va sostando sul proprio iter esistenziale, mentre si snodano aspetti fondamentali quali la complessità dell’essere umano, il succedersi delle generazioni, la vita e la morte (e il rifrangersi dell’una nell’altra), il fluire delle cose, il loro perire, il timore della caducità dell’arte (e della propria opera), la figura dell’artista, sospeso tra l’esaltazione scaturita dall’atto creativo e le difficoltà, a volte umilianti, della quotidianità, la ricerca assillante della verità e altri motivi di riflessione, illuminati da una superiore luce intellettuale. Un percorso al tempo stesso reale e metaforico, all’interno di se stessi e alla ricerca antica e nuova di fondamentali “perché”.

Giuseppe Zagarrio, siciliano trapiantato a Firenze, dove frequentò l’ambiente della prima generazione ermetica, acuto saggista, fu anche finissimo poeta. Nella sua silloge poetica Le ricamatrici della Kalsa, la cui prima edizione uscì nel 1958 sulla rivista “Quartiere” e riproposta nel 1992 dalla casa editrice iblea Cultura Duemila, vi sono plurimi riferimenti alla storia siciliana “nel suo ultimo millennio”.Un testo esemplare del ‘900 letterario siciliano, per ampiezza di visione, densità espressiva e maturità della parola poetica. La Kalsa è un quartiere palermitano, rinomato per il lavoro paziente delle sue ricamatrici, esperte nei tovagliati e negli arazzi istoriati. «Qui si immagina – nota il poeta – che ne ricavino brani, scene, immagini di storia siciliana.» I primi quattro testi (segnati, come i successivi, con numerazione romana e con titolazioni che fungono anche da protasi) riguardano episodi di storia medioevale:

I. Il re svevo e il suo momento felice: il suo falco e altri favolosi uccelli. Vi si accenna ad alcune affermazioni di Federico II in merito alla sua predilezione per la Sicilia nonché alla battaglia sulle alture dello Jato contro l’emiro ribelle Ban-Abed. In un intermezzo del testo il poeta ricalca moduli espressivi del Duecento cavalleresco e amoroso;

II. Amici e nemici di Federico. L’isola nel suo iniziale tramonto. Vi si accenna ad alcuni momenti drammatici o addirittura truci del regno fridericiano, quali la rivolta e la distruzione di Centuripe, la rivolta di Messina e la condanna al rogo del suo capo, Martino Bellino; il dramma di Pier delle Vigne e la fedeltà del vescovo Bernardo, che trasportò il corpo dell’imperatore scomunicato in terra consacrata, a Palermo;

III. I Vespri del 1282. Vi si tratta della celebre rivolta antifrancese scoppiata a Palermo, cui seguì una lunga guerra (“La guerra del Vespro”), economicamente disastrosa per l’isola;  

IV. Le parzialità baronali  e l’inizio del feudo siciliano, con riferimento (sulla base di un poemetto anonimo del ‘400 siciliano) a un fosco “caso di Sciacca”.

I rimanenti tre testi riguardano il tentativo rivoltoso di Gianluca Squarcialupo (1517), le tendenze illuministiche e democratico-socialistiche dei secoli XVIII e XIX, con riferimenti, via via, al “giacobino” Di Blasi e all’illuminato Vicerè Caracciolo, all’impresa dei Mille e a Garibaldi, salutato, per il decreto del 2 giugno 1860, dal popolo palermitano come un Arcangelo liberatore, mentre non molto tempo dopo, nei fatti di Bronte, Bixio soffocherà nel sangue la rivolta di alcuni patrioti che chiedevano proprio l’attuazione di quel decreto. Seguiranno le repressioni dell’esercito sabaudo contro i “renitenti” alla leva, con l’episodio del soldato Coppello, fustigato perché non rispondeva alle domande degli ufficiali (era sordomuto). Il VII “arazzo”, infine, si intitola “La Sicilia come metafora di ogni storia di popoli-vittime”.

Maria Luisa Spaziani

Maria Luisa Spaziani

Nel 1990 appare un poema di Maria Luisa Spaziani dedicato a Giovanna d’Arco, che l’autrice preferisce definire, in sottotitolo, «romanzo popolare in sei Canti in ottave e un Epilogo». Romanzo in versi, dunque  (ma “poema” è). Opera ispirata e dallo stile corposo, carnale. La storia della Pulzella d’Orléans è condotta, in perfetti endecasillabi, di moderno conio, di mirabile immediatezza ed eleganza, con fluida narrazione, suffragata da ricerche storiche e visite ai luoghi, mai venendo meno allo specifico: quello di essere un testo di poesia, una “fiaba storica”, non un saggio. Da Giovanna fanciulla al richiamo dell’Arcangelo, dalle imprese sui campi di battaglia al processo e oltre. “Oltre”, non fino al rogo, in quanto l’autrice adotta la tesi poco divulgata secondo la quale la Pulzella, mercé l’intervento di un misterioso personaggio (che è, poi, la moglie di un duca inglese, pronipote del cardinale di Bayeux, devota di S. Michele e immensamente ricca), è segretamente salvata dal rogo, mentre una “strega” (altra povera donna) è bruciata al suo posto. Dopo di che Giovanna convola a nozze con Roberto de Armoises, con il  patto di rispettare il voto di castità. Nel castello di Jaunly trascorrerà (anche dopo l’abbandono dello sposo, partito, senza ritorno, con l’alibi di un’inesistente crociata) gli ultimi anni da sola, con la servitù, sopravvissuta a se stessa.

Dal sorgere del monachesimo per opera di Bernardo di Chiaravalle, che si ritira a Subiaco, fino al crollo di Costantinopoli «dalle cupole d’oro», la visione del M.E. attraversa Il sogno di Pigmalione (ne Le Apoteosi, del 1993) del poeta palermitano Giulio Palumbo, che vi rievoca la vicenda di Castelsantangelo, le «cattedrali dipinte nel mistero», i «campanili slanciati verso il cielo» e i borghi, la coeva lotta tra Chiesa e Impero, le figure del menzionato Bernardo, cantore di Maria, dell’umile Francesco e altre santità. Più ampiamente Palumbo si ispira al M.E. nel poemetto (inedito) Per rifondare la città terrena. Qui appaiono figure di re e santi, di dotti ed eroine, di apostoli e fondatori, di artisti e di popolani, tutti volti alla costruzione, in chiave agostiniana, della città terrestre e celeste, in una compresenza delle due realtà, che crea un’armonia e un miracolo di bellezza e di luce. Si poté assistere, a quell’epoca, a un’Europa che, attraverso il sorgere di grandi spiriti immortali, pullula di cenobi e monasteri e si apre a quella cultura e fede cristiana che realizza un’alta civiltà e un susseguirsi di «secoli d’oro». Vetrate e portali, rosoni e libri d’oro, cavalieri  e vescovi, esprimono una ricchezza di pensiero e d’arte, di ideali, mai più così intensamente  presentatasi alla ribalta della storia. È un «mescolarsi del cielo e della terra», del dramma e della gioia, dell’ombra e della luce, che, secondo l’autore, riscatta e supera la «odierna  società vuota d’incanto».

In piena atmosfera medievale si immerge un altro poeta siciliano, Pietro Mirabile, con il poema La luce del Graal (1995), ispirato a leggende del ciclo arturiano. L’autore correla il mito del santo Graal, da un lato, a sotterranee, talvolta esoteriche, simbologie mariane, in un percorso mistico, dall’altro alla realtà odierna e alla sensibilità dell’uomo postmoderno. Nel genere epico-cavalleresco il testo va inquadrato, essendone rispettati alcuni canoni (spirito d’avventura e ‘maraviglioso’), mentre al tradizionale uso dell’ottava è sostituito il verso libero, filtrato attraverso le esperienze della poesia novecentesca, essenzializzato e talvolta ermetizzante, scevro da classicheggianti ampollosità, fino a rendere nuovo l’antico e antico il nuovo. Il narrare in versi tipico dell’epica, sull’asse lineare, non ne risulta depotenziato.

Il lettore è chiamato a districarsi tra segni e simboli, allusioni e ricorrenze numerologiche, mentre l’attenzione del poeta è, di frequente, rivolta a quanto di spirituale possa sfuggire nella dimensione della fisicità. La pregnanza etica del poema epico in generale e dei poemi del ciclo bretone in particolare è potenziata fino a squarci profetici e propaggini mistiche, rendendo il “racconto” mitico/mistico e il poema, ancor più che ‘epico’, ‘etico’: etico-cavalleresco, per così dire.  Il ricorso alla Trinità, ad es., è evidente nelle tre torri, mentre trentatrè anni, come quelli vissuti dal Nazareno, occorrono per edificarle. Tredici sono le stanze poste a baluardo delle celle predestinate al Graal.«Carlo come Cristo si circonda / del dodici perfetto» con riferimento al numero degli apostoli; la perfezione del dodici consiste nel suo essere multiplo di tre, mentre quando gli apostoli sono tredici, ne deriva il guaio che sappiamo. Non tutto è sempre decifrabile, trattandosi non di opera popolaresca, bensì culta e iniziatica, a scarsa valenza didascalica.

Di particolare rilievo il paesaggio, realistico e magico, che fa da sfondo alle vicende dei cavalieri della tavola rotonda, pronti «a prova di spada e di destriero». Monti e valli, boschi e campagne, fiumi e paludi, castelli e magioni, grotte e cunicoli, del mondo di Camelot, basterebbero a conferire aura di maraviglioso o a farne cornice, se non a fungere da succedaneo. La natura si fa speculum dello stato d’animo dei personaggi, ma anche espressione del divino, essendone fattura. E l’uomo, a immagine e somiglianza di Dio, tale immagine riflette nella natura, in una visione cosmica, di perenne circolarità.

Concludiamo questo, finora impraticato, percorso, necessariamente rapido, forse anche lacunoso, attraverso un secolo, conclusivo di Millennio, in cui si è assistito a un parziale allontanamento del pubblico dalla poesia (anche a causa di forzati successi e innecessarie cripticità), postasi tuttavia in posizione resistenziale e, per ciò stesso, consolidando la sua vocazione a una profonda ‘lettura’ dell’uomo e del mondo. Può apparire sorprendente come in un secolo tormentato, artisticamente irrequieto e sconcertante, percorso da sconvolgimenti (non solo) estetici, non sia stata affatto assente un’epoca ben definita, che appariva lontanissima, insospettabile, come quella medievale. Del resto nella storia degli uomini tutto passa e nulla passa invano. Ma quel che vale resta, a prescindere da clamori e silenzi, non di rado costituendo lievito per i tempi successivi. In questo senso, ogni epoca è “medio evo” di un’altra.

Dialoghi Mediterranei, n.16, novembre 2015
(*) Testo derivato dalla relazione, rivista e aggiornata dall’autore, tenuta il 4 maggio 1995 nel “XIV Colloquio Medievale” – Seminari su «Medioevo e creatività letteraria» – svoltosi nell’Aula dei Seminari dell’Officina di Studi Medievali di Palermo (marzo-maggio 1995), in collaborazione con la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Palermo e con la Biblioteca Francescana di Palermo, con il patrocinio del Ministero dei Beni Culturali e dell’Assessorato BB.CC. e P. I. della Regione Sicilia.
Riferimenti bibliografici
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Lucio Zinna, nato a Mazara del Vallo nel 1938, si è trasferito giovanissimo a Palermo, dove si è laureato in pedagogia nell’Università e dove ha operato fino al 2007. Vive a Bagheria. Ha pubblicato dieci raccolte di poesie, fra cui Abbandonare Troia (1986), Bonsai (1989), Il verso di vivere (1994), La porcellana più fine (2002), Poesie a mezz’aria  (2009), due di racconti e un romanzo-verità su Il caso Nievo (1980, 2006). I suoi interventi critici sul ’900 letterario siciliano sono in parte raccolti nel volume La parola e l’Isola (2007). Cura on line “I quaderni di arenaria”, collettivi di letteratura. Suoi testi sono tradotti in diverse lingue europee.

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