di Valeria Dell’Orzo
La morte, fra i momenti personali della quotidianità umana, è di certo quello meno privato. Il decesso, quale punto irreversibile, esclude lo spazio fattivo di un’azione capace di alterarne o invertirne l’esito, lasciando campo all’interiorizzazione corale di un condizione statica, immobile e immutabile.
Morire però non è solo un biologico deperimento o un fortuito incidente, può assumere anche la forma di volontà, che sia accusa, denuncia o resa, rendendone ancor più complessa la gestione sociale e personale. Sono oltre 800 mila i suicidi stimati ogni anno dall’Organizzazione Mondiale della Salute, uno ogni quaranta secondi, e la stima è chiaramente al ribasso, potendo includere i soli casi palesi e registrati come tali, con proporzioni purtroppo stimate in aumento nei prossimi anni. Sono numeri tali da giustificare l’inserimento del suicidio tra le principali emergenze sanitarie mondiali e ritenerlo una priorità della sanità pubblica. Osservare e studiare i meccanismi legati al suicidio è dunque un impegno imprescindibile nella lettura dei fenomeni umani, ancor più significativo alla luce del loro progressivo assottigliarsi sull’omologazione di principi e valori globalizzati.
Gli effetti della cultura sull’osservazione sociale degli eventi rendono impossibile risalire a dati certi e completi dei suicidi o dei tentativi falliti: troppi sono i casi che si traducono rapidamente in incidenti stradali, infortuni domestici e sul lavoro, distrazioni fatali di varia forma, ma che spesso hanno un nocciolo ben diverso dall’aspetto che si preferisce attribuirgli; e inoltre
«purtroppo una classificazione dei suicidi ragionati, secondo le forme e i caratteri morfologici non è praticabile per l’assenza quasi totale dei documenti necessari. Per poterla tentare infatti, dovremmo avere buone descrizioni di molti casi particolari. Occorre sapere in quale stato psichico si trovava il suicida al momento di prendere la sua decisione, come ne ha preparato l’attuazione, come l’ha posta in atto, se era agitato o depresso, calmo o entusiasta, ansioso o irritato, e così via» (Durkheim 2012:184).
Numerosi sono comunque i casi di plateale evidenza che smascherano proprio quelle responsabilità dalle quali la società vuole nascondersi: incuria, abbandono, miseria, disoccupazione, prevaricazione, ostentazione di traguardi troppo alti, sono solo alcuni dei fattori che concorrono al perverso gioco di inadeguatezza del singolo per la glorificazione della totemica immagine del vincente in questo mondo globalizzato, mediatico fino alla beffa ultima di un margine di cronaca nera dal sapore scandalistico.
Questa indipendenza sfacciata del singolo, l’interrompere la propria vita, colpisce violentemente la società che deve fornirsene una lettura accettabile e spiegarsene le ragioni nel modo più semplice e meno coinvolgente, attribuendo il più delle volte la scelta suicida a un’opaca volontà distruttiva dell’uomo, a un’esclusiva incompletezza, a una limitante debolezza del singolo, depauperando di responsabilità quella sfera di influenza sociale entro cui il soggetto ha maturato la decisione di scegliere la propria fine, le ha dato una forma progettuale e l’ha realizzata, respingendo sulla realtà circostante quell’implosione che lo ha ucciso.
Il suicidio, come incomunicabilità dichiarata o come conclusiva presa di posizione della soggettività verso una condizione oggettiva non accettabile secondo gli schemi socio-culturali di riferimento, genera un esteriore cumpatere, ma diviene al tempo stesso una colpa, un’onta, un peso etico per l’intera comunità che per reggerlo deve dunque inalvearlo nella surreale ermeticità di un singolo avulso dal noi.
Evento traumatico e destabilizzante per il tabù di innaturalezza che lo marchia, il suicidio impone alla realtà circostante di domandarsi perché, spinge a cercare una risposta che allontani quel gesto dalle proprie possibilità, che lo esorcizzi come forma espressiva di una condizione estrema che non ci appartiene, distante, estranea, avulsa appunto. Il suicidio è, nella sua poliedrica unicità, l’esternazione eclatante dell’inadeguatezza e al contempo della volontà ferrea di non sostenere ciò che per i propri modelli societari – e per la traduzione che ognuno ne fa – riproduce una condizione snaturata e inaccettabile, è la resa dell’io di fronte a un’antropopoiesi fallita, all’impossibilità di avvicinare se stesso all’immagine diffusa che per cultura ci rappresenta. Ma è anche l’oltraggio estremo verso quella realtà che si è fatta soffocante e insostenibile, il rifiuto di sottostare all’oppressione di sé, la resilienza sfinita dalla lotta con un potere mai logoro, con una vita inaccettabile. Il suicidio è il bozzolo più duro in cui l’individuo si avvolge separandosi dagli altri, è sconfitta ultima e estrema dignità dell’io, è stanchezza e furia, è il mutismo di un dolore incomunicabile che esplode nel prorompere della morte.
Quella suicidaria è una realtà innumerabile, capace di presentarsi con modalità ridondanti in punti lontanissimi per geografia e cultura, pur mantenendo un esclusivo ritaglio strettamente personale, un’unicità intrinseca, che ne ostacola la lettura trasversale. Scegliere di interrompere la propria vita, sceglierne le modalità, il luogo e il momento, è l’esito di un complesso percorso che si snoda in quello spazio liquido che regge l’io e il noi, frutto di una mente diffusa, quella che al contempo è del singolo e della comunità entro la quale l’insostenibilità del vivere si è delineata fino al suo compimento.
Fra le scelte personali che ogni giorno attraversano la vita di ciascuno, il suicidio investe con grande violenza emotiva il mondo esterno, la sfera pubblica, comunitaria, imponendo alla società l’accettazione passiva della volontà di un singolo, sviluppatasi proprio in seno a quel nucleo e della quale, quindi, l’intera società sa tacitamente di essere compartecipe o corresponsabile, ma mera spettatrice al culmine decisionale. L’approccio nei confronti del suicidio muta in base al sostrato socio-culturale nel quale viene agito, e un ruolo non marginale nella lettura societaria è svolto dalle religioni, intente a biasimare e ripudiare il suicidio, o osannarlo nelle sole specifiche forme sacrificali che lo epurano dal peccato che rappresenta; le letture religiose del fenomeno mutano così di luogo in luogo e attraverso i secoli.
Ritenuto come il più mostruoso e indicibile degli omicidi, l’omicidio di se stessi è stato stigmatizzato dalle religioni occidentali come uno dei peccati più terribili che l’uomo possa commettere, capace di commuovere e annichilire di sgomento, ma meritevole di punizione divina, essendosi ormai sottratto a ogni possibile punizione terrena, oltraggio alla volontà di Dio o lesa maestà della sua amministrazione terrena, scellerato uso del libero arbitrio ma anche insu- bordinazione a quell’ordine sociale che il Credo per cultura diffusa regge e impone. Diversa è la lettura che ne hanno dato l’Oriente e il Medio Oriente: stabilizzatosi come dignitosa fine o gesto di stimabile devozione nell’est del mondo, è invece oggi sempre meno accettato e formalizzato all’interno del mondo islamico, nel quale lo è comunque solo se agito in segno di devozione, come estrema e completa manifestazione di fede, al servizio del volere divino e dunque non per il bene personale, ma in forma di martirio per la tutela della propria comunità.
Tutto quello che ci circonda ci ripete di continuo cosa dobbiamo intendere come esistenza: così la mancanza del lavoro o di una stabilità affettiva, un distacco o una scomparsa che non trovano compensazioni, la perdita dell’immagine convenzionalmente vincente che giunge dal mondo esterno, possono divenire focolai di una assillante e urgente disperazione. Quando la vita così come ce la rappresentiamo non serve più e non è più sostenibile accettarla nella costante privazione di un’imprescindibile norma, si presenta il bivio ultimo tra continuare e arrestarsi. Si genera quel sé non collaborativo col quale Sennet ha indicato lo stato psicologico di chi al crescere delle disuguaglianze sociali si ritira dalle sfide e perde il desiderio di collaborare con ciò che lo circonda (Sennet 2014: 199).
Ma lo sprone del suicidio incalza anche dove l’appiattimento al canone globale non è arrivato o non ha fatto presa, è il pungolo dell’erosione, della privazione degli spazi vitali sacrificati in nome di un consumismo famelico, è il morire silenzioso degli indigeni privati della propria terra, che si immolano su quegli stessi alberi brasiliani che presto saranno sbranati dalle ruspe, corpi e piante, legati insieme da una corda e da un comune destino di distruzione, annichiliti dalla stessa invisibilità; è l’uccidere se stessi ingerendo volontariamente quei pesticidi che le multinazionali forniscono smodatamente alle sconfinate campagne asiatiche per assicurarsi produzioni massicce, avvelenando l’intero ecosistema e trasformando la vita rurale in una spasmodica catena di montaggio; è il morire non pubblicizzato delle aree desolate del pianeta, o sfruttate e colonizzate in cui uomini, suolo e risorse sono ridotti in schiavitù, quegli spazi lontani che quasi non avvertiamo come reali, quelle vite che ci appaiono tanto labili nella loro quotidianità da non suscitare la nostra attenzione neppure quando determinano volontariamente la propria fine.
Porre in esame la deriva suicidaria che attraversa il pianeta potrebbe forse contribuire alla promozione di una diversa concezione dell’utile e dell’indispensabile e alla culturalizzazione di modelli del vivere meno esasperati ed esasperanti, e finalmente più Umani.
Dialoghi Mediterranei, n.21, settembre 2016
Riferimenti bibliografici
Bauman Z., Danni collaterali, Laterza, Bari, 2014.
Durkheim E., Il suicidio. L’educazione morale, Utet, Torino, 2012.
Sennet R., Insieme. Rituali, piaceri, politiche della collaborazione, Feltrinelli, Milano 2014.
Violations of the rights of the Guarani of Mato Grosso do sul state, Brasil: http://assets.survivalinternational.org/documents/207/Guarani_report_English_MARCH.pdf
Organisation mondiale de la Santé, Centre des Médias. Suicide: http://www.who.int/mediacentre/factsheets/fs398/fr/
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Valeria Dell’Orzo, giovane laureata in Beni Demoetnoantropologici e in Antropologia culturale e Etnologia presso l’Università degli Studi di Palermo, ha indirizzato le sue ricerche all’osservazione e allo studio delle società contemporanee e, in particolare, del fenomeno delle migrazioni e delle diaspore, senza mai perdere di vista l’intersecarsi dei piani sincronici e diacronici nell’analisi dei fatti sociali e culturali e nella ricognizione delle dinamiche urbane.
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