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Sui pericoli della reificazione delle categorie. Per un’alfabetizzazione antropologica

collage_of_ethnic_groupsdi Dario Inglese 

L’antropologia culturale si trova da almeno mezzo secolo (se non di più) al centro di un rompicapo difficile da risolvere: nel momento in cui alcuni dei suoi “concetti guardiani” – cultura, etnia, identità, alterità – sono migrati fuori dal recinto disciplinare per fare capolino, con la loro aura di scientificità, nei discorsi mediatici, politici e del senso comune, gli antropologi hanno iniziato a fare sfoggio di prudenza. Hanno invitato ad un uso cauto di tali categorie, ne hanno fatto un’attenta archeologia, hanno ripensato il modo in cui essi, in primis, se ne sono serviti, si sono battuti affinché non venissero indebitamente reificate ed essenzializzate e, in certi casi, hanno anche suggerito di sbarazzarsene. Da tempo si assiste così a un fatto alquanto curioso: mentre gli antropologi si trovano parecchio a disagio a parlare di “cultura” o “etnia” – ben conoscendo, grazie alla loro pratica di campo, la problematicità di questi termini – fuori il loro successo non accenna a placarsi. Con un rapporto inversamente proporzionale, più questi concetti escono dall’universo discorsivo dell’antropologia meno essi appaiono credibili agli occhi degli scienziati!

Ora, si potrebbe a tutta prima additare l’antropologia di snobismo o accusarla, come del resto si è fatto, di essere vittima di una strutturale debolezza epistemologica che la rende incapace di produrre discorsi oggettivi e paradigmi robusti. L’accanimento contro i tropi che ha contribuito a legittimare e intorno ai quali si è accreditata come scienza, proprio nel momento in cui questi sono stati recepiti dagli altri saperi e dilagano nel discorso pubblico, insomma, dimostrerebbe l’immaturità degli antropologi e della loro disciplina. Ovviamente la questione è molto più complessa e sfumata: investe il contesto politico-sociale-accademico in cui l’antropologia culturale è nata e si è sviluppata, il suo peso intellettuale odierno, nonché la natura stessa del suo oggetto di studio (l’essere umano e i suoi prodotti) e la sua estrema variabilità, ovvero la sua spiccata storicità.

Mutevole e fluida come le comunità di uomini e donne che essa indaga fin dalla sua genesi, l’antropologia, sporcandosi le mani, si è ben presto scontrata con un dato di fatto: le categorie sono strumenti euristici fondamentali per leggere la realtà e tuttavia vanno maneggiate con grande attenzione avendo cura di non farsi irretire dai trucchi che, grazie ad esse, le comunità mettono in pratica – sovente senza nemmeno rendersene conto. Perché, come ammoniva Roger Keesing (1974: 88), i simboli – soprattutto i «simboli condivisi» – possono essere «magici»: hanno il potere di costruire e cementare l’identità di un gruppo e, allo stesso tempo, naturalizzandosi, di sottrarsi all’analisi cosciente. Tutti gli esseri umani sono, in certa misura, vittime di questo incantamento: costruiscono dei noi, tracciano confini e si distinguono dagli altri esagerando somiglianze e differenze e occultando la loro opera di categorizzazione. Isolando sul mappamondo “culture” ed “etnie” secondo una logica classificatoria, anche l’antropologia ha finito spesso con il credere alle sue stesse finzioni, subendo il fascino dell’apparente autoevidenza di identità nette e circoscritte da poter raggiungere e studiare.

Con la caduta delle illusioni scientifiche e politiche che ne hanno accompagnato i primi passi – crisi dei paradigmi fondazionalisti e disgregazione dello spazio coloniale –, l’antropologia culturale si è come risvegliata da questa fascinazione scoprendo di aver la coscienza un po’ sporca e richiamando tutti all’attenzione. Adesso che la vulgata corrente si è appropriata di “cultura” ed “etnia”, essenzializzandole fino a trasformarle in enti naturali cui richiamarsi politicamente nell’arena pubblica, l’antropologia si guarda allo specchio con un po’ di imbarazzo e sente la responsabilità di dire qualcosa: non per fragilità metodologico-epistemologica, ma per sensibilità e profonda esperienza. “Culture” ed “etnie” – ecco la lezione dell’antropologia contemporanea – sono in primis classificazioni, astrazione, discretum di un continuum indifferenziato: definizioni di volta in volta autorizzate da contingenti rapporti di forza (scientifici, politici, culturali, economici, etc.); concetti che, portandosi dietro stratificazioni storiche e incrostazioni semantiche impossibili da ignorare, tentano di interpretare realtà sociali complesse cui, secondo i punti di vista, si attribuisce (dall’interno o dall’esterno) un certo grado di somiglianza. Non sono realtà essi stessi.

In questa sede, la volontà di “dire qualcosa” si accompagna alla decisione di intervenire nel dibattito innescato dalle improvvide dichiarazioni del titolare del Ministero dell’Agricoltura, della sovranità alimentare e delle foreste in merito alla difesa della “cultura italiana” dalla minaccia di un non meglio precisato progetto di “sostituzione etnica”. Si tratta, invero, solo dell’ultimo di una lunga serie di episodi in cui concetti antropologici vengono utilizzati per rivendicazioni identitarie reazionarie e, cosa ancor più grave, per legittimare surrettiziamente, attraverso un uso strumentale dell’autorità scientifica, pericolose (e, per il momento indicibili, indicibili) posture neo-razziste.

La cronaca. Intervenendo al congresso del sindacato Cisal (18.04.2023), il titolare del Dicastero dell’Agricoltura ha affermato che il calo delle nascite in Italia va contrastato attraverso l’attivazione di un welfare cucito ad hoc sulle giovani coppie autoctone e che non debba essere in alcun modo bilanciato dall’arrivo di popolazione migrante. Non ci si può arrendere, ha testualmente chiosato il rappresentante del Governo, all’idea della “sostituzione etnica”. Travolto dalle polemiche per aver evocato una delle teorie del complotto [1] più in voga negli ambienti neofascisti, razzisti e xenofobi, il Ministro ha corretto il tiro, o almeno ci ha provato: «Credo che sia evidente a tutti che non esiste una razza italiana, è un falso problema quello di immaginare un concetto di questa natura. Esiste però una cultura, un’etnia italiana, che la Treccani definisce raggruppamento linguistico-culturale, che in questo convegno si tende a tutelare» (11.05.2023).

9788832902150_0_350_0_75Provo a isolare i punti salienti del ragionamento: 1) là fuori esistono entità, chiamate “culture” ed “etnie”, che si possono indicare tautologicamente come agglomerati di linguaggio e cultura; 2) l’esistenza di queste cose è certificata dall’autorità scientifica, in questo caso rappresentata dalla Treccani; 3) tutte le “culture” e le “etnie” hanno diritto ad esistere ed essere tutelate; 4) esiste, ovviamente, una “etnia italiana” o comunque una “cultura italiana”; 5) questa “cultura/etnia italiana” è in pericolo e va protetta. L’argomentazione – evidentemente viziata dall’ambigua formula “non sono razzista, ma…” – merita attenzione proprio perché rinvia ad alcune delle considerazioni precedentemente esposte: se il Ministro ha pensato di rendersi credibile pronunciando queste parole è perché negli ultimi decenni “cultura” ed “etnia”, dopo essere state benedette dal discorso antropologico, hanno assunto un’aura di neutralità che le fa apparire ovvie e non problematiche. Sono diventate, parafrasando Ugo Fabietti (2004: 10), «concetti spiega-tutto» in grado di rendere immediatamente conto della dialettica identità/alterità nello scacchiere transnazionale contemporaneo. I non antropologi, al di là delle loro posizioni politiche e del giudizio sul personaggio in questione, ci pensino onestamente: negherebbero a cuor leggero l’esistenza di una “cultura italiana”? E tutto sommato, al di là di un certo disagio dovuto all’uso di un termine ancora gravato da una cappa di arretratezza e premodernità, troverebbero così scandaloso aggettivare una comunità linguistico-culturale riconosciuta – financo la propria – come “etnica”?

Peccato però che tali concetti siano molto meno trasparenti di quanto si possa pensare a tutta prima e, soprattutto, che si portino dietro un bagaglio di indeterminatezza che non può essere sottovalutato. Così impiegate, infatti, “cultura” ed “etnia” sostengono, dietro il rispetto per le differenze, una posizione radicalmente differenzialista che suscita molte perplessità e contrasta con le più recenti acquisizioni della ricerca antropologica. Tale postura differenzialista, in particolare: a) reifica delle categorie interpretative fino a farne dei dati oggettivi; b) sopravvaluta l’omogeneità dei gruppi sociali riconducendola a tratti isolabili, ben definiti e stabili nel tempo; c) elimina la processualità delle costruzioni sociali/culturali ipostatizzandole; d) radicalizza le differenze e innalza muri di incomunicabilità confinando i noi e gli altri nei propri recinti culturali/etnici. E c’è di più: un tale atteggiamento evoca sinistramente, pur non nominandoli, fantasmi genetico-biologici – il sangue, la razza – che sembravano definitivamente esorcizzati, sconfitti dalla scienza e dalla storia.

Riflettiamoci: se il Ministro credesse realmente alla sua apparente retromarcia («Esiste […] una cultura, un’etnia italiana, che la Treccani definisce raggruppamento linguistico-culturale […]») perché mai dovrebbe preoccuparsi di una eventuale “sostituzione etnica”? Perché mai dovrebbe temere l’arrivo di stranieri che questa lingua e questa cultura potrebbero tranquillamente imparare e perpetrare? Evidentemente c’è qualcosa di più profondo, atavico, in gioco e, d’altra parte, anche una veloce analisi della voce curata dall’istituto Treccani – quella che, a quanto pare, il Ministro ha consultato per cavarsi d’impaccio – mostra quanto delicata sia la questione: 

«ETNIA – Nell’antropologia della fine del 19° sec., raggruppamento umano (dal gr. ἔθνος “razza, popolo”) distinto da altri sulla base di criteri razziali, linguistici e culturali. Tale definizione, tuttora impropriamente ma correntemente usata, è stata sottoposta a radicale revisione dall’antropologia contemporanea [2]». 

Insomma, che la posizione del rappresentante del Governo italiano sia ben lontana dall’essere innocente è testimoniata da almeno due fattori: aver citato una definizione vecchia di cent’anni espungendo per vergogna i criteri razziali dal novero dei tratti che fanno un’etnia; aver interrotto la lettura dopo le prime due righe… Ecco allora emergere un quid sostanziale in questo avventato pensiero sull’identità italiana che va sviscerato: indagato nei suoi presupposti ideologici, smontato nelle sue pretese analitiche e studiato nelle sue ricadute politiche – le quali, mi si conceda una rapida considerazione a margine, sono sempre più evidenti nei modi in cui l’attuale esecutivo tratta il dissenso o affronta il rapporto con le minoranze e le questioni migratorie.

Se c’è una scienza chiamata ad assumersi tale compito, questa è proprio l’antropologia culturale. A patto che abbia la forza di farsi ascoltare e sciogliere il rompicapo di cui sopra. A patto che venga ascoltata e non sia ridotta a macchietta da utilizzare strumentalmente. Accanto al significato classico di “cultura” (la cultura animi di matrice ciceroniana: l’accrescimento del sapere e della conoscenza individuale che metaforizza il significato del verbo latino colere estendendolo dall’agricoltura al campo delle relazioni umane), esiste un’accezione etnografica che risale almeno alla celebre definizione di Edward Burnett Tylor (1871): 

«la cultura o civiltà, considerata nel suo più ampio significato etnografico, è quell’insieme complesso che comprende il sapere, le credenze, l’arte, i principi morali, le leggi, le usanze e qualsiasi altra capacità e abitudine acquisite dall’uomo quale membro di una società». 

3Come argomenta Annamaria Rivera (2001: 79-80), l’operazione di Tylor è il punto di approdo di un lungo lavorio intellettuale che coniugava sensibilità illuminista – il Voltaire dell’Essai sur le moeurs et l’esprit des nations (1756) per quanto riguarda l’universalità della facoltà umana di simbolizzazione – e romantica – Johann Gottfried Herder per quanto riguarda, invece, il legame della Kultur al territorio. Tylor, in definitiva, pur mantenendone l’accezione cumulativa, fa di “cultura” «una nozione descrittiva e oggettiva, non valutativa»; le conferisce una «dimensione collettiva, acquisita e interiorizzata»; la articola in compartimenti ugualmente degni di essere studiati; la concede a tutti gli esseri umani. Da questo momento, atto fondativo dello studio scientifico dell’uomo, tale categoria diventa – pur tra tanti distinguo – il fulcro dell’intera impresa antropologica.

Agli inizi del Novecento gli antropologi relativisti americani, cresciuti alla scuola di Franz Boas, si distinguono per la pratica della ricerca sul campo e operano un ulteriore slittamento semantico del concetto di “cultura” rifiutando la logica scalare dei colleghi evoluzionisti. Il loro fine, infatti, non è più la ricerca di “sopravvivenze” da rapportare diacronicamente all’Inghilterra vittoriana (considerata l’apice evolutivo della civiltà umana tout court), bensì lo studio sincronico delle società umane. La “Cultura”, dopo il processo di democratizzazione istituzionalizzato da Tylor, si pluralizza e scompone in tante “culture”, ancorate a determinate porzioni di territorio, da indagare omeostaticamente senza alcuna pretesa gerarchica [3].

A sostenere l’azione di Boas e dei suoi epigoni erano motivazioni etico-conoscitive: 1) opporsi alle teorie dell’evoluzionismo sociale e mostrare la pari dignità di tutte le “culture”; 2) fare “etnografia d’urgenza”: registrare usi, costumi, miti delle popolazioni indigene che si stavano via via perdendo dopo il contatto con l’Occidente; 3) contrastare il discorso razzista che imperversava tra Ottocento e Novecento (e che avrebbe prodotto di lì a poco i ben noti orrori). Dietro questi nobilissimi scopi, tuttavia, si celava una strisciante ambiguità alimentata dalle strategie utilizzate per parlare di cultura/culture e dal dispositivo coloniale all’interno del quale quegli studiosi operavano.

Sulla scia del maestro Boas (il quale, d’origine tedesca, aveva in qualche modo introiettato la lezione herderiana sul “genio culturale” proprio di ogni popolo), infatti, i relativisti si concentravano su società circoscritte – viste come entità chiuse e dai confini ben definiti –, depositarie ognuno di una singola “cultura” – intesa come un sistema integrato di conoscenze, saperi, credenze e comportamenti. A tal fine essi esageravano le somiglianze intra-culturali e, simmetricamente, gonfiavano le differenze interculturali. Così facendo, “cultura” finisce ben presto per reificarsi in un’entità stabile, autoevidente e dal carattere normativo: si fraziona definitivamente in tanti isolati puri e omogenei e, parallelamente, il ruolo creativo dei singoli, al suo interno, viene oscurato dall’equilibrio e dalla coerenza del sistema.

Col tempo gli esiti di queste mosse teoriche non generano solo atteggiamenti progressisti fondati sul dialogo e l’apertura alle differenze, ma finiscono paradossalmente per ritorcersi contro i buoni propositi di quegli antropologi. Così pensata – irrigidita in una sorta di programma che indirizza senza appello le vite degli individui (culturalismo) e moltiplicata in frammenti incomunicanti (multiculturalismo) – “cultura” subisce un processo di «ritorsione» utile a legittimare quello che il filosofo Pierre-André Taguieff (1999) ha definito «neo-razzismo de-biologizzato»: il razzismo senza la razza. Se per il razzismo classico il destino degli esseri umani è inscritto nei loro geni, per il nuovo razzismo è scritto nella loro cultura.

Il relativismo, portato alle estreme conseguenze, non solo esagera artatamente la separazione tra le culture umane (recidendo i legami che storicamente le uniscono), ma finisce per cadere nelle stesse secche etnocentriche contro le quali era nato: sostenendo, con la scusa della difesa delle differenze culturali, la chiusura dei confini e le politiche di apartheid; legittimando le diseguaglianze in nome del rispetto delle differenze; alimentando politiche identitarie aggressive e “scontri di civiltà”; sostituendo al determinismo biologico un altrettanto pericoloso determinismo culturale fondato anch’esso su tratti atavici e primordiali. Insomma, un neo-razzismo al passo con i tempi che predica la difesa della diversità (astratta) per rifiutare, in un tragico paradosso, i diversi (in carne e ossa). Un «neo-razzismo simbolico» tanto pericoloso quanto difficile da scorgere perché nascosto tra le stesse pieghe del discorso antirazzista.

Il concetto di “etnia” ha una storia altrettanto tortuosa e, se possibile, ancora più ingarbugliata. Deriva dal greco antico ethnos, termine con cui i popoli ellenici designavano i raggruppamenti sociali che non appartenevano alla polis: i primi, infatti, erano contraddistinti da confusione istituzionale e affiliazioni basate su legami di sangue e parentela, mentre la seconda era lo spazio della legge e della cittadinanza. La nozione aveva un carattere evidentemente svalutativo: veniva utilizzata per indicare (e stigmatizzare) tanto i barbari che non parlavano il greco quanto quei greci primitivi (ad esempio i pastori) che non vivevano in villaggi e città.

1Come ha evidenziato Ugo Fabietti (1998: 29), tale «connotazione “difettiva” del termine ethnos si manterrà nella storia dell’Occidente sino all’età moderna» ed entrerà nel discorso delle scienze sociali in pieno Ottocento, l’epoca dei nazionalismi, quando “etnia” finirà con «l’assumere le caratteristiche di una “nazione per difetto” o di una nazione “diminuita”, “incompiuta”». Sarà ancora una volta l’antropologia culturale, però, ad avere un ruolo decisivo per la transizione del termine dal discorso scientifico a quello pubblico. Nel primo Novecento gli etnografi se ne serviranno per descrivere le realtà politiche “acefale”, “segmentarie”, “senza Stato” che andavano indagando in giro per il mondo al seguito delle amministrazioni coloniali – modus operandi, questo, in linea con le politiche di indirect rule nei territori d’oltremare –, mentre nel secondo dopoguerra lo sdoganeranno definitivamente sostituendolo a due concetti ormai inservibili: razza (squalificato dagli orrori nazisti) e tribù (decaduto dopo il crollo degli imperi coloniali) (cfr. Vereni 2023).

Come “cultura”, con il suo approdo nell’arena pubblica, anche “etnia” subisce un processo di reificazione/ipostatizzazione. Secondo la rigida logica differenziale cui si è già fatto cenno, infatti, essa passa dall’essere un “oggetto intellettuale” utile a interpretare alcuni fenomeni all’identificare «gruppi fittiziamente dotati di una irriducibile identità linguistico-storico-culturale» (Fabietti 1998: 59). Tale transizione, tuttavia, non liquida quella «connotazione difettiva», ancestrale e razzializzata ben evidenziata da Fabietti. La trasposizione di questa categoria nel discorso politico e del senso comune (o nel discorso scientifico non antropologico) ne accentua semmai l’oscurità semantica finendo col trasformarla in un concetto lasco abbastanza da poter essere usato per dire tutto e il contrario di tutto. Oggi essa riesce a «tenere insieme implicitamente il naturalismo di “razza” e le connotazioni politiche di “tribù”» (Vereni 2023). In altre parole, è in grado di rinviare tanto a supposti legami biologici che identificano un raggruppamento sociale (solitamente non inquadrato in strutture statali o minoritario nel quadro degli ordinamenti nazionali occidentali), quanto a un certo grado di coscienza politica (sebbene sovente immatura e poco consapevole).

Se così stanno le cose, non sorprende come “etnia” possa designare, senza alcuna contraddizione in chi se ne serve, sia gli altri primitivi che vivono in povertà lontano da noi, sia gli altri premoderni che arrivano da noi minacciando la nostra integrità fisico-culturale, sia noi stessi intesi come una grande, complessa ed evoluta “etnia” sotto assedio. Si prenda, ad esempio, una provocazione che ha fatto scuola negli ambienti dell’estrema destra europea, quella del Front National, il quale parla da decenni di “etnia francese” sfruttando abilmente la polisemia del termine: “siamo noi francesi”, affermano i militanti del partito transalpino, «la minoranza che deve affrontare un’orda straniera potenzialmente sterminata» – una rivendicazione, questa, che in Italia la Lega Nord ha declinato in chiave etno-regionalistica negli anni Novanta nel Novecento.

4Ecco allora come, all’interno del discorso differenzialista accettato e politicamente corretto [4], “etnia” si saldi a “cultura” per diventare un deposito di tratti originari e immutabili che accomunano un gruppo e lo distinguono nettamente da un altro. Ecco spiegato, inoltre, il loro comodo utilizzo quando si vogliono analizzare i “primordialismi” che, secondo la vulgata, alimentano i cosiddetti “conflitti etnici” negli altrove lontani e primitivi o nelle periferie ad alto tasso di immigrazione delle nostre città. Ed ecco spiegato, infine, perché “etnia”, legittimata da una certa congiuntura politico-scientifica, venga spesso introiettata orgogliosamente dai gruppi sociali – anche da quelli subalterni che, per molto tempo, sono stati sprezzantemente marchiati, in quanto minoritari e premoderni, come “etnici” – finendo per diventare la principale moneta di scambio nelle politiche dell’identità e del riconoscimento della contemporaneità.

Così utilizzate “cultura” ed “etnia” perdono la loro natura di strumenti euristico-intellettuali per diventare realtà granitiche e immobili; smarriscono il carattere processuale e storico dei fenomeni che intendono definire per somigliare a piazzeforti da presidiare e difendere. Attenzione però: evidenziare il loro carattere fittizio non vuol dire ridurle a gratuite astrazioni sganciate da qualsivoglia appiglio concreto. Tutti i raggruppamenti umani, lo si sosteneva prima, creano e ricreano incessantemente dei noi e, per chi le usa, queste categorie sono tremendamente vere. Vuol dire, piuttosto, riconoscere come esse indichino costruzioni sempre in movimento, sempre passibili di essere e farsi diversamente. La loro concretezza non è a monte: carattere tangibile di un oggetto naturale che viene semplicemente registrato. È a valle: precipitato di un determinato modo (storico, sociale, culturale, politico, economico, etc.) di segmentare il continuum del reale. Il fatto di identificare, di volta in volta, un “raggruppamento culturale o etnico”, allora, non è un’operazione illegittima di per sé: può essere frutto di sguardo esterno o di autodefinizione. Tuttavia, è un’operazione che «non autorizza a reificarne l’esistenza, a considerarle come cose, come realtà empiriche, fisse e immutabili» (Rivera 2001: 96).

Torno alle parole del Ministro dell’Agricoltura. Appare evidente come, al di là della scivolata complottista su cui è meglio stendere il classico velo pietoso, egli abbia rintracciato in un certo vocabolario dei termini apparentemente oggettivi con i quali ha creduto di rendere accettabili, se non formalmente inattaccabili, le sue affermazioni. Ma, dovrebbe essere ormai evidente, l’uso di “etnia” e “cultura” all’interno di certi discorsi non è scientificamente neutro, semmai politicamente interessato. Evocando la difesa dell’“etnia italiana” – contraddistinta da una “cultura” pura, chiusa e bloccata – il Ministro veicola l’immagine di un fortino sotto assedio e di una minoranza autoctona chiamata a difendere le sue tradizioni (ovviamente anch’esse immobili nel tempo) da un’orda di barbari alloctoni.

61tsohaactl-_ac_uf10001000_ql80_Ora, si potrebbe ribadire, come hanno già fatto molti attenti commentatori, che non esiste affatto una “etnia italiana”. Si potrebbe altresì argomentare che ciò che convenzionalmente chiamiamo “cultura italiana” nulla abbia a che fare con ambigui legami etnici fissati ab origine ed è al contrario il risultato perennemente in divenire di una straordinaria congiuntura storico-geografica che ha fatto dello stivale un crocevia di genti, idee, segni e simboli mai dati una volta per tutti, aperti agli apporti esterni e alle rielaborazioni interne e sempre passibili – accade, senza che ce ne rendiamo conto, ogni giorno – di mutare, scomparire, ritornare. Alla “cultura italiana”, insomma, si potrebbe applicare la bellissima metafora coniata qualche anno fa da Ulf Hannerz (1998: 6-7) per evidenziare quanto ricche e complesse le culture umane siano: 

«Quando osserviamo un fiume da lontano questo appare come una linea blu […] che attraversa il paesaggio; qualcosa che possiede una suggestiva immobilità. Ma allo stesso tempo “non ci si bagna due volte nello stesso fiume”, perché questo scorre in continuazione, e soltanto in tal modo mantiene la sua continuità nel tempo. Così accade per la cultura. Anche quando se ne percepisce la struttura, questa è interamente dipendente da un processo continuo». 

E si potrebbe far notare, infine, come le ricerche empiriche facciano a pezzi l’idea di un Paese, l’Italia, alle prese con una insostenibile pressione immigratoria e ne restituiscano, semmai, l’immagine di primo approdo e zona di transito. Forse, però, il miglior servizio che un antropologo possa svolgere in una situazione come questa è, come ho fin qui cercato di fare, lavorare sui concetti e le categorie: sulla loro storia, sul loro significato, sulla loro interpretazione e reinterpretazione, sulla realtà che producono fingendo solo di fotografarla. Con un obiettivo chiaro: rivelarne le aporie e scongiurarne le contro-finalità. Perché? In primis perché l’antropologia ha qualcosa da farsi perdonare; poi perché rimane indubitabilmente il sapere più esperto in questo campo; infine perché ha già visto “com’è andata a finire” (spoiler: male, molto male…) negli spazi [5] in cui ha prevalso un uso reificato di tali concetti.

5Il ragionamento del Ministro, infatti, utilizza “cultura” ed “etnia” come scuri identitarie (Noi Vs Loro) che mettono in forma un determinato modo di concepire i rapporti sociali e le differenze culturali. Si tratta, in ultima analisi, di un modus operandi tipico di quelle che Arjun Appadurai, uno che ha speso buona parte della sua carriera a smontare le interpretazioni primordialiste dell’etnicità, definisce «identità predatrici» (Appadurai 2005: 139): raggruppamenti, quasi sempre maggioritari nel quadro di uno Stato-nazione, che vivono nella «paura dei piccoli numeri», ovvero nel timore che le minoranze, soprattutto se alloctone (o considerate come tali), possano un giorno usurparne il potere ribaltando i rapporti di forza (ivi: 142). Queste identità, continua l’antropologo indiano, consultano compulsivamente i dati demografici, sono ossessionate dalla purezza e soffrono la consapevolezza di essere solo «una semplice maggioranza, e non un ethnos totale e indisputabile» (ibidem). Si tratta di raggruppamenti, frutto di rapporti di forza contingenti, che si coagulano intorno a una definizione sostanziale e primordialista del sé sociale che non appartiene solo a mondi lontani dal nostro (quelli storicamente etnicizzati dalla classificazione antropologica e dalla politica coloniale e post-coloniale), ma che è già emersa nel cuore dell’Europa nel primo Novecento e, ci mette in guardia Appadurai, rappresenta un rischio cui le stesse democrazie liberali non sono immuni (ivi: 147-153).

lsÈ contro un una tale postura che, come antropologi, dobbiamo scagliarci, denunciandone il dissimulato razzismo e i perniciosi risvolti politici: discriminazione, segregazione, violenza strutturale. Ugo Fabietti (1998: 170) ce lo ricordava citando il Claude Lévi-Strauss di Razza e storia: «quel che va salvato è la diversità, non il contenuto storico che ogni epoca le ha conferito e che nessuna può perpetuare al di là di sé stessa» (Lévi-Strauss 2002: 49). Considerazione, questa, cui si potrebbe affiancare la formula che chiudeva il celeberrimo Séminaire del 1974-75: l’identità è «una sorta di fuoco virtuale cui ci è indispensabile riferirci per spiegare un certo numero di cose, ma senza che tale fuoco abbia mai un’esistenza reale»; «un limite cui non corrisponde […] alcuna esperienza» (Lévi-Strauss 1996: 310-311). In tal modo, parafrasando il grande antropologo francese (ivi: 309), si può affermare che cultura ed etnia non stiano tanto nel fatto di postularle o di affermarle, bensì nel fatto – continuamente facentesi – di rifarle e ricostruirle attraverso un infinito gioco dialettico tra alterità e identità. E ricordare ancora una volta – repetita iuvant – che le categorie sono oggetti intellettuali e non oggetti reali, anche se finiscono con l’avere conseguenze concrete – sovente positive, sovente tragiche – sulla realtà.

Forse, come suggeriva Fabietti (1998: 20), i primi antropologi hanno davvero «lavorato per il nemico»: con la loro ansia classificatoria hanno contribuito a dividere il mondo in tante tesserine facili da studiare e da dominare. Tuttavia, hanno anche prodotto un fondamentale lavoro critico che va diffuso con ogni mezzo affinché il rompicapo da cui è partito questo ragionamento, da nodo disciplinare, diventi monito e slancio verso una sensibilità autenticamente aperta e plurale: per evitare che «gli errori compiuti […] nella comprensione degli altri spazi sociali» si ripetano ancora e ancora (Augé 1982: 126). Da questo punto di vista, l’immediata sollevazione provocata dalle affermazioni del Ministro lascia un briciolo di speranza per il futuro di questo Paese. Se non altro ha dimostrato che la “cultura italiana” è molto meno omogenea di quanto certi nostalgici credano o vogliano farci credere. 

Dialoghi Mediterranei, n. 62, luglio 2023 
Note
[1] La teoria della sostituzione etnica (Grande sostituzione) è una tesi di origine nazista che paventa la presenza di un disegno, in certe versioni della storia ordito dell’ebraismo internazionale, volto a favorire le migrazioni internazionali per rimpiazzare le popolazioni bianche euro-americane e creare una manodopera globale docile e sottomessa al soldo del Capitale.
[2] https://www.treccani.it/enciclopedia/etnia/
[3] Oltre oceano, in Europa, il funzionalismo britannico operava più o meno su coordinate simili. Tuttavia, a differenza dei colleghi statunitensi, i funzionalisti preferivano lo studio della “struttura sociale” concreta a quello dell’astratta categoria di “cultura”.
[4] Utilizzo il concetto di “politicamente corretto” in modo provocatorio mutuandolo dalla riflessione di Pierre-André Taguieff (1999). L’obiettivo è mostrare come il «razzismo culturale» contemporaneo giochi abilmente con il linguaggio antirazzista pressoché universalmente accettato e, in seconda battuta, far notare come, contrariamente a quel che si dice, l’attenzione alla politically correctness non sia appannaggio dei soli buonisti di sinistra eterofili.
[5] L’antropologia ha indagato i processi di formazione delle identità etniche evidenziando la tensione dialettica esistente autodefinizioni ed eterodefinizioni del sé sociale e mettendo in guardia dai pericoli di un’interpretazione sostanziale dell’etnicità. A tal proposito, emblematici sono i cosiddetti conflitti etnici deflagrati nella ex Jugoslavia e in Ruanda: in entrambi i casi una lettura primordialista dell’identità – rigidamente etno-nazionalista e insensibile ai legami storici tra i diversi gruppi nei Balcani; tribale e prodotta dalle classificazioni amministrativo-antropologiche di stampo coloniale nel paese africano – ha portato agli esiti tragici che purtroppo abbiamo imparato a conoscere. 
Riferimenti bibliografici 
Appadurai A. 2005, Sicuri da morire. La violenza nell’epoca della globalizzazione, Meltemi, Milano. 
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Fabietti U. 1998, L’identità etnica. Storia e critica di un concetto equivoco, Carocci, Roma. 
Fabietti U., 2004, Da idoli della tribù a idolo del foro: riflessioni sul concetto di cultura, in Achab, n. III: 9-13. 
Gallisot R., Kilani M., Rivera A. 2001, L’imbroglio etnico in quattordici parole chiave, Dedalo, Bari. 
Hannerz U. 1998, La complessità culturale. L’organizzazione sociale del significato, Il Mulino, Bologna (ed. or. 1992). 
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Dario Inglese, ha conseguito la laurea triennale in Beni Demo-etnoantropologici presso l’Università degli Studi di Palermo e la laurea magistrale in Scienze Antropologiche ed Etnologiche presso l’Università degli Studi di Milano Bicocca. Si è occupato di folklore siciliano, cultura materiale e cicli festivi. A Milano, dove insegna in un istituto superiore, si è interessato di antropologia delle migrazioni e ha discusso una tesi sull’esperimento di etnografia bellica Human Terrain System.

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