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Storia di una foto

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La foto restaurata da mia madre

il centro in periferia

di Linetta Serri

Se un giorno è come tutti, tutti sono come uno solo Thomas Mann

Sono giornate strane, tutti chiusi a casa. Un pericolo invisibile incombe su di noi. La TV ci inonda di notizie micidiali sulla terribile espansione del virus. Un crescendo di contagiati, gli ospedali si riempiono all’inverosimile di malati. E i morti sono così tanti, in brevissimo tempo, che i cimiteri non sono più in grado di ospitarli tutti. I camion militari che trasportano altrove la bare rimarrà in tutti noi come una delle immagini più spaventose.

Sono nella mia casa in silenzio e solitudine. I ritmi della vita quotidiana sono più lenti: è quasi primavera e una luce chiara e carezzevole annuncia che fra non molto arriverà l’estate. La memoria delle persone care che non ci sono più riemerge limpida, con dolcezza. Ricordare diventa un rifugio dolce e accogliente per evadere da questa clausura.

La foto di un gruppo di cacciatori dopo una battuta di caccia al cinghiale aveva il posto d’onore in una parete della casa di Armungia e nel cuore di mia madre, Erminia.

Era una delle rare foto del suo babbo, Giovanni Pili. Cacciatore esperto, capocaccia la cui fama si è tramandata nella memoria e nei racconti dei cacciatori Armungesi, che ancora oggi, a cena dopo una giornata a caccia nelle foreste di Murdega, ripercorrono le varie fasi della battuta appena conclusa e le confrontano con le altre di cui hanno sentito parlare.

Nell’ultima stagione di caccia grossa, Caccò, il barista degli ultimi stage di Antropologia Culturale degli studenti romani, allievi del professor Pietro Clemente, ha ucciso un cinghiale da una posta considerata difficile e qualcuno lo ha chiamato Giovanni Pili, come riconoscimento della sua bravura.

«Poi c’è la storia di Giovanni Pili, un balente che in vita sua di cervi, daini, cinghiali e mufloni ne ha ucciso a migliaia (lo chiamano il re di Murdega)» [1].

Mia madre aveva ereditato la foto in pessime condizioni, ridotta in due brandelli e perciò la spedì in un laboratorio di restauro a Firenze. Fu per lei una grande gioia vedere la foto restaurata, quando tornò in paese, dentro una rigida busta di cartoncino. «Un miracolo» diceva sbalordita, guardando e rigirando la foto fra le mani. Nel retro ci fece scrivere i nomi di tutte le dieci persone ritratte intorno ad un cinghiale di notevoli proporzioni, ed anche il nome del cane del nonno, Carabella [2].

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La copia genovesa della foto

Alla destra del suo babbo c’è un giovane Emilio Lussu. «Qui era studente» diceva la mamma che datava la foto al 1910. «Quando ero ancora studente ginnasiale – scriveva Lussu – e rientravo per le vacanze, una delle prime visite era quella al capocaccia, e gli proponevo l’organizzazione di una serie di battute: ed egli passava subito a tutti i preparativi necessari, in segreto, invitando solo quelli che riteneva dovessero parteciparvi, scartando gli attaccabrighe o i colpiti da influenze magiche, nocive all’andamento della battuta. Quando il numero era raggiunto, a suo giudizio, ogni altra candidatura non poteva essere accolta» [3].

«E questo, continuava mia madre indicando un altro cacciatore, è lo zio Ilario, uno dei tanti fratelli di mio padre, maestro delle scuole elementari: era uno che con gli amici si divertiva ad organizzare scherzi per spaventare la gente. Una volta, in piena notte, al buio, perché l’energia elettrica non era ancora arrivata in paese, uscirono per le viuzze a cantare il rosario in sardo. A sentire quel canto gli abitanti si rinchiusero dentro casa. “È la processione delle anime dei morti che fanno penitenza”, dicevano fra loro tremanti di paura.  Non è il pericolo che incute paura: è il mistero» [4]. Anche lo zio Ilario era un bravo cacciatore e spesso andava a caccia con mio padre, a Murdega.

La zona delle foreste e della caccia al cinghiale è situata sulla parte sinistra del Flumendosa, che divide il territorio comunale in due parti quasi uguali. Non c’era ancora la piccola passerella che oggi consente di attraversare il fiume e non c’erano neanche i tre grandi invasi a monte, che forniscono l’acqua a quasi tutto il Sud Sardegna, compresa l’area metropolitana di Cagliari.

Quando il Flumendosa è in piena, racconta Lussu, «non si passa se non a cavallo, ottimo nuotatore…io mi presi il gusto di una simile prova nel 1913, a ventitre anni. …Convinsi a venire con me, in groppa, il maestro elementare del villaggio, il mio vecchio maestro, gran cacciatore, patrizio. Era un pagano. A casa sua aveva un busto di Giuliano l’Apostata. Mangiasanti e mangiapreti. Era stato il terrore della parrocchia.  Con lui in groppa, affrontai il Flumendosa, con dieci metri di profondità d’acqua. Il cavallo era vigoroso, ma la corrente ancor di più, e questa ci spinse a valle. Il maestro fu colto da panico e si credette all’ultima ora. Si fece il segno della croce e invocò Gesù e Maria.  Il cavallo, dopo grandi sforzi, riuscì a portarci all’altra sponda, duecento metri più a valle. Il maestro uscì da quell’incidente trasformato e l’indomani andò a Messa. A differenza di Paolo di Tarso, che passò al Cristianesimo cadendo da cavallo, il mio maestro si convertì rimanendovi in sella. Diventato praticante, finì cristianamente la sua vecchiaia, a novantadue anni» [5].

La foto, di cui stiamo ricostruendo la storia, è opera di un figlio del maestro che, dopo il pensionamento, negli anni ’20 si trasferì con tutta la famiglia a Genova. Mia mamma e le sue cinque sorelle mantengono un canale di comunicazione con questi parenti, vengono scambiate lettere e fotografie e poi con il passar del tempo i rapporti si interrompono.

Negli anni Novanta due sorelle di mamma, zia Nennetta e zia Gesuina, quasi ottantenni, si recano a Genova e a passeggio per la città la loro attenzione viene attirata dalla scritta sopra un negozio “Foto Pili”. «Questi sono nostri parenti», dicono sicure guardandosi l’un l’altra emozionate, nonostante siano trascorsi molti decenni. In men che non si dica entrano. «Vogliamo parlare con il proprietario» dicono ad una ragazza che sta al banco. Questa le guarda un po’ sorpresa e chiama “papà”. Da una porta che dà verso l’interno viene fuori un signore sui sessanta anni d’età.

“Desiderate?”

“Noi veniamo dalla Sardegna”.

“Da dove precisamente?”

“Da Armungia”.

“Sedetevi”, le fa accomodare e chiede loro di aspettare qualche minuto. Non aggiunge altro e scompare.

Le zie sono un po’ perplesse. Poco dopo lo vedono ritornare con qualcosa in mano. Si avvicina, mostra una foto e indicando una persona dice «Questo è il mio nonno paterno, lo conoscete?» «È nostro zio Ilario e questo al suo fianco è nostro padre, erano fratelli».

E la nostra foto diventa il tramite per ricostruire legami parentali e rispondere alle tante richieste di notizie sul nonno e sulla sua vita nel paese natale da parte di Luciano Pili, il figlio di Emilio, l’autore della foto.

Le zie mi diedero l’indirizzo e qualche anno dopo, di passaggio a Genova, vado alla ricerca del negozio, sicura che avrei visto altre vecchie foto di Armungia e dei miei avi Pili. Ero certa che Emilio nel trasferimento a Genova si fosse portato via anche il suo archivio fotografico. Ma, amara sorpresa, il negozio è stato venduto. I nuovi proprietari non sono in grado di darmi informazioni.

Emilio Pili il fotografo, il figlio del maestro, era nato il 14 novembre 1890, coetaneo di Lussu, con il quale condivide, oltre il nome, anche il padrino di battesimo, Giuseppe Dessì, il segretario comunale, nella cui casa oggi ha sede il museo dedicato a Joyce e Emilio Lussu. Per gli Armungesi è sempre rimasta la “Casa del Segretario”.

Nel 1888 l’inglese Charles Edwardes, durante un viaggio in Sardegna, si reca ad Armungia e va in visita nella casa di un amico di Cristoforo, la sua guida in questa zona del Sud-Est dell’isola.  Cristoforo è descritto come un uomo avanti negli anni, un settantenne di San Vito, che ha due preziosi requisiti, conosce alla perfezione il territorio da visitare e, cosa più importante, ha amici e conoscenti in tutti i paesi, che lo accolgono e lo ospitano nel migliore dei modi. Queste due virtù mi fanno pensare ad una sorta di assicurazione sulla loro incolumità.

Nella casa dell’amico di Armungia vi arrivano «dopo un tortuoso girovagare tra altre abitazioni del posto… L’amico di Cristoforo ci salutò cordialmente e ci condusse nel cortile recintato dove era la stanza soggiorno nella quale fummo ricevuti…viene mandato a chiamare il Segretario, o funzionario comunale…Anche prima che il segretario giungesse, il vino era circolato abbondantemente. Quando egli comparve, svanì ogni speranza di moderazione. Ma quale riserva di allegria c’era ancora in lui! Il Segretario, però, era fatto d’altro stampo. In certi momenti era serio come un calvinista. Per essere un uomo di campagna non era persona incolta.

Citava Shakespeare e Dante e parlava con una certa competenza di altri argomenti ignoti al sardo comune. Beveva come un cavallo ma in modo molto distinto e mai senza fare un brindisi preliminare. Mi sono rimaste impresse due sue frasi: «E dunque, potendo scegliere di andare in qualunque parte del mondo, ve ne venite ad Armungia! Bene, vi assicuro che ci fa piacere!». Ed ancora, quando stavamo per lasciare quella casa, mi disse: «Amico mio, quando tornerete ad Armungia vi prego di cercarmi: nel cimitero. Lì mi troverete. Gettate qualche fiore sulla mia tomba!» Gli angoli della sua bocca si contrassero e le canne nere del soffitto echeggiarono una risata [6].

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La foto in possesso di Emilio Lussu

Ora torniamo alla nostra foto che ha trovato posto nel Museo Etnografico e nel Museo Joyce e Emilio Lussu. Nel 2016 una signora cagliaritana visita il sistema museale di Armungia, vede la foto di cui stiamo ricostruendo la storia, e informa il direttore di possederne una identica. Gliene spedisce una copia e il direttore nota con sorpresa che si tratta di una foto originale, senza il restauro di quella esposta al museo. Vengo informata e mi metto alla ricerca di questa signora e della sua foto. Sono curiosa di scoprire in che modo l’abbia avuta. Abita nello stesso palazzo dove, al primo piano, Emilio Lussu ha avuto studio e abitazione fino al 1926, in un grande appartamento in affitto, di proprietà della famiglia Aymerich, nel cuore del centro storico di Cagliari, in piazza Martiri.

È la casa che venne presa d’assalto dalle squadre fasciste nel 1926, poco dopo l’attentato a Mussolini a Bologna.   

«Il portone della strada fu sfondato e la breve scalinata, fino alla porta del mio appartamento, si riempì di uomini urlanti. Io avevo predisposto la difesa, nella previsione che la porta avrebbe ceduto subito. La porta non cedette. Avvisati da me che io attendevo armato al di dentro, i fascisti pensarono, dopo i primi sforzi, che non era obbligatorio esagerare nello zelo.

La colonna, che occupava la piazza, si divise in tre parti: una rimase a sostegno di quanti avevano invaso le mie scale; un’altra incominciò la scalata ai cinque balconi che davano sulla piazza; l’ultima girò alle spalle dell’edificio e tentò di penetrare in casa dal cortile. Un balcone fu raggiunto. Feci fuoco contro il primo che mi si presentò dinanzi. Il disgraziato precipitò giù. Il terrore invase la folla. In un baleno la piazza rimase deserta»[7].

Da quella casa Lussu venne prelevato e portato al carcere di Buoncammino. Dopo il riconoscimento della legittima difesa, il regime ne ordinò il confino a Lipari. Uscito dal carcere «fui condotto al porto. Mentre scendevo verso un canotto della polizia, una vela da pesca rientrava veloce, spinta dal vento. Mi passò di fronte, a pochi metri. Un giovane marinaio mi riconobbe, e capì di che si trattava. Con un salto, si portò alla prua e, ritto, gridò’: “Viva Lussu!  Viva la Sardegna!”»[8].

Lussu non fece più ritorno in quella casa ipotizzo che questa terza copia della nostra foto possa essere di Lussu, forse appesa nel suo studio. Quell’appartamento non ha mai cambiato proprietà e attualmente vi abita il prof. Carlo Aymerich. Gli chiedo notizie di questa foto. Mi assicura di non averla mai vista e di non saperne niente.

Nello stesso palazzo abita una mia amica. La informo sulla mia ricerca, anche lei non sa nulla della foto, ma vuole aiutarmi.  «Al secondo piano abita una mia cugina, Teti Piga, lei è la memoria della nostra famiglia ed anche del palazzo. Scendo, mi informo e ti faccio sapere».

Passano pochi minuti e via whatsapp mi arrivano due foto. Una è la scena di caccia, la nostra foto, l’altra è una cartolina postale, firmata da Lussu. Chiedo perché mi abbia inviato questo documento autografo. La mia amica mi informa che Teti, 86 anni, è la figlia di Renato Piga, di Senorbì, amico e collega d’università di Lussu, che utilizzò la foto come una normale cartolina, per mandare un messaggio al suo amico. Si tratta quindi del retro della foto con un bel timbro postale Armungia 17-12-1911. È indirizzata a Renato Piga- Studente Leggi-Senorbì.

1Il testo: «Renato carissimo, il 29 corrente passerò da Senorbì per proseguire a Torino. Mi farai cosa graditissima se ti farai vedere. Se credi intanto preparami quella lettera per Fantasia. Addio Emilio Lussu». (Sotto c’è un messaggio a firma G. Carboni. Si tratta di Giuseppe Carboni, un giovane Armungese, studente in Medicina. Diventerà docente all’Università di Cagliari in Olftalmoiatria e clinica Oculistica, con una breve parentesi di tre anni all’Università di Firenze) [9].

Nel 1911 Lussu interrompe gli studi universitari e va a Torino per il corso allievi ufficiali. Nella casa di Renato Piga a Senorbì Emilio Lussu troverà rifugio, inseguito dai fascisti, alla vigilia di Natale del 1922.  Poi le loro strade si dividono. Renato abbandona il PSd’Az e aderisce al fascismo. Fa l’avvocato ed è anche vicedirettore dell’Unione Sarda. Si è sposato e ha un figlio. Abita al secondo piano nello stesso palazzo dove ha la casa/studio Lussu, ma non hanno più rapporti.

Teti Piga mi fa sapere che, non appena sarà finita la clausura, mi vuol conoscere e mi invita nella sua casa, con regolare mascherina, raccomanda. Ha tante cose da raccontare e da farmi vedere.  Ed io non vedo l’ora. E finalmente ci incontriamo nella bella casa dei genitori, dove ha sempre abitato.

La nostra foto è sul tavolo al centro del soggiorno. Mi informa che si tratta di una copia, perché l’originale la possiedono altri parenti di Senorbì. Teti racconta che la mamma, Mimia Lostia di Santa Sofia, è in attesa del secondo figlio, quanto i fascisti tentano di entrare con la forza a casa Lussu.

Riceve una telefonata dal marito che le raccomanda di non aprire la porta di casa per nessun motivo Evidentemente è informato di quanto si sta preparando contro Lussu. Quando i fascisti bussano, lei apre e dopo aver sentito le loro richieste, vogliono dei bastoni o dei ferri, chiude immediatamente la porta, senza neanche rispondere.

 «Mamma ha sempre raccontato con orgoglio di aver sbattuto la porta in faccia ai fascisti, quando era poco più che ventenne. Ricordava molto bene le urla, le minacce e la paura provata» dice Teti.

Donna Mimia muore all’età di 103 anni, «sempre lucida, non ha mai dimenticato le ore concitate dell’assalto fascista. Lo ha raccontato anche a Giuseppe Fiori, quando stava lavorando al Cavaliere dei Rossomori. Papà era stato grande amico di Lussu. Festeggiarono insieme la laurea al Caffè’ Genovese, che stava qui vicino. Poi troncarono di brutto – sospira Teti – però, sai, quando morì mio fratello, nel 1952, giovanissimo, in un incidente con la moto, Lussu venne a trovare papà. Gli disse: “Davanti alla morte tutto il resto passa in secondo ordine” Avevano fatto anche la Grande Guerra insieme».

Teti interrompe il racconto e mi accompagna a visitare la casa. Mi mostra il quadro di Cannelles, che riproduce la casa dei nonni di Senorbì, con il bel patio, dove Lussu era di casa e dove è stata custodita a lungo anche la nostra foto. La cucina è uno degli ambienti più affascinanti. Mi sembra di tornare indietro nel tempo. Pareti intere ricoperte di pentole lucidissime, di ogni misura e dimensione, mi restituiscono visivamente la condizione di benessere e prosperità. Ed anche il rispetto e l’amore di Teti per la storia della sua famiglia.

Ora devo trovare la copia che le mie zie hanno visto a Genova. Ho l’indirizzo del negozio dove sono andata e consultando Internet e Google Maps cerco di rintracciare Luciano Pili. Scelgo, tra i tanti, quello che abita nelle vicinanze del negozio, c’è anche un numero di fisso. E inizio a chiamare. È sempre libero ma non risponde nessuno.  Pero è un segnale incoraggiante. Anch’io non rispondo agli squilli del fisso perché in genere vogliono vendermi qualcosa. Continuo a chiamare fiduciosa, quasi un rito.

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Emilio Lussu da giovane in divisa

L’8 maggio 2020 rispondono!  È la persona che cercavo: Luciano Pili. È il figlio dell’autore della foto e il nipote del maestro di Lussu. Novantaquattro anni, vive con la moglie Thea. Ricorda perfettamente la visita delle anziane zie sarde. Vivono soli e sono molto disponibili. Lunga chiacchierata, sono molto curiosi di avere notizie del paese ‘del nonno’.

 E scopro che il maestro è morto all’età di novantadue anni, nel 1949, così come aveva scritto nel 1957 Emilio Lussu in Oratio pro ponte, la petizione al Primo Ministro Zoli per avere un piccolo ponte sul Flumendosa.

Luciano ha trascorso molto tempo con il nonno, che in qualche modo ha sostituito suo padre che mori nel 1939, quando lui aveva solo tredici anni. Mia madre raccontava che lo zio Ilario era nato «senza una mano» e per questo motivo venne mandato a studiare, «non poteva lavorare nell’allevamento del bestiame». Chiedo a Luciano se questa informazione corrisponde alle condizioni fisiche del nonno.  «Si, il nonno aveva un moncherino invece della mano sinistra, ma aveva una grande capacità di lavoro con la sua unica mano. A Nervi, dove il nonno abitava, aveva un grande giardino, che curava personalmente e una parte era adibita ad orto. Coltivava di tutto, ma soprattutto le zucche, che poi utilizzava per costruire degli oggetti per noi bambini».

E così i ricordi della mia mamma trovano conferma nella esperienza diretta del nipote dello zio Ilario. Luciano Pili mi manda la copia in PDF della nostra foto giramondo, che iniziò nel 1911 a lasciare Armungia per andare, come una normale cartolina, a Senorbì. Negli anni Venti del secolo scorso se ne va a Genova. Poi negli anni ’50 viene spedita a Firenze per il restauro. E ora, dopo quasi cento anni, con i potenti mezzi della tecnologia ritorna in Sardegna.

Dialoghi Mediterranei, n. 45, settembre 2020
Note
[1] Da Il cavaliere dei Rossomori di Giuseppe Fiori, Einaudi Torino, 1985: 10  
[2] Da sinistra in alto, in piedi Emilio Lussu, Giovanni Pili, Ilario Pili, Peppiccu Pirastu Mereu, Giuanniccu Orrù, Vittorio Quartu; seduti Antonefisi Pili, Giovanni Usai, Vincenzo Pili, Ferdinando Piga.
[3] Da Il cinghiale del diavolo di Emilio Lussu, Ilisso Nuoro, 2004: 26
[4] ivi: 41
[5] ivi: 106
[6] Oratio pro ponte.
[7] Da Marcia su Roma e dintorni di Emilio Lussu, Einaudi Torino, 2014: 172
[8] ivi: 179                                                                                       
[9] Da “I quaderni dell’associazione SUSINI”, Cagliari: 101-106   
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Linetta Serri, nata ad Armungia, dalla quinta elementare si trasferisce a Cagliari per studiare. Ha insegnato Lettere nelle scuole superiori. Nel 1974 si iscrive al PCI e si occupa in prevalenza delle problematiche della condizione femminile e del settore servizi sociali. È stata responsabile della commissione femminile regionale. Viene eletta, nelle liste del PCI, al Consiglio Regionale della Sardegna per due mandati (1984-1994). Presidente della commissione ‘Diritti Civili’ ha condotto indagini sulla condizione minorile, sulle carceri e per l’applicazione della legge Reg. sul Corpo Forestale per l’ammissione delle donne ai relativi concorsi. Negli anni ’90 è Sindaco di Armungia per due legislature. Presidente dell’ANCI Sardegna e membro del Comitato delle Regioni a Bruxelles dal 2001 al 2009, dove è stata relatrice per l’Agenda Sociale Europea 2005-2010.

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