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Società delle minoranze multiculturali

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Ladini

di Matilde  Callari  Galli,  Gualtiero  Harrison

«L’emigrazione è antica come l’uomo. E l’universale storia dell’umanità si confonde, con le varie e differenti odisee delle altre precedenti alla nostra attuale Grande Migrazione: come l’ha chiamata H.M. Enzenberger nel 1992» [1].

«Le nostre mediterranee terre – e già da quattro, cinque millenni – sono state attraversate da così tante migrazioni che hanno segnato – con la nostra – la storia dell’umanità intera: Egizi e Fenici, Italici ed Elleni, Galli ed Ittiti, Celti e Slavi, Franchi e Longobardi, Arabi e Turchi.  E con le ondate talvolta repentine, e con le altre lente e progressive, chez Nous si sono installati, in forza della nostra specificità storica, popoli di differenti culture, lingue, costumi sociali e tradizioni politiche, rendendo l’Italia – e già da tanti e tanti secoli – un Paese pluralista delle genti differenti. I diversi andamenti demografici delle varie migrazioni hanno imposto sempre convivenze tra etnie e storie con loro tipicità e con loro organizzazioni che sostituivano quelle preesistenti con novelle forme di coesistenza: a volte nella integrazione giuridica, a volte nelle discriminazioni razziste. Già i più antichi popoli, gli Atavici dell’Italia pre-romana: quei Sabini e quei Sanniti, gli Irpini e a nord gli Etruschi e con loro i meridionali Lucani e Piceni, avevano praticato propri rituali migratori che talvolta potevano essere condivisi, ma assai più spesso essere di segno opposto e reciprocamente negantesi l’un l’altro. In un andirivieni confuso, l’avvicendarsi demografico è stato il destino del Mediterraneo;  e tali dinamiche hanno costituito la Civiltà, almeno nella concezione strutturalista di Claude Lèvi-Strauss: “La civiltà implica la coesistenza di culture che presentino tra loro la massima diversità e consiste persino in tale coesistenza”»[2].

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I Walser in costume

Diversità umana e pluralismo culturale

«Pur se nell’aspetto umano si distinguono solo una decina di parti o poco più, gli uomini son modellati in modo tale ché tra molte migliaia d’esseri non ne esistono neppure due che non possano venir distinti fra loro»: così argomentava sulla diversità umana Plinio il Vecchio nella sua Naturalis Historia del I secolo dell’Era cristiana. L’antropo­logo, nel moderno tentativo di comprendere la varietà fisica e psichica umana, ha radicato la propria interpretazione in un duplice assunto: quello del carattere universale della “civilizzazione umana” (che è il tratto comune e condiviso, e quindi assoluto, di tutta la specie), ed il differenziale particolarismo storico di ogni sistema socio-culturale (che è caratteristica universale di tutti i gruppi umani).

Per la teoria antropologica i molteplici aspetti della fenome­nologia culturale, che in ogni gruppo umano si ripresentano, assumono poi propri caratteri particolari per i vari popoli: tanto nelle forme della organizzazione sociale, giuridica e politica, che nei sistemi tecnologici della produzione e della distribuzione dei beni; ovvero nei convenzionali si­stemi della comunicazione e della registrazione di conoscenze e di credenze, o nei mondi valoriali e degli atteggiamenti e nelle cerimonie e nei culti religiosi che si son determinati storicamente, allo stesso modo che nelle espressioni artistiche, nelle tecniche corporali, e nei codici ritualizzati di comportamento.

Ci sono, quindi, somiglianze notevoli tra tutti gli esseri umani – e vengono chiamate in causa quando vogliamo dar fondamento al concetto di umana “natura”: ipotizzando un quid che starebbe a costituirci, in maniera unitaria, e a differenziarci da tutti gli altri organismi viventi; ma ci sono anche profonde distinzioni: e non solo quelle individuali, ma anche le altre proprie dei “gruppi di appartenenza”; e per le quali possiamo considerare ogni società come unica e diversa da tutte le altre.

I costumi d’ogni gruppo sociale, variando da epoca ad epoca e da regione a regione, trovano sempre le loro giustificazioni e legittimazioni all’interno di un proprio specifico contesto. A partire da tali assunzioni di base si è sviluppata la classica dottrina antropologica del relativismo culturale che ci richiede di travali­care la “tolleranza” delle alterità altrui, assumendo invece, come stile relazionale, il “rispetto” verso il pluralismo delle esperienze esistenziali e verso l’unicità idiosincratica delle forme storiche assunte dalle diverse culture nei vari Paesi (e così come vengono sopportate nella pratica dei valori professati da ogni singolo soggetto sociale).

Non c’è società che non abbia sperimentato la presenza di un pluralismo culturale al suo interno: perché in ogni gruppo umano – per quanto ridotto di numero e circoscritto in un territorio relativamente isolato – in ognuno dei tantissimi raggruppamenti che l’uomo ha creato lungo la sua centimillenaria storia, costan­temente le differenziazioni interne (per sesso, età, occupazioni, caratteri somatici e psichici) sono state codificate culturalmente ed hanno così, a loro volta, attivato esperienze e vissuti vari e diversificati. Per “società pluralista” s’intende però, nel mondo contemporaneo, quella qualificazione di complessità culturale che connota all’interno d’uno stesso contesto sociale, la compresenza di gruppi appartenenti a tradizioni culturali diverse che in passato erano vissute in reciproca separatezza essendosi sviluppate in modo indipendente le une dalle altre.

Questo è un modo di vedere rispetto alla “storia”, ma Bronislaw Malinowski ce ne suggerisce un altro: il Tertium Quid [3].  Incontrandosi tra esseri, a loro simili e diversi, gli uomini hanno disarticolato vecchi mondi e ne hanno articolato di nuovi, dando e prendendo le cose altrui e assommandole alle proprie – i  linguaggi, i costumi, i suoni, i ritmi, i cibi, gli dei – e riproponendoli alle generazioni a venire come un quid nuovo; e in questo frastagliato e fantasmagorico gioco del ricevere e del dare si è fatta, e si continuerà a fare la “storia”. E continueranno ad incrociarsi e a sovrapporsi popoli, culture, etnie, nazioni: e le loro identità. Malinowski ha proposto il tertium quid per offrire una «visione triadica del cambiamento» a seguito del contatto tra due realtà culturali differenti, indicandone gli effetti che si vengono a produrre in ogni total contact situation che avvia sempre nuove configurazioni storiche sui generis. È una nuova fenomenologia culturale la cui essenza precipua non consiste nel mescolare insieme gli elementi delle due culture venute a contatto, bensì nell’attivare un’entità nuova e “terza” rispetto alle precedenti.

È vero che si tratta sempre di una autarchia relativa e limitata a condizioni storiche che tendono a mutare nel tempo: per cui sempre, prima o dopo, si sono attivate contaminazioni, mescola­menti ed intrecci che hanno imposto, ad ogni gruppo, il contem­poraneo criterio della difesa dell’integrità e della propria speci­ficità – secondo criteri conservativi di “eccellenza” di una civiltà superiore, di “purezza” della razza, di “pulizia” etnica – ma che hanno anche imposto la gestione di un sistema relazionale che stabilisse í criteri per tenere insieme delle entità radicalmente differenti, ma contemporanee e conviventi.

In ambito di pluralismo culturale – nell’accezione che abbiamo appena cercato di chiarire – i rapporti interetnici ed interculturali, che vengono attivati dalla implosione dei popoli più diversi verso il Nord del mondo, La Grande Migrazione – ha prodotto nella seconda metà del XX secolo una “ideologizzazione delle minoranze”.  II colonialismo ha imposto per ognuno dei territori inglobati nel suo imperialismo la lingua coloniale; e dovremo puntare su questa colonizzazione linguistica quando vorremo integrare il migrante e soprattutto i suoi figli che diventeranno nostri per il colonialismo dello ius soli, e dovremo aspettare un’invenzione culturale che coinvolga e modifichi i loro e i nostri figli.

Non è solo per puntiglio disciplinare se l’antropologo deve ricor­dare che l’organizzazione tribale ha contrassegnato puntualmente i cambiamenti evolutivi della socialità umana, sin dai suoi primordi ed ha occupata tutta la terra. Le nazioni, invece, ci sono solo da poco: una manciata di secoli; e da allora si sono propagate sugli altri continenti. E, quando ha fatto “irruzione nella storia”, il concetto di nazione s’è opposto allo stesso tempo all’assolutismo del monarca e ai privilegi di schiatta; la Rivoluzione Francese ha creato, al grido di “Viva la Nazione!”, nuove rappresentazioni collettive: quella di una gerarchia sociale fondata sul merito personale e non più sulla nascita, e di una nuova concezione del potere fondato sulla legge comune e non più sul diritto divino. I rivoluzionari di due secoli fa non opponevano la “nuovissima qualità nazionale” alle altre qualità che servivano tradizionalmente a catalogare e distinguere gli esseri umani e quelli sociali. Come ha scritto Alain Finkielkraut: «Non era per fissare gli uomini alla loro terra nativa che essi li separavano anzitutto dai loro titoli, dalle loro funzioni o dalle loro discendenze, e che pronunciavano l’abolizione delle superiorità di nascita. Non era per dotarli di uno spirito particolare che disgiungevano la loro esistenza da quella della loro casta o della loro corporazione. Tutte le determinazioni empiriche venivano poste fuori giuoco, etnia compresa»[4].

Due secoli dopo, la società francese, e le altre società dell’Oc­cidente, si confrontano con la più rilevante sfida cui la storia contemporanea le sottopone: nel loro dover disporre rapporti di integrazione con i flussi d’immigrati che provengono dai territori dei propri ex-domini coloniali, e le cui rivendicazioni vanno “al di là dell’eguaglianza”, pretendendo che sia loro riconosciuto il di­ritto al mantenimento e alla tutela delle particolari e caratteri­stiche loro differenze.

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Gli Arbereshe in Sicilia, Piana degli Albanesi

Minoranza etnica: una parola-macchina

Mahatma Gandhi diceva: «Si può giudicare una civiltà dal modo in cui tratta le sue minoranze». Ma cosa è minoranza? E poi, anche: chi è minoranza? La definizione più accreditata, in sede ufficiale, di cosa sia da intendersi per minoranza è quella contenuta nel Rapporto Speciale della Commissione delle Nazioni Unite contro la discriminazione e per la protezione delle minoranze. Secondo l’elaborazione, fattane da Francesco Capotorti nel 1977 [5], con il termine minoranza viene designato un gruppo che è numericamente inferiore al resto della popolazione di uno Stato, in una posizione non-dominante, i cui membri, pur essendo cittadini dello Stato,  possiedono caratteristiche etniche, religiose o linguistiche che differiscono da quelle del resto della popolazione e mostrano, quanto meno implicitamente, un senso di solidarietà inteso a preservare la loro cultura, tradizioni, religione o lingua [6].

Per stabilire chi sia minoranza, è opportuno partire dalla concisa definizione di popolo elaborata da H. Gros Espiel per il V Documento delle Nazioni Unite su Le droit à l’autodétermination del 1979: «popolo è qualsiasi forma particolare di comunità umana unita dalla coscienza e dalla volontà di costituire una unità capace di agire in vista di un avvenire comune»[7]. Nella Dichiarazione Universale dei Diritti dei Popoli (proclamata ad Algeri nel 1976), e nella successiva Carta Africana dei Diritti dell’Uomo e dei Popoli (entrata in vigore nel 1986), si sancisce l’obbligo degli Stati a tutelare, oltre all’identità collettiva dei popoli, anche i diritti alla endogeneità culturale delle minoranze: e cioè i diritti a parlare la propria lingua, ad aver rispettate le proprie caratteristiche tradizionali e la propria specifica identità, e a poter disporre delle proprie ricchezze artistiche, storiche e culturali.

I soggetti di tali diritti non sono, però, né le minoranze e neppure i popoli: sono le persone appartenenti a tali entità che hanno il diritto di godere della propria cultura, di professare e praticare la propria religione e di usare la propria lingua sia in privato che in pubblico e senza interferenze od ogni altra forma di discriminazione. È stato questo lo spirito di Helsinki: cioè della grande assise diplomatica – che va sotto il nome di Conferenza sulla Sicurezza e la Cooperazione in Europa, che, tra il 1972 e il 1975, avviò il clima di distensione internazionale degli Anni Ottanta, chiudendo la Guerra Fredda e la contrapposizione ideologica Est-Ovest. Ma, circa trent’anni prima, era già stata anche la filosofia della Costituzione Italiana, quando, all’articolo 6 della nostra Carta, veniva dichiarato, in termini espliciti, che la Repubblica tutela con apposite norme le minoranze.

Ma a quali minoranze hanno inteso far riferimento i nostri Padri costituenti? Essenzialmente, se non addirittura unicamente, a quelle linguistiche. Quindi non in termini estensivi – cioè non a tutti quei gruppi che esprimono una comunità di condizioni e/o di intenti – ma neppure nei termini ambigui e generici, propri della dizione “minoranza etnica”: che rischia di apparire empirica, equivoca ed irrilevante, come lo è il concetto di razza al quale essa indirettamente si rifà.

Secondo quanto veniva scritto dalla Sottocommissione per la riorganizzazione dello Stato dell’Assemblea Costituente: le minoranze etniche sono state, a volta a volta, definite come minoranze di razza, di nazionalità, di lingua. In corrispondenza agli ultimi due concetti, si usa parlare di allogeni e di alloglotti. «Il problema – si aggiungeva nella relazione della Sottocommissione – viene ad assumere particolare figura là dove il gruppo minoritario si presenti con particolare consistenza e omogeneità; e le garanzie quindi assumono una determinazione locale; si hanno, in questo caso zone alloglotte cui si devono aggiungere le zone miste per popolazione, o, sotto il riflesso della lingua, mistilingui [8].

Il dibattito in aula portò l’Assemblea Costituente alla determinazione di garantire le minoranze linguistiche anche su un piano territoriale definito, che assuma la caratteristica di unità mistilingui e non di unità territoriali minoritarie. Come aggiunge Giuseppe Scalia, «all’Assemblea Costituente si convenne anche di non considerare le minoranze come enti di diritto pubblico non territoriali, perché soggetto di diritti sono i cittadini che costituiscono le minoranze, piuttosto che le minoranze stesse» [9]. Tullio Tentori – nella sua Relazione introduttiva al Seminario di Courmayeur su “Memorie e Identità: Prospettive nei Percorsi del Mutamento” del dicembre 1995 – ci ha ricordato che la composizione degli etnos varia continuamente: «Ogni etnia è una realtà precaria e limitata nel tempo, nel suo manifestarsi, nella sua composizione; e che d’altronde anche ogni maggioranza e ogni minoranza è un riferimento ad aggregati umani continuamente modificantisi (con tempi più o meno rapidi) nel gran giro della storia, e negli stessi tempi brevi di questa»[10].

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I croati in Molise

La tutela delle minoranze linguistiche in Italia

Minoranza etnica, per la indeterminatezza concettuale di ciò di cui l’etnico dovrebbe essere costituito, si ridurrebbe ad essere solo frase idiomatica che ci illude di una sua apparente fondatezza e concretezza, mentre invece è poco più di un modo di dire che unisce insieme due termini entrambi e reciprocamente provvisori ed incerti. Alcuni antropologi, tuttavia – come, ad esempio, Arnold L. Epstein [11] – hanno proposto di considerare i legami etnici non in termini oggettivi, ovvero naturalistici, ma nella dimensione emica del vissuto e delle rappresentazioni a cui i membri del gruppo si riferiscono quando esprimono i loro sentimenti di appartenenza e il loro attribuirsi una identità. È certo che, mentre nel dopoguerra, si era pensato che i legami etnici dovessero finire con l’essere assorbiti da nuove e più estese reti solidaristiche – ad esempio, avrebbe detto Franz Fanon, quella dei dannati della terra [12]: e cioè la classe lavoratrice e sottoproletaria, e/o marxista e rivoluzionaria, dei Paesi del Terzo Mondo – dopo mezzo secolo, invece, gli etnicismi sopravvivono e mostrano anzi, nella loro cosiddetta ricomparsa, inaspettate forme di revivalismo.

Il valore euristico del concetto di identità etnica consiste proprio nel rendere l’etnos una forza aggregativa e di resistenza al cambiamento (contrastiva la paura del cambiamento) che è indotto dai processi di modernizzazione. Cioè, gli etnos compaiono in forme nuove e rivitalizzate dagli etnicismi, proprio in quanto gli stili di vita delle tradizionali culture locali, e le strutture della personalità dei loro membri, appaiono minacciate dalle radicali trasformazioni epocali: la interdipendenza planetaria, il villaggio globale, i processi di omologazione delle specificità storiche alla universalità di una nuova cultura mondiale.

L’antropologo Christian Giordano [13] si è interrogato se gli Stati nazionali europei contemporanei, con le loro specifiche modalità, che definiscono la cittadinanza oppure le loro acquisizioni, siano effettivamente in grado di gestire i problemi delle minoranze. La domanda non è affatto oziosa soprattutto se ci ricordiamo che gli Stati nazionali (europei) sono nati come organizzazioni politiche di società che presumevano la loro omogeneità etnoculturale (e linguistica). Naturalmente questa convinzione – come ci ha ricordato ancora Giordano – era spesso il risultato di una vera e propria invenzione costruita su rappresentazioni mitiche. Negli ultimi decenni, inoltre, a causa degli etnicismi, spesso veri e propri movimenti separatisti o isolazionisti, e con la concausa de La Grande Migrazione, è venuta a disegnarsi una mappa europea che ha ben poco a che vedere con quella dell’epoca in cui si formarono gli Stati-nazione attuali.

In tale contesto qual è la caratteristica d’un discorso etnico sulle italiche minoranze linguistiche interne? Perché, come crediamo, questo confuso discorso ha inciso ed inciderà, in modo determinante, sui modelli di accoglienza che il nostro carattere nazionale va elaborando, e già da qualche anno, rispetto agli immigrati extracomunitari: cioè rispetto alle minoranze etniche che si sono introdotte nel nostro Paese, a seguito delle ondate della migrazione mondiale. Insomma per interpretare il nostro comportamento – tanto quello del Paese legale, quanto quello del cosiddetto Paese reale – nei confronti degli extracomunitari, è ridondante e retorico ricondurlo alle ancora circoscritte manifestazioni di intolleranza e di razzismo.

Per capire la filosofia del reciproco rapportarci con gli Albanesi (per lo più immigrati clandestini: e quindi illegali rispetto a qualsivoglia norma di diritto nazionale e/o internazionale), noi Italiani avremmo dovuto meditare sul come fosse stata accordata tutela alla minoranza linguistica Italo-Albanese che convive – e con lealtà esemplare verso il Paese, lo Stato e la Nazione – che convive, lo sottolineiamo, da cinque secoli con la maggioranza italofona: o meglio con le altre minoranze alloglotte e dialettali che realmente costituiscono tale maggioranza. Chiediamoci qual sia stata la nostra filosofia etnica che ha regolato – e che regola tuttora – i rapporti tra il nostro Stato nazionale e le nostre minoranze che hanno contribuito a fare questo Stato-nazione, lungo la storia di un popolo che, se vogliamo, è multiculturale e plurietnico da sempre.

L’Italia allora sembra debba collocarsi, in forza della sua propria specificità storica, in una posizione liminale rispetto ai due differenziali sistemi di interpretazione antropologica del fenomeno etnico. Qui, da noi, è da secoli che si sono installati popoli di differenti civiltà, lingue, costumi e tradizioni culturali, rendendo così l’Italia, già da più secoli, Paese pluralista di genti diverse. E a questa etnicità plurima ha corrisposto una fedeltà e una partecipazione allo Stato Nazionale, che dovrebbero far modificare tante concezioni e convinzioni sulle identità etniche. Sono, però, soprattutto le nostre minoranze linguistiche che, con le loro tipicità ed organizzazioni tanto differenziate, ci portano a dubitare del nostro rigore scientifico quando applichiamo uno stesso termine a denotare realtà così differenti.

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Costumi francoprovenzali

Gli altri noi

Ecco dunque, a riprova di quanto sin ora detto, un elenco in ordine alfabetico delle 11+1 minoranze linguistiche che risiedono sul territorio nazionale: ricordando preliminarmente, che la legge costituzionale in loro difesa ha avuto attuazione con una tutela che ha differenziato di fatto, ma in modo deciso e significativo, le minoranze un tempo di confine – le cosiddette penisole linguistiche – dalle minoranze infraregionali – le cosiddette isole linguistiche:

 1. – degli Albanesi [14] = giunti in Italia tra il XV e il XVIII secolo, sono ancora oggi stanziati nelle aree, che storicamente hanno subito abitato, dei più di cinquanta comuni dell’Italia centro-meridionale: soprattutto in Calabria (quasi una trentina) e in Sicilia (almeno cinque). Gli Arbereshe, gli Italo-albanesi, hanno mantenuto un grande attaccamento alla lingua originaria, pur essendo italofoni spesso migliori dei dialettofoni loro confinanti. Hanno mantenuto inoltre costumi culturali forti e ricchi e, liturgia e riti religiosi greco-cattolici, protetti dalla Chiesa di Roma, e che ulteriormente li contraddistinguono. Disseminati nei comuni delle regioni italiane costituiscono l’esempio più rappresentativo di isola, o, nel loro caso, di arcipelago linguistico. Nei termini della tutela, costituzionalmente garantita, subiscono una vera discriminazione rispetto alle altre minoranze di confine, su cui è intervenuta la legge globale di attuazione dell’articolo 6 della Costituzione.

2. – dei Catalani = presenti in Sardegna dal 1354, quando Pietro IV d’Aragona conquistò la città d’Alghero e vi insediò un presidio militare che divenne il caposaldo della potenza spagnola nell’isola. I privilegi di cui beneficiarono gli immigrati catalani peggiorarono le relazioni con gli autoctoni, che lasciarono Alghero interamente in mano ai nuovi arrivati. La cultura catalana si è mantenuta vitale sino all’era della televisione; e nonostante il divieto che avevano imposto i Savoia, nel XVIII secolo, di un uso ufficiale della lingua. Oggi la più recente italianizzazione ha indotto un processo di alterazione nei caratteri culturali dei 40mila abitanti della città; e l’uso della stessa lingua, in nessun modo tutelato, si è ridotto alla comunicazione affettiva e familiare.

3. – dei Croati = stanziati in Molise in una colonia che s’insediò forse a partire dal XIII secolo; ma, sino a tutto il XVI, se ne erano create anche e numerose altre, lungo le coste italiane dell’Adriatico meridionale. Quelle molisane sono le uniche ad essere sopravvissute sino ad oggi, nonostante nuovi arrivi di Croati, che si erano aggiunti a seguito del trattato di pace della Prima Guerra Mondiale. Sono solo 3.000 oggi, ad abitare tre comuni della provincia di Campobasso. Sin dall’era fascista venne imposta loro una italianizzazione forzata, che impedì una buona sopravvivenza della loro cultura; la quale non era supportata, per altro, dalle strutture religiose ed ecclesiastiche che preservarono, invece la cultura e la lingua arberesh. Come avviene, normalmente, per tutte le isole linguistiche, anche gli abitanti parlanti lo slavo di tipo dalmatico non vedono tutelata la loro lingua materna che subisce sempre di più l’acculturazione linguistica del dialetto molisano.

4. – dei Francoprovenzali = secondo alcuni storici, l’origine e lo sviluppo dell’area linguistica in cui essi risiedono sono da collegare alla latinizzazione della Gallia centrorientale, dal centro di diffusione di Lione, da dove il latino si era propagato per tutto il medioevo: sino a quando l’area francoprovenzale si integrò prima nel regno dei Burgundi e poi in quello dei Franchi. Vengono riunificati sotto la stessa unica denominazione tanto i franco-provenzali veri e propri, quanto i francofoni che in Val d’Aosta rappresentano solo il 5% della popolazione. In Italia sono circa 90 mila: i 4/5 residenti in Val D’Aosta in cui si estendono per l’intero territorio con l’eccezione di un’isola germanofona di 600 abitanti. Il francoprovenzale è parlato anche in una cinquantina di comuni in Val di Susa, nell’alto Canavese e in poche altre comunità del Piemonte. Esistono anche tre comuni in provincia di Foggia, nella regione Puglia, i cui abitanti discendono da una colonia provenzale installata intorno al XIII secolo dai re Angioini. Nella Valle d’Aosta dove si riscontra una situazione di triglossia – italiano, francese e patois d’origine francoprovenzale – la tutela linguistica all’uso del francese è stata definitivamente garantita con la promulgazione dello Statuto speciale della Regione; ma già un decreto legge del 1945 – in epoca non ancora repubblicana – proteggeva il libero uso del francese anticipando lo spirito e la lettera della Carta Costituzionale. La minoranza francoprovenzale rappresenta una di quelle che erano le minoranze di confine italiane: le “penisole linguistiche”, dove, a livello individuale e sociale, privato e pubblico, le radici linguistiche sono state fortemente protette, e per cui la tutela si è concretizzata nella possibilità di valorizzare, anche sul piano socio-economico, le tradizionali caratteristiche linguistiche e culturali, come risorse ed opportunità di sviluppo e di trasformazione.

5. – dei Friulani (o dei ladino orientali) = abitano il nord-est estremo del Paese, compreso fra l’Adriatico e le Alpi Carniche, che é costituito dal territorio geograficamente compatto delle tre province friulane: Udine, Pordenone e Gorizia. I friulanofoni sono più di 700 mila, e la loro lingua appartiene al gruppo occidentale delle lingue neolatine – il ladino – una indigenizzazione del latino, introdotto dai Romani nel II secolo, all’epoca della fondazione di Aquilea. Come ha sottolineato Giuseppe M. Scalia[15], formano una “minoranza-maggioranza”, in quanto vantano una condizione particolare, quella cioè di essere, all’interno della propria regione, una vera e propria maggioranza (inferiore numericamente solo a quella sarda) che però conosce l’italiano e anche il dialetto veneto limitatamente agli abitanti dei comuni finitimi con Portogruaro in provincia di Venezia. Un grande valorizzatore del rinnovamento e della rinascita del friulano (del furlano) fu Pier Paolo Pasolini.

6. – dei Germanici = che si distinguono in Altoatesini, in Carnici, in Cimbri, in Mocheni, e in Walser.      Gli Altoatesini (o Sudtirolesi) discendono da popolazioni retiche e celtiche i cui primi insediamenti risalgono al IV secolo. Nei successivi secoli sottomisero precedenti abitanti ladini ed italiani; e costituirono, da allora, una realtà etnico-linguistico-culturale border line tra il mondo latino e il mondo germanico. La storia linguistica di quest’altra minoranza-maggioranza é condizionata proprio da una caratterizzazione che è sì geografica, ma anche soprattutto storico-politica. Nella Val d’Aosta, infatti, l’elemento linguistico francese e quello patois non si diversificano anche sul piano etnico, mentre invece nell’Alto Adige/Sud-Tirol la differenza linguistica si colora d’accesi e particolari connotati che sono vissuti e presentati come etnico/razziali ma concretamente, e cioè politicamente sono sociali ed ideologici. La lingua germanica parlata nella regione è il tirolese: un dialetto tedesco di tipo bavarese, nella parte occidentale, e di tipo alemanno, in quella orientale. Secondo la dichiarazione di appartenenza etnica, che è stata consentita dal censimento del 1991, la minoranza alloglotta altoatesina contava 287.500 abitanti. Anche in Alto Adige (allo stesso modo che nella Valle d’Aosta) la tutela costituzionale dell’articolo 6 venne anticipata nell’era Luogotenenziale da provvedimenti legislativi che hanno consentito, da mezzo secolo, l’uso della lingua tedesca (o francese) nelle scuole, ma anche in ambito politico, amministrativo e giudiziario. Con lo Statuto speciale della Regione Trentino-Alto Adige le scuole del territorio sono diventate diglottiche per i tedescofoni che devono imparare anche l’italiano, e per gli italiani che devono imparare il tedesco; mentre nelle scuole per i ladini, che rappresentano un po’ più del 4% della popolazione regionale, è addirittura previsto il trilinguismo: ladino, italiano e tedesco.

I Carnici sono residenti nella omonima zona del Bellunese, che costituisce un’area di quadrilinguismo (tetraglossia) di italofoni, germanofoni, friulianofoni e slovenofoni. Risalgono all’era della colonizzazione bavarese dell’arco alpino, dei secoli XII e XIII, isolata tra di loro e sparsa nei versanti occidentale ed orientale delle Alpi. Le comunità carniche costituiscono isole linguistiche, antiche nove secoli e tuttora relativamente attive, insediate oggi in frazioni di comuni e in borgate dove però la diversità linguistica è mantenuta con cura ed attenzione, nonostante la zona sia divenuta estremamente sviluppata turisticamente.

I Cimbri facenti capo ai 7 Comuni vicentini di Asiago e alla Lega dei 13 Comuni veronesi dei Lessini. Popolazioni insediate intorno all’anno mille si sono estese su un territorio piuttosto vasto in cui costituiscono isole linguistiche: e l’antica parlata sopravvive di conseguenza con difficoltà, non essendo usata nei rapporti esterni alle comunità; mentre sembrano meglio conservarsi alcune antiche tradizioni culturali.

I Mocheni, popolazione oggi di circa 2.000 persone, stanziata nell’omonima valle in provincia di Trento, e qui giunta dalla Germania nei primi anni del XIII secolo. La parlata mochena oggi subisce un processo di pronunciata acculturazione linguistica dal dialetto trentino più che dalla lingua nazionale italiana. È un dialetto tedesco diverso tanto da quello tirolese che da quello cimbro, per altro infarcito com’è di elementi provenienti dalle parlate delle altre popolazioni che lo circondano. In certe frazioni della Valle, questa lingua di minoranza si è ormai irrimediabilmente estinta.

 I Walser, sono ormai poco più di 1.000 persone discendenti da pastori alemanni che nel XII secolo emigrarono dalla Val del Rodano nelle valli intorno al Monte Rosa: sul versante valdostano e su quello vercellese e novarese. Il walser è parlata di tipo svizzero-vallesano, ma poiché accanto le convivono il tedesco, l’italiano e il francese, proprio questo quadrilinguismo è una condanna ad irreparabile fine.

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Donne arbereshe in Calabria

 7. – dei Greci = c’è controversia in dottrina sulla loro origine: classico-ellenica, o bizantina, o assai più recente nel XVIII secolo. La lingua greca è parlata, in Puglia, da 20 mila persone residenti in una decina di comuni intorno a Calimera in provincia di Lecce; e in Calabria, da circa 5.000 abitanti di sei località della provincia di Reggio. Mancano dati certi sulla consistenza numerica degli insediamenti nelle due regioni, in quanto il censimento nazionale del 1991 non aveva previsto, per loro, la dichiarazione di appartenenza etnica. Secondo diversi studiosi il più numeroso insediamento pugliese è anche economicamente più forte, ma quello calabrese è più vivace culturalmente, per l’impegno di diverse associazioni locali in difesa della lingua e della civiltà greca.

8. – dei Ladini (dolomitici) = abitanti indigeni delle Alpi sono oggi circa 30 mila persone residenti in quasi trenta comuni delle province di Bolzano, Belluno e Trento, le stesse in cui vennero distribuiti dopo l’annessione italiana del 1918. Sarebbero i discendenti dei Celti romanizzati, ed in epoca più recente dopo una dipendenza dalle signorie ecclesiastiche tedesche, fecero parte dell’Impero Austro-Ungarico.        Oggi queste popolazioni sono generalmente bilingui e, in territorio bolzanino, addirittura triglottiche. Il turismo e le attività sciistiche rendono queste comunità sempre più internazionali: soprattutto quelle delle Valli Gardena e Badia (in provincia di Bolzano), a Fassa e Moena (nella provincia di Trento) e a Cortina d’Ampezzo (in provincia di Belluno).

9. – degli Occitani = sono stanziali in una ottantina di comuni in Piemonte: una cinquantina nel cuneese e una trentina nel territorio provinciale di Torino. Parlano l’occitano puro circa in cinquantamila; mentre altri centomila parlano una forma mista di piemontese e di occitano. Sono tutti plurilingui: almeno tetraglottici e cioè quadrilingui. Il termine tetraglottico, composto da due parole del greco antico, ha lo stesso significato di quadrilingue che é il composto delle due corrispondenti parole d’origine latina. Ma la parola tetraglossia viene usata in modo diverso da quadrilinguismo: indica, infatti, che la competenza linguistica è in quattro lingue, ma che l’uso linguistico è differente da lingua a lingua e da circostanza comunicativa a circostanza comunicativa [16]. Così: l’occitano è la lingua della comunicazione interna, tra nativi; il piemontese viene invece adoperato nei rapporti mercantili; l’italiano e il francese sono le lingue dell’ufficialità, e della socialità, usate nella scuola, nella pubblica amministrazione, nella comunicazione dei mass-media. Gli Occitani, oltre che in Piemonte sono presenti anche in Liguria (ad Olivetta S. Michele in provincia di Imperia), e in Calabria: a Guardia Piemontese in provincia di Cosenza. Qui parlano l’occitano i tremila superstiti di una migrazione tardomedievale che provenivano dalla comunità piemontese di Bobbio Pellice, in fuga dalle persecuzioni contro i Valdesi. Come ci ricorda Giuseppe Scalia: in seguito alle crudeli e furibonde angherie e vessazioni, cui erano state sottoposte, alcune colonie valdesi, lasciate le vallate del Piemonte, si rifugiarono in Calabria. Ma anche lì furono raggiunte dalla guerra condotta da un estremo all’altro dell’Italia, contro i seguaci della religione valdese, decretata dal Santo Uffizio della Curia Romana all’indomani del Concilio di Trento: circa duemila valdesi “suspenci” e “iustitiati” versarono il loro sangue in Calabria.

10. – dei Sardi = abitanti l’Isola di Sardegna, usano varie parlate sarde: tutte d’origine neolatina, ma con influssi e influenze diverse nelle diverse località: il campidanese nel meridione, il logudorese nel settentrione, il barbaricino nel centro montano, e poi ancora il gallurese, il sassarese, e il catalano di Alghero. Manca quindi una sicura koiné sarda: cioè una lingua comune; anche se oggi si tenta di superare la frammentazione delle varie parlate adottando una lingua standard regionale con caratteristiche fonetiche e morfologiche sue proprie, e che possa essere di fondamento alla correlazione tra lingua sarda e nazionalità sarda. C’è infatti da ripetere ciò che è stato detto per la minoranza-maggioranza friulana; la minoranza linguistica sarda è una vera e propria maggioranza: su un milione e 600 mila persone che vivono nell’isola, un milione e 200 mila unità parlano una delle varianti del sardo. C’è tuttavia chi obietta che la maggioranza-minoranza linguistica sarda, aldilà del suo specifico etnico-linguistico-culturale, condivide con gli altri italiani delle altre regioni gli stessi problemi sociali, politici, culturali, economici. E che sono, alla fin fine, solo questi i problemi che contano veramente tanto per gli individui, quanto per la società tutta. Ma ciò è egualmente vero per qualunque ordine del discorso sui tratti differenziali nelle identità culturali. Perché mai per un operaio della Volkswagen deve essere importante la sua identità etnico-turca, piuttosto che la sua condizione di lavoratore salariato in una industria automobilistica di un Paese dell’UE?

 11. – degli Slavi (o forse meglio, degli Sloveni) = nella loro lingua, la parola slavo sta ad indicare il parlante per antonomasia. Gli Slavi, stanziali in Italia, sono quelli del ceppo meridionale che comprende tanto gli Sloveni quanto i Croati (e i Serbi). In Italia le due minoranze – degli Sloveni e dei Croati – vanno tenute distinte perché i loro insediamenti sono diversi sia per l’epoca della loro penetrazione che per le regioni in cui si sono stanziati. I croati del Molise – che sono stati già brevemente presi prima in considerazione – si concentrano in poche comunità del Sud; mentre gli elementi di origine Slovena si trovano oggi in 32 comuni di tre delle province della Regione Friuli-Venezia Giulia – Trieste, Gorizia e Udine – dove i loro insediamenti, che si sono sviluppati nel primo dopoguerra, potrebbero forse raggiungere, secondo le stime locali, addirittura, le 150 mila unità. È una zona questa di diffuso plurilinguismo : come è il caso della Val Canale, dove si parlano in sincronia con lo sloveno, il friulano, l’italiano e il tedesco; o come è il caso dell’Alto Collio dove le popolazioni sono comunemente bilingui o trilingui. La caratteristica degli Sloveni è l’aver privilegiato insediamenti a tipologia diffusa: la cui bassa delimitazione e la quasi inesistente circoscrizione potenzia la tendenza territoriale al multiculturalismo e al plurilinguismo, ma allenta i legami di appartenenza e la comune opinione di una condivisa identità.

12. – degli Zingari = in questo elenco sono stati tenuti fuori quota perché non rientrano né nella tipologia delle penisole linguistiche protette, e neppure in quella delle isole linguistiche discriminate. Sono però fuori quota pure per l’approssimazione con cui si parla di loro per tutto ciò che li riguarda: sia nelle sequenze statistiche mai sicure, o nelle fonti storiche poco documentate ed autorevoli; ma, soprattutto, nelle informazioni che sono sempre frammentarie con interpretazioni che appaiono sin troppo abusive o partigiane. Citando ancora il saggio di Scalia, su questa minoranza linguistica, dobbiamo chiederci perché tanti “pare” e tanti “sembra” sugli Zingari in territorio italiano? E la risposta va trovata nella volontà di sfuggire a qualsiasi forma di censimento, nella mancata denuncia della nascita dei figli, nelle ricorrenti correnti migratorie, nel nomadismo imperante, che comporta l’assenza di una residenza e rende difficile una valutazione numerica complessiva: pertanto si parla di stime azzardate e assai approssimative (1983: 58). Presenti in Lombardia, in Liguria, in Trentino-Alto Adige, in Veneto, in Emilia Romagna, in Toscana e nel Lazio, sono meno frequenti nel Sud. La loro lingua non è unitaria: parlano dialetti neoariani che non sono in alcun modo tutelati, anche perché essi sono privi, in Italia, di uno status civitatis che eviti loro l’attuale limbo di una condizione tra lo straniero e l’apolide. Incerto è persino il loro nome: chiamano se stessi Rom che significa uomo, marito – ma che indica oggi il gruppo che vive nel centro-sud e che è tendente alla sedentarizzazione – mentre l’altro termine Sinti indica tanto uno dei linguaggi indiani, e quindi la loro provenienza, quanto una loro attività: gli uomini delle giostre, i suonatori ambulanti – ma indica anche quelli di loro che vivono nel Nord Italia, e che sono per lo più nomadi.

In Europa vengono adoperate differenti denominazioni per designarli: zingari nel nostro Paese, tzigani nell’Europa orientale, gypsies in Gran Bretagna, bohemiens in Francia, zigeuner in Germania, gitanos in Spagna. Dalla sede originaria nell’India nord-occidentale, il cosiddetto gruppo etnico degli Zingari si diffuse, tra il X e il XVI secolo in Europa e nell’Africa settentrionale, conservando sino ai giorni d’oggi la vita nomade tradizionale in carri ed accampamenti; e con attività che per gran parte sono rimaste anch’esse quelle della tradizione: il commercio di cavalli, la lavorazione del rame, gli spettacoli ambulanti, la chiromanzia e l’accattonaggio. Tutta la loro storia è stata una successione di persecuzioni e di violenze che culminarono nello sterminio di massa nei campi di concentramento nazisti dove, nelle camere a gas, ne morirono più di mezzo milione. Ma già nel 1663, a Milano, si era decretato che chi colpisce gli zingari non commette reato.

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Novara di Sicilia, presenza di minoranze galloitaliche

“Monolinguismo addio”

Il più famoso lingui­sta italiano, Tullio De Mauro, ci ricordava che: «…Per una composita serie di motivi, culturali, religiosi, giuridici, gli  Stati nazionali tendono ad assumere  come  proprio  ideale  regolativo  il  monolinguismo:  delle  lingue  esistenti all’interno  di  ciascuno   Stato,  una  sola   viene  privilegiata  e  diventa  la  lingua  delle  leggi,  dei  nascenti  sistemi di  istruzione,  della  nascente  editoria  a  stampa,  poi dei giornali,  spesso (non  nei  Paesi  cattolici) del culto  e  della  vita  religiosa. È la lingua del Sovrano e della corte, della capitale e della generalità dei sudditi»[17].

Il saggio di De Mauro ha per titolo “Monolinguismo addio”, ad indicare che, «nella babele del nostro villaggio globale», oc­corre creare le basi per una reale diffusione di grandi lingue veicolarí internazionali, dette anche transglottiche, come l’inglese, il russo, il cinese mandarino, l’arabo e il francese, per garantire la comunicazione di individui e popoli che oggi vengono sempre di più in contatto e che sono portatori di una delle seimila lingue attualmente parlate nel mondo. “Monolinguismo addio” potrebbe anche assumere, però, il valore di slogan avversativo di un “relativismo culturale di ma­niera”, che viene sempre più chiamato a supportare posizioni differenzialiste radicali così come si vanno diffondendo nella “politica linguistica e culturale” delle Nazioni Unite. Nelle Agen­zie dell’ONU si postula che in tutti gli Stati che hanno aderito all’Organízzazione – e cioè in ognuno dei duecentoventi “countries” e delle migliaia e migliaia di “tríbal peoples”, di comunità autoctone, di popoli aborigeni, di paesi e nazioni dei nativi, di minoranze etnico-linguistiche, in tutte queste entità che il relativismo differenzialista avvalora e in­venta – debba sempre ed assolutamente avere efficacia il teorema di De Mauro, per cui ad X tutti gli abitanti, gli Xani, parlano, e non possono che parlare, la lingua Xese: e che questo diritto-dovere a comunicare nella lingua materna debba compiersi anche in qua­lunque altra comunità di Xofoni che si sia costituita durante una esperienza migratoria. Il richiamo, maniacale nella sua ricorsività, al valore della identità linguistica nasce proprio dalla inconsapevole accettazione di una equivalenza che appare “natu­rale” – nazione=lingua – mentre invece, nella complessiva pano­ramica della storia umana, sembra che ne rappresenti, eventualmente, l’eccezione a fronte della generale tendenza in tutte le popolazioni alle più varie forme di plurilinguismo. Occorre quindi ribadire che la difesa di ogni lingua, meritevole certo d’essere mantenuta ed anzi catalizzata, non debba ridursi ad un semplice opporsi a qualunque glottofagia: ad ogni tipo di oppressione lingui­stica.

Anche perciò queste nostre considera­zioni fanno emergere un riferimento all’ultimo sovrano medievale e al primo monar­ca moderno – l’Imperatore Federico II – che, nel XIII secolo, perseguì una politica istituzionale plurilinguista, e coniugata inol­tre con una singolare tolleranza universalista tanto in campo etnico-razziale, che in campo culturale e religioso: in ciò certa­mente influenzato dal buon esempio dei “saraceni” della Sicilia che, per dirla con Michele Amari «non avevano la smania di vestir tutto il mondo alla lor foggia». Federico, da Re di Sicilia – lo Stato più ricco e più civile dell’Europa d’allora – tenne sempre vicino a sé medici, filosofi e scienziati arabi ed ebbe una corrispondenza serrata con sapienti e signori musulmani. A corte ebbe harem ed eunuchi e, nelle sue spedizioni militari, o nelle sue celebri battute di caccia, «cavalcò sempre scortato dalla sua pittoresca, fedelissima e valorosa guardia saracena che lo circondava e proteggeva in un alone misterioso e impenetrabile»[18]. Bruno Bosco, un medíoevista free-lance, aggiunge un’osservazione stimolante: «l’Imperatore del Sacro Romano Impero, spada di Dio sulla terra, difensore del Santo Sepolcro, circondato da una guardia di saraceni, proclamati dalla Chiesa gli infedeli per ec­cellenza, nemici di Cristo e della Cristianità». Davvero difficile, nel XIII secolo, che «una simile prova di elasticità mentale, di tolleranza e di larghezza di vedute potesse essere compresa ed accettata». Eppure durante la durata del suo regno, Federico fu sempre coerente con questa politica di apertura, di tolleranza, di rispetto, verso ebrei e musulmani «di cui protesse i beni e le attività e di cui difese la libertà di culto e di preghiera»[19].

Ma l’ultimo imperatore della tradizione medievale, il multiculturalismo l’aveva ricevuto in eredità genetica e dinastica dai suoi avi regali, fondendolo mirabilmente in se stesso. E del resto tutti gli imperi della terra e d’ogni epoca storica sempre sono stati multietnici, e in un co­acervo culturale e linguistico più o meno esteso ed articolato. L’impero federiciano, facendo concordare, in un universo paler­mitano, le tre civiltà che hanno dominato la scena dell’Occidente per tutto il medioevo (la civiltà araba, quella bizantina e quella tedesca), è invece già e compiutamente pluralista, nella direzione della interculturalítà (e dell’ínterlinguismo): in una situazione insomma in cui etnie, popoli, culture, lingue, ínteragiscono dentro una attività, che per sussistere, richiede una rete relazionale ed interattiva.

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Balli occitani nel Cuneense

Le parole sono pietre

La fluidità dei rapporti umani e il mutare dei fattori organizzativi che le caratterizzano fanno sì che termini quali etnia, popolo, stirpe, nazione vadano considerati con molta prudenza [20]. Quando l’aggettivo etnico è chiamato spesso a qualificare il sostantivo identità, viene a trovarsi riferito, con bella indeterminatezza, tanto ad ogni comunità tribale, o addirittura locale, quanto a gruppi sociali assai più estesi ed articolati – ad esempio la nazione – al cui interno convivono, appunto, più o meno conflittualmente, diverse e differenti minoranze. Ed è in forza del condizionamento al conformismo, indotto dal successo della parola etnos – perché, come ci ha lasciato detto Carlo Levi: le parole sono pietre – è in forza di un modello culturale che s’impone come codice di comunicazione autoevidente se, anche per il sostantivo minoranza, l’aggettivo che sembra più adatto a qualificarlo sia etnica. Lo dice espressamente Emidio Sussi: «Generalmente, quando si parla di minoranza, si intende la minoranza etnica» [21].

Personalmente crediamo che sia stato il gran battage mass-mediologico a far entrare l’uso nel linguaggio comune, incanalandolo come bisogno fondamentale della convivenza: o, almeno, di quel che si possa intendere come convivenza in una società della comunicazione totale. Accade così che di minoranza etnica, si senta sempre più spesso parlare, in televisione e nei social, rispetto ad una maggioranza, etnica anch’essa. La dizione tuttavia è, in modo più completo, difesa delle minoranze marginali (con l’eventuale aggiunta “per la sconfitta dei privilegi e delle ingiustizie”). L’appello etnico/etico comunicativo convoglia l’idea di una totale assenza, o almeno di un basso profilo, del diritto al riconoscimento e alla tutela di una siffatta condizione sociale: ed infatti, secondo l’ordine del discorso giuridico-politico, si parla conseguentemente della necessità di una tutela democratica delle minoranze.

 Anche in molte ricerche scientifiche, sulle dinamiche relazionali dei gruppi, nelle società pluralistiche e complesse, viene adottata la dizione di minoranze etniche per riferirsi a determinati gruppi, con caratteri differenziali, e alle loro interazioni col sistema sociale globale. Ed anche questo nostro scritto, che si propone di analizzare l’antropologia delle minoranze etnico-linguistiche, ha inteso far riferimento, con siffatta dizione, tanto ad una condizione oggettiva, quanto alla percezione emotiva dell’appartenenza che ne vien data, attraverso la rappresentazione di vissuti soggettivi.

Minoranze etniche, sul piano della oggettiva realtà storica e sociologica, sono, come s’è visto, quelle componenti extra-italiane, che sono stanziate in ben circoscritte aree alloglotte del territorio nazionale; e che da più secoli, per questa loro caratteristica differenziale di una provenienza etnica altra, hanno in se stesse i tratti della eccezione, rispetto alla omogeneità etnica e linguistica delle altre comunità che stanno loro d’attorno: e che sono pertanto maggioranza rispetto a queste comunità che rappresentano delle minoranze.

Con le immigrazioni degli anni più recenti, la presenza di centinaia e centinaia di migliaia di persone altre e straniere ha profondamente inciso sugli equilibri psicologici ed ideologici delle popolazioni locali, determinando in esse nuovi vissuti, soggettivi e collettivi, nei confronti delle etnie diverse; e producendo l’emergere di resistenze nei confronti di differenti culture, religioni, costumi. Limitarsi a definirle reazioni xenofobe significa ridurre la spiegazione scientifica ad un processo di etichettamento. I pregiudizi etnici e i sentimenti condivisi, da masse di soggetti sociali, alla reciproca identificazione e alla condivisione di una mutua appartenenza, costituiscono le due classiche facce della medaglia “etnicità”: quando rispettivamente si riferiscono al gruppo degli altri, o al gruppo del noi.

 L’Antropologia culturale psicologica ha assunto, come oggetto specifico, la ricerca di quelle dinamiche relazionali che generano l’adattamento sociale, e lo correlano in modo costante allo sviluppo del senso di appartenenza ad una realtà. Tale sentimento della realtà si costituisce attraverso due meccanismi interattivi: l’identificazione e l’introiezione. Ogni cosa che entra nello spazio vitale e nel vissuto individuale si integra con la cultura dell’in-group e diventa quindi buona e giusta. Nello sviluppo della personalità (sociale e/o etnica) l’identificazione costituirebbe la tecnica principale dell’adattamento. Quando, con la introiezione culturale, può dirsi formata la personalità, l’apparato psichico proietta automaticamente all’esterno, alla cultura out-group, gli individui e gli oggetti qualificabili come cattivi o erronei.

Del resto, sentirsi italiano – o sud-tirolese, o rumeno, o ebreo – è una cosa, definirsi tout court italiano – o sud-tirolese … – è tutta un’altra cosa: si trapassa dal livello della personalità etnico-culturale, al livello della identità etnico-sociale o etnico-nazionale; si trapassa, in altre parole, dalla pura denotazione al sistema interattivo degli elementi della connotazione. Ma, successivamente, il modo in cui ci si sente appartenenti al gruppo del noi connota di caratteristiche (solitamente negative) gli appartenenti al gruppo degli altri. Questo meccanismo reciprocamente condiviso moltiplica i suoi effetti in quella turbolenza degli scambi che scandisce la contemporaneità. Non sono però, tanto e solo, gli incontri, sempre più frequenti e sempre più ampi, fra persone portatrici di culture diverse a causare conflitti radicali tra i differenti sistemi regolativi, valoriali, comportamentali. Perché le comunicazioni degli stili di vita sono già avvenute prima: l’incontro reale segue l’incontro mass-mediologico; ed è quest’ultimo a determinare le modalità dei successivi nuovi rapporti.

Gli attuali, grandi flussi migratori di milioni di individui, si dirigono verso sperati crescenti standard di benessere e verso attesi superiori livelli di qualità della vita. Queste speranze e aspettative – secondo la logica differenzialista della identità etnica – dovrebbero accompagnarsi ad una pregiudiziale di opposizione, o almeno ad una riserva aurorale ma tenace, al farsi assimilare rifiutando ogni progetto di integrazione, se non è inserimento che sia rispettoso delle radici, delle specificità, delle tradizioni: che però consapevolmente sono state abbandonate, se non sono state addirittura rifiutate all’atto di emigrare. Gli attuali grandi flussi migratori di milioni di individui sono uniformati nella speranza di raggiungere crescenti standard di benessere e superiori livelli di qualità della vita, ma essi stessi sono costituiti da tanti, numerosissimi sottogruppi quante sono le etnie che emigrano: differentissime le une dalle altre, spesso assai di più di quanto alcune di esse non lo siano rispetto al gruppo di accoglienza. Si è parlato allora di un universalismo differenzialista come se volessimo mantenere il nostro essere differenti perché superiori a loro.

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Donne in costume catalano in Sardegna

Le società complesse sono state, d’altra parte, considerate spesso come un insieme variamente composito di minoranze: non solo quelle formate dai gruppi culturali differenti che gravitano da tempo sullo stesso territorio; e l’esempio delle comunità di immigrati (antichi e contemporanei) salta subito all’occhio. Possono essere considerate minoranze anche: i gruppi regionali, quelli professionali, quelli religiosi; così come le associazioni politiche o sindacali, ma pure i club dei sostenitori d’una squadra sportiva. E minoranza possono essere considerati i gruppi anagrafici: dei vecchi rispetto ai bambini, o viceversa; o dei laureati, o dei privi di ogni titolo di studio, o dei portatori di handicap; e via dicendo. Qualsiasi gruppo, o sotto-gruppo, si autopercepisca,e corrispondentemente venga percepito, per le differenze che lo caratterizzano, lo contraddistinguono, e lo separano dagli altri gruppi, può essere considerato gruppo di minoranza. Ciò che conta sono quindi le relazioni asimmetriche, tra il sistema e i sottosistemi minoritari, e che vengono generate da: differenze di valori, di status socio-economico, di struttura del gruppo, di distribuzione del potere e, in certi casi, anche di sesso e di età. Sarebbe assai meglio, allora, chiamare la nostra società attuale, società delle minoranze.

Quando però si ritorna a considerare come minoranza principalmente quella etnica, e si scopre che, a seguito della continua espansione dei flussi migratori, le minoranze etnico-linguistiche-culturali tendono ad accrescersi sempre di più, questa società multiculturale delle minoranze ci appare sempre più complessa per la sua intrinseca necessità di tollerare che le differenze dei nuovi soggetti sociali collettivi – le famose etnie – abbiano riconosciuti regimi di autonomia culturale e spazi di partecipazione civile (i diritti di cittadinanza), e proprio per cogestire quelle aree dei conflitti che l’incontro/scontro tra culture e società diverse rivela ed esprime. Ed è esattamente la mancata tutela delle minoranze storiche a lasciare perplessi circa le effettive possibilità realizzative, con le nostre attuali regole, di una interazione e di una comprensione reciproca tra diversi: cioè tra una sempre più astratta maggioranza e le sempre più numerose minoranze.

Tutto ciò ha assunto la valenza di punto centrale di riferimento, da quando, nella turbolenza delle trasformazioni del mondo, due tendenze, logicamente opposte e contrastive, si son trovate a doversi confrontare nella concretezza della prassi sociale e alla ricerca di un equilibrio forse irrealizzabile: la tendenza centrifuga al mondialismo – per cui il diritto fondamentale dei Diritti Umani: quello alla eguaglianza, si sostanzia per ogni uomo nella prospettiva futura di poter diventare cittadino del mondo – e la tendenza centripeta alla identità etnica – cui corrisponde un più recente Diritto Umano: quello alla differenza.

Dialoghi Mediterranei, n. 39, settembre 2019
Note
1.  Enzesberger H. (1992), La grande migrazione, Torino, Einaudi, 1993.
2.  Lévi-Strauss C. (1958), Antropologia Strutturale, Milano, Il Saggiatore, 1966.
3. Malinowski B., Modern Anthropology and European Rule in Africa, Roma, Reale   Accademia d’Italia, vol. 18, 1940: 880-901.
4.  Finfielkraut  A. (1987), La sconfitta del pensiero, Roma, Lucarini, 1989.
5. Capotorti F., Etude des droites des personnes appartenant aux minorités etniques, religiouses et linguistiques New York, O.N.U., 1977 (nuova edizione 1991).
6.   – “Centro delle Nazioni Unite per i Diritti Umani” New York O.N.U:, 1991: 39.
7.  Gross-Espiell H., The Right to Self-determination:The Implementation of United Nations Resolutions, New York, O.N.U., 1979.
8.  Camera dei Deputati – Servizio Studi, Le minoranze linguistiche, volume I e II, Roma, Dipartimento Istituzioni, 1982.
9.  Scalia G. M ., La tutela  delle  minoranze  linguistiche, Acireale, Galatea Editrice, 1993.
10. Tentori T., Contributi antropologici allo studio dei diritti dell’uomo – considerazioni e ricerche, in “Paradigmi”, 1993, n.31: 221-235.
11.   Epstein A.L. (1978), L’identità etnica – Tre studi sull’etnicità, Torino, Loescher, 1983.
12.   Fanon F. (1961), I dannati della terra, Milano, Feltrinelli, 1964.
13 Giordano Ch.,“Stato Nazionale, <Discorsi Etnici> e riconoscimento delle minoranze: un’analisi storico-antropologica con particolare riferimento all’Europa Centrorientale”, in Storia, Antropologia e Scienze del Linguaggio, anno X, n.1-2, 1995: 105-12, 105.
14.  Sugli Arberesh cfr.: Harrison G., Callari Galli M., Rapporto antropologico sulla cultura bilingue delle comunità  arberesh  della  provincia  di  Cosenza,  in  “La parola socialista”, 1974, n. 9: 22-30; Callari Galli  M. , Harrison  G.,  Bilinguismo “instabile” nelle comunità arberesh della provincia di Cosenza, (Relazione) Atti dell’VIII Congresso Internazionale della Società di Linguistica Italiana, Bressanone, 1974;  in R. Somone & G. Ruggero (a cura di), Aspetti sociolinguistici dell’Italia contemporanea, Roma, Bulzoni, 1977: 227-233; Harrison G. , Callari Galli, M. The  Stigmata  of  Alphabetisation,  in  W. Von Raffler-Engel (ed.), Child Language – 1975,  “International  Linguistic  Association”,  London, Clowes & Sons, 1976, 531 p.; 421-444  (Reprinted from “WORD”, volume 27, n. 1-2-3);  Harrison G, Callari Galli M.  (a cura  di),   Rapporto conclusivo della  ricerca-formazione  su  operatori  culturali  e  agenzie  socializzanti  nelle  comunità  arbereshe della  provincia  di  Cosenza,  Cosenza,  Formez – L.E.P.  Calabria, 1976, 356 p. + 59 p.  di tabelle e documentazione; Callari Galli M, Harrison G.,  Il bilinguismo “zoppo” degli Albanesi  d’Italia, in  L. Renzi, M. Cortellazzo ( a cura di),  La  lingua  italiana  oggi : un   problema scolastico e sociale, Bologna, Il Mulino, 1977: 425-438; Harrison G., La  doppia  identità  -  Una  vertenza  antropologica  nella  minoranza etnolinguistica  arberesh,  Roma-Caltanissetta, Sciascia Editore, 1979: 333; Callari Galli M.,  Gambarara D, Harrison G., Antropologia   spontanea in   una   comunità bilingue  (Relazione )  al   XI  Congresso   Internazionale  della  Società di Linguistica    Italiana,  Cagliari   27-30  maggio  1977,  in   F. Leoni,   I   dialetti  e  le  lingue delle minoranze di fronte all’italiano, Roma, Bulzoni 1979-1980: 29-44.
15.    Scalia G.M., op.cit.: 40.
16.     Idem: 52.
17.     De Mauro T., Monolinguismo addio, inL’informazione bibliografica,”, XVIII, n.2, 1995: 199-207.
18.     Amari M., Un   periodo delle   Istorie   Siciliane   del   secolo   XIII, Palermo, Poligrafia Empedocle, 1842.
19.     Bosco B., La lezione di Federico II: tolleranza   religiosa   e   razziale, in “Realtà Nuova”, anno LVIII, n. 11-12, 1993: 555 -563.
20.    Tentori T, op. cit.
21.    Sussi E., Minoranza, in F. De Marchi et alii, Nuovo Dizionario  di  Sociologia, Milano,  Edizioni  Paoline,  1987: 1273-1285.
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Matilde Callari Galli, ha insegnato dal 1970 al 2009 Antropologia Culturale alla Università di Bologna. Suoi campi di ricerca particolari sono stati i rapporti tra Cultura ed Educazione, i meccanismi dell’interazione culturale nella vita quotidiana delle città contemporanee, i rapporti tra l’eredità coloniale e gli effetti della    globalizzazione in Cambogia, Laos e Viet Nam. Numerose le sue pubblicazioni.  Ha partecipato a molti Consigli Scientifici ed editoriali specializzati nel settore delle scienze sociali. Nella X Legislatura è stata eletta al Senato della Repubblica. Con G. Harrison ha pubblicato Né leggere né scrivere (1971). Tra le altre opere più significative si segnalano: Antropologia culturale e processi educativi (1993); In Cambogia. Pedagogia del totalitarismo (1997); Antropologia per insegnare (2000); La Tv dei bambini, i bambini della Tv (2003); Nomadismi contemporanei (2004); Culture e conflitto (con Guerzoni e Riccio, 2005); Antropologia senza confini. Percorsi nella contemporaneità (2005).
Gualtiero Harrison, professore ordinario di Antropologia Culturale al Corso di laurea in Scienze della Cultura dell’Università di Modena e Reggio Emilia e Presidente della prima Laurea Magistrale in Teoria e Metodologia della Ricerca Antropologica sulla Contemporaneità. Laureato in Diritto Internazionale e specializzato in Sociologia storicista, Libero docente confermato dal 1974 presso il Dipartimento di Scienze dell’Educazione dell’Università della Calabria. Tra le sue numerose pubblicazioni si segnalano: Né leggere né scrivere (con M. Callari Galli, 1971); Antropologia psicologica (1988); Identità in formazione. Riflessioni antropologiche e gruppoanalitiche per una definzione transculturale del rapporto tra identità ed alterità (con Castiglione, Pagliarani, 1999); I fondamenti antropologici dei diritti umani (2002); Cultural dynamics in development processes (2011).

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