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Shakespeare non è in casa

 

copertinadi Antonio Pane

La casa natale, prima traduzione italiana di The Birthplace, procurata da Sergio Perosa e chiamata a inaugurare la collana «Elitropia» delle edizioni Spartaco di Santa Maria Capua Vetere, è l’ultimo acquisto della mia ‘Henry James Collection’ (avviata, più di quarant’anni addietro, dal memorabile Ritratto di signora tradotto da Pina Sergi per Sansoni). Allestito sulla soglia dei novant’anni, il ‘pezzo’ è l’ennesima tessera del pionieristico lavoro di ricerca e divulgazione che l’illustre studioso conduce, con immutato fervore, dai primi anni Sessanta, e che non finisco di apprezzare.

I suoi raffinati referti – quelli, mettiamo, compresi nei capitoli jamesiani di Vie della narrativa americana (Einaudi, 1980) e di Teorie americane del romanzo 1800-1900 (Bompiani, 1986) o nelle introduzioni ai due volumi di Romanzi brevi (Mondadori, 1985, 1990), – i convegni da lui promossi, come i capitali Henry James a Venezia (1985) e Le traduzioni italiane di Henry James (1999), hanno costantemente assistito i miei avventurosi viaggi, da ebbro amateur «jeté par l’ouragan dans l’éther sans oiseau», nella oceanica produzione di James.

Estendo senz’altro la mia gratitudine a questo manufatto, che ha tutto quel che si può desiderare per una scrittura di Henry James. La briosa e aderente versione è infatti integrata da una pressoché esaustiva premessa (Woodstock batte La Scala), da utilissime note (fra cui si segnalano le motivazioni di alcune scelte del traduttore) e da tre preziose Appendici di carte jamesiane che lumeggiano vari versanti del testo (uno speciale encomio va poi al piccolo editore, che, con il talento impresso nel suo nome, ha offerto un’impaginazione ‘liberale’, declinata in spazi generosi e in caratteri leggibili senza offese oftalmiche).

Passando all’opera vera e propria, il nostro curatore ci informa che si tratta di una nouvelle (il nome che James era solito dare alla forma del racconto lungo o romanzo breve) composta nel 1902, direttamente inclusa, senza una preventiva apparizione in rivista, nella raccolta di racconti The Better Sort (1903), e quindi inserita nel XVII volume (The Altar of the Dead) della New York Edition (1909). Scritta nel pieno della cosiddetta major phase, e nell’insonne fucina dei grandi romanzi della maturità (The Wings of the Dove, 1902; The Ambassadors, 1903; The Golden Bowl, 1904), la prova sembra quasi costituirne un momento di svago, l’ora di ricreazione rubata a impervie fatiche.

Lady Caroline Trevelyan con il figlio Charles, 1871

Lady Caroline Trevelyan con il figlio Charles, di James Karcher, 1871

Sergio Perosa ne registra la «maniera ilare e svagata», i «toni leggeri, da commedia o larvata satira comportamentale», vi rinviene «elementi da feuilleton, da romanzo o racconto d’appendice, contrasti di personaggi e sociali relativamente facili e vistosi, effetti di suspense, rovesciamenti e sorprese a effetto», associandone il clima di divertissement all’uso, inconsueto a quest’altezza, della funzione dell’autore onnisciente, del burattinaio che manovra i suoi fili dall’alto, senza l’intralcio dei ‘punti di vista’, le diffrazioni del ‘narratore interno’.

Un autore che, secondo abitudine, non manca di incidere nei suoi taccuini l’occasione che ha fatto balenare il ‘germe’ del racconto: attinto in loco, a Welcombe, la casa di campagna di Sir George e Lady Caroline Trevelyan situata nei pressi di Stratford-upon-Avon, il «30 o 31 maggio 1901», come si legge nella prima Appendice (che offre anche la parte The Birthplace della prefazione al XVII volume della New York Edition), allorché la sua aristocratica amica gli parla

«dello strano caso della coppia che recentemente (prima degli attuali titolari) per un paio d’anni – o giù di lì – aveva avuto la custodia della casa di Shakespeare – la Casa Natale: mi ha colpito come una possibile piccola donnée. Erano persone tenaci e superiori di Newcastle che avevano accettato il posto con gioia, pensando che fosse fatto proprio per loro, pieno di interesse, dignità, tale da richiedere tutta la loro cultura e raffinatezza etc. Successe invece che alla fine di sei mesi rimasero disgustati e disperati scoprendolo – il loro compito – del tipo che mi figuro io: pieno di impostura, pieno di menzogne e superstizioni loro imposte dalla gran massa di visitatori che pretendono la storia effettiva e impressionante di ogni oggetto, di ogni aspetto della casa, di ogni cosa dubbia – il racconto semplificato, poco scrupoloso, da mandar giù. I due si scoprirono troppo “raffinati”, troppo critici per questo – il pubblico non ammetteva critiche (alla leggenda, tradizione, probabilità, improbabilità) a nessun costo – finendo per contrarre un fiero disgusto intellettuale e morale per il modo con cui dovrebbero andare incontro al pubblico. È tutto quanto offre l’aneddoto – tranne che dopo un po’ non ne potevano più e diedero le dimissioni. Può esserci qualcosa – qualcosa di più, voglio dire, dei fatti puri e semplici».

Confrontata con il suo esito narrativo, la pagina del sesto Notebook (che riporto quasi per intero, chiedendone venia) illustra come meglio non si potrebbe il ‘metodo James’ e, oserei dire, la qualità stessa della sua mente. I temi che la vita gli propone (perché vuol essere e rimane uno scrittore della realtà) sono per James il punto di partenza di un ‘trattamento’ che può portare lontano. Lo dimostra, ad esempio, il ‘germe’ del monumentale The Ambassadors, che l’appunto datato «Torquay, october 31st 1895» (Notebook V) dice scaturito da «10 words» pronunciate, secondo la testimonianza di Jonathan Sturges, da William D. Howells: «Oh, you are young, you are young – be glad of it: be glad of it and live. Live all you can: it’s a mistake no to. It doesn’t so much matter what you do – but live. This place make it all come over me. I see it now. I haven’t done so – and now I’m old. It’s too late. It has gone past me – I’ve lost it. You have time. You are young. Live!».

Come un Bach della narrativa, James sapeva costruire su un minimo spunto grandiose architetture, cattedrali di variazioni, quasi equivalenti letterari di un’Arte della fuga o di un’Offerta musicale, sebbene l’aneddoto di Welcombe dia luogo ‘solo’ a una vivace composizione da camera, una godibile ‘serenata’ che mantiene egregiamente la promessa (o la minaccia) di quel «Può esserci qualcosa – qualcosa di più, voglio dire, dei fatti puri e semplici».

Ingresso alla casa Natale di Shakespeare

Ingresso alla casa Natale di Shakespeare

La ‘maggiorazione’ investe qui in primo luogo la coppia incaricata di custodire quella che a sua volta diviene, con trasparente allusione, «la casa giovanile del supremo poeta, la Mecca della razza anglofona» (the early home of the supreme poet, the Mecca of the English-speaking race). Morris e Isabella Gedge appaiono invero decisamente diversi dalle «persone tenaci e superiori di Newcastle» che ne sarebbero i modelli. Anche se dimostreranno un’indubbia tenacia nel difendere a ogni prezzo la sinecura ‘piovuta dal cielo’, denunciano una condizione più che modesta: a Blackport-on-Dwindle, l’immaginario villaggio dal nome quasi parodico in cui li troviamo al principio della vicenda, e dove il marito è addetto alla biblioteca comunale «tutta granito, nebbia e narrativa femminile» (all granite, fog and female fiction), stanno a pigione in locali «del più basso rango» (of the lowest description).

Il loro livello intellettuale è ben riassunto da questa arzigogolata ma incisiva pointe su Morris (Isabella si muove da casalinga ‘con pretese’): «la sua intelligenza comune – riconosciuta come suo punto forte – si riteneva per unanime consenso meno sottoposta a tensione della padronanza dei particolari in cui lo si considerava deficitario» (his general intelligence – admittedly his strong point – was doubtless imaged, around him, as feeling less of a strain than that mastery of particulars in which he was recognised as weak). Dissimile anche il loro destino lavorativo (non si licenzieranno, pur correndo seriamente il rischio di perdere il posto), nonché la gestione del disagio ‘professionale’ (la ‘crisi di coscienza’ sarà interamente addossata a Morris, mentre Isabella rimarrà una fedele osservante della menzogna ‘necessaria’).

La scelta di una fauna umana così distante da quella degli ambienti altoborghesi o aristocratici che costituivano i suoi scenari abituali poteva portarsi dietro i problemi di credibilità accusati da James le rarissime volte che gli era avvenuto di misurare cose lontane dalla sua diretta apprensione (penso, per dirne una, alla sensibilità ‘sovraesposta’ dell’impiegata postale di In the cage). L’atmosfera da situation comedy e la conseguente adozione di un registro ironico-grottesco valgono nel frangente a sollevarlo dall’obbligo di una stretta verosimiglianza. Inverosimili, in rapporto alla natura del ‘tipo’, sono soprattutto i pensieri scespiriani di Morris, come la considerazione sulla ‘elusività’ dell’uomo Shakespeare: «Egli ci sfugge come un ladro di notte, portando via… be’ portandosi via tutto. E la gente pretende di acchiapparlo come un canarino volato via, serrando la mano e rimettendolo al suo posto» (He escapes us like a thief at night, carrying off – well, carrying off everything. And people pretend to catch Him like a flown canary, over whom you can close your hand, and put Him back in the cage).

In questi casi James, raddoppiando il gioco, non si perita di attribuire al personaggio le proprie idee su Shakespeare (in particolare quelle sul rapporto fra l’immensità dell’opera e la scheletrica biografia, opportunamente documentate nella terza Appendice), ma condotte, suggerisce con acume Perosa, «all’estremo, a una sorta di assolutezza quasi metafisica», così come nello sproloquio finale di Morris (il ‘pezzo di bravura’ che alza beffardamente in trionfo le risibili aspettative sulla casa-museo) potrebbe aver depositato «il gusto dell’invenzione, della manipolazione e trasfigurazione dei fatti» dello stesso Bardo: Morris «finisce per mostrare come funzioni il mistero della creazione “artistica” e dell’elaborata fabbricazione dal nulla, con tutte le contraddizioni, mistificazioni e dissacrazioni che ciò comporta».

La Casa Natale di Shakespeare

La Casa Natale di Shakespeare

Con lo stesso criterio ‘ludico’, James introduce anche in questo lavoro ‘minore’ certe sue invarianti: un fiato di fantasmi, che dal «semplice incantesimo, la presenza mistica» (the mere spell, the mystic presence) aleggiante nella Casa, evolverà nell’«incantesimo di mute sessioni» (spell of silent sessions) perigliosamente saggiato da Morris «under the play of the shifted lamp and that of his own emotion» (Perosa vi indica un tacito rimando al sonetto XX di Shakespeare, da unire al «the pound of flesh» e al «The play’s the thing», direttamente prelevati dal Mercante di Venezia e dall’Amleto), provocando l’«antidoto domestico» (domestic antidote), «sotto forma di tende più segnatamente tirate» (in the shape of curtains more markedly drawn), dell’accorta Isabella; e il prediletto ‘tema internazionale’, nelle figure dei ‘coniugi Hayes di New York’ (Mr. and Mrs. B. D. Hayes, New York), i ‘turisti di lusso’ che presidiano le due scene-chiave (quella in cui Morris rivela la sua insofferenza per le fandonie che è costretto a propalare, e l’altra che vede la sua sorprendente metamorfosi a contafrottole e imbonitore capo) con un simpatico ruolo di ‘spalle’ che inverte il canone della ‘semplicità’ americana per farne, agli occhi dell’inglese, un ideale di squisitezza, una epifania della «buona società» da cui si sente escluso: «Erano tutto quanto lui e sua moglie non erano» (They were everything he and his wife weren’t), riflette Morris, che è portato ad ammirarne «il tono di scherzo, di scherzo superiore» (the tone of pleasantry, though of better pleasantry), spingendosi spudorato a sognare «una moglie come lei» (such a wife as you). Della proverbiale naïveté statunitense rimane comunque una traccia nell’obliqua ammissione di Mr. Hayes: «ci sono amabili milioni da noi che non sono altro che bambini» (there are amiable millions with us who are but small shrieking children).

Un’analoga allure hanno le simmetriche gags dell’‘uomo di peso’ che ha in mano la vita dei Gedge. Dell’«alto papavero» abbiamo dapprima, a marcarne l’insondabilità, solo il minaccioso dettaglio dell’«ampia, ben formata schiena di Grant-Jackson, la schiena di un banchiere e patriota» (Grant-Jackson’s broad well-fitted back, the back of a banker and a patriot), abbinato al disarmante «Guardi signor Gedge, così semplicemente non va» (You know, Mr. Gedge, that it simply won’t do), e lo vediamo più tardi assembrato, in vista dell’inappellabile sentenza, a «un domatore nella gabbia, attillato, tutto lustrini e atteggiamenti da circo, pronto a dare a quel destino una staffilata con la sua bella frusta regolamentare per farlo balzare su di lui» (a beast-tamer in a cage, all tights and spangles and circus attitudes, to give it a cut with the smart official whip and make it spring at him).

Vi si aggiungono, a completare il quadro ‘comico’, la macchietta della signorina Purchin, precedente ‘tenutaria’ della casa, «sacerdotessa in seta nera» (priestess in black silk) che non fa letteralmente una piega, «cometa umana» (human comet) che addita sicura l’unica via da seguire, prevenendo ogni velleità di eresia, e, diagonalmente, quello che sembra un malizioso scherzo (arduo da restituire nella traduzione) sul nome Gedge, per di più collocato nel punto di massima tensione, quando cioè il suo detentore, afflitto da un misto di «depressione ed esaltazione» (depression and exhilaration), ha finito di maturare il ribrezzo per l’attività di ciarlatano, sentendosi ‘in gabbia’: «He was gagged, he was goaded» (Era imbavagliato, pungolato alle costole).

Henry James

Henry James

Entro questa temperie James trova il modo di immettere una sua allarmata diagnosi sui pericoli di quella massificazione e mercificazione dei fatti culturali che agli inizi del Novecento muoveva i primi passi e che è oggi divenuta valanga, rilevandone le «ondate piene, rapide e continue» (full swift and steady stream), «l’ottusità di quella gente gregaria» (the great gregarious density), «La mera espressione degli occhi, creduli a tutto, onnivori e inumiditi, con cui molte persone si guardavano intorno» (The mere expression of eye, all-credulous, omnivorous and fairly moistening in the act, with which many persons gazed about), la violenza tribale annidata in individui mansueti ma «gregariously ferocious» (non lontani da quelli che Canetti descriverà in Masse und Macht), fino alla premonizione di un fenomeno oggi dilagante: «Gedge era dell’idea che alla fine ci sarebbe stato un buffet appaltato a una grande azienda» (Gedge had his view that there would eventually be a buffet farmed out to a great firm).

Il lato ‘serio’ del libro è d’altronde attestato, in vari luoghi, da colpi d’ala, graffi d’autore che, come sempre con James, mi lasciano a bocca aperta. Al termine del capitolo VI, quando Morris, scampato per miracolo alla destituzione, si è ormai piegato alla sua parte di ‘cantore del nulla’ (poco avanti si è asciugato le liberatorie lacrime «with the pads formed by the base of his bony thumbs»), il suo sguardo ruota, con indicibile malinconia, e con una cadenza che ritrovo nel finale del joyciano The Dead (1914), «dal loro piccolo cerchio caldo verso la notte di primo inverno al di là del vetro della finestra, ai rari, rapidi passi, alle porte sbarrate, alle tendine tirate come la loro, dietro alle quali la cittadina piatta, intrinsecamente tediosa, si metteva a tavola per la cena» (his eyes again moved from their little warm circle to the night of early winter on the other side of the pane, to the rare quick footsteps, to the closed doors, to the curtains drawn like their own, behind which the small flat town, intrinsically dull, was sitting down to supper).

Nel capitolo IV il pensiero di Morris sull’ottusità del pubblico sembra comporre, e contrario, una dichiarazione di poetica del suo creatore: «Era un atteggiamento del tutto privo di gradazioni e sfumature, l’atteggiamento di voler tutto o nulla» (This was an attitude that had nothing to do with degrees and shades, the attitude of wanting all or nothing). James era tutto «gradazioni e sfumature», ma sapeva, a volerlo, essere lapidario. Nelle ultime pagine del libro fulminerà in poche battute il carattere dei suoi modici eroi. Di Morris dirà: «Si era reso ingiustizia da solo» (He had done himself injustice). Di Isabella: «Era la casalinga a capo scoperto che in istrada parla del litigio di famiglia» (She was the bareheaded good wife talking in the street about the row in the house). E il «Lui non è il luogo» (He isn’t the place) messo in bocca a Morris definirà, una volta per tutte, la colpa originaria, il ‘marcio’ della Casa Natale.

Dialoghi Mediterranei, n. 56, luglio 2022

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Antonio Pane, dottore di ricerca e studioso di letteratura italiana contemporanea, ha curato la pubblicazione di scritti inediti o rari di Angelo Maria Ripellino, Antonio Pizzuto, Angelo Fiore, Lucio Piccolo, Salvatore Spinelli, Simone Ciani, autori cui ha anche dedicato vari saggi: quelli su Pizzuto sono parzialmente raccolti nel volume Il leggibile Pizzuto (Firenze, Polistampa, 1999).

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