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Scrittura e giustizia. La voce degli studenti

Catania, Monastero delle Benedettine sede dell'Università (ph.

Catania, Monastero dei Benedettini sede del Dipartimento di Scienze Umanistiche dell’Università (ph. Sarah Dierna)

per la scuola

Alberto Giovanni Biuso [*] 

Alla fine dello scorso anno, esattamente il 28 dicembre 2021, dopo aver letto alcune pagine non particolarmente corrette di un tesista, decisi di inviare ai miei laureati e laureandi una lettera dal titolo Scrittura e giustizia. Ricevetti numerose, ampie, differenti risposte.

Con il consenso degli studenti, pubblico qui la mia lettera e le risposte. Gli autori si firmarono tutti. Due studenti hanno preferito apparire soltanto con le iniziali. Nel pubblicare le loro lettere ho integrato i dati ponendo tra parentesi quadre le parti mancanti del nome. Trascrivo qui le lettere nell’ordine alfabetico dei nomi dei loro autori. Naturalmente non ho modificato nulla dei testi che mi sono pervenuti. 

«Cari studenti e laureandi, 
anche stamattina – come tutti i giorni – ho iniziato il mio lavoro leggendo delle recensioni di alcuni di voi e, di fronte al ripetuto e diffuso fenomeno di scritture brillanti e sicure intervallate da errori tanto banali quanto gravi e incomprensibili (e che non siano semplici refusi), mi sono chiesto: perché accade una cosa del genere?
Se siete miei laureandi vuol dire che padroneggiate la scrittura. E allora? Come si spiega? Mi è venuta in mente una risposta che vorrei condividere con voi anche per sapere, se volete dirmelo, che cosa ne pensate. Una risposta che nasce sulla base della mia lunga esperienza di docente nei licei, anche di italiano (i primi anni).
Ho pensato che di fronte al cumulo enorme di impegni burocratici al quale devono sottostare i professori delle scuole (e ormai anche quelli universitari); di fronte alle pochissime ore a disposizione, erose da una serie di attività che nulla hanno a che vedere con i programmi di studio; di fronte all’enfasi, all’obbligo, all’intimazione di seguire “i più fragili” tra gli studenti, i professori di italiano e anche di altre discipline si dicono “Mario, Giovanna, sono bravi, sanno scrivere e quindi invece di intervenire sui loro testi già buoni, dedicherò maggiore attenzione a quelli di Roberto, Livia, che invece sono deboli e hanno maggiore bisogno”. 
Non è necessario che questo ragionamento diventi consapevole, il punto è che diventa azione. Un’azione che ha come conseguenza trascurare la formazione degli studenti migliori a vantaggio dei peggiori. Così, mi sono detto, si spiega l’enigmatico fatto che *** scrive di norma bene e correttamente e poi però cade in errori e ingenuità stilistiche tanto clamorose.
Se tale spiegazione è plausibile, vi sembra giustizia questa? A me no. Penso invece che l’enfasi, naturalmente per lo più finta, retorica, ideologica, sui deboli si trasformi in grave ingiustizia nei confronti di coloro che potrebbero dare i contributi migliori a se stessi e al vivere collettivo.
Forse ha ancora una volta ragione Nietzsche quando invita i forti a guardarsi dai deboli. Ma Nietzsche ha un’idea degli umani e della vita molto, molto lontana dalla miseria contemporanea.
Tutto questo troppo lungo dire ha in realtà un secondo obiettivo: augurarvi un nuovo anno di gratificazioni, di forza, di scrittura sempre più matura, lucida, coinvolgente e consapevole. 
Perché la scrittura è l’essenza del pensare, il geroglifico del mondo, la pienezza della mente, il lampeggiare dell’intelligenza, il senso di una vita umana capace di lasciare traccia di sé nel tempo al di là del tempo che si è.
La scrittura è la gioia. Vi auguro di assaporarla sempre nelle vostre vite».
Biuso 
Edwin Mlemert

Edwin Lemert

«Caro professore,

trovo importanti le sue osservazioni, che mi sembrano giuste fino in fondo, e ne farò tesoro per il futuro, nel caso avessi la fortuna di insegnare. Anche questo, credo, è uno degli effetti della nostra società consumista, ove il soggetto è sempre più portato (e incoraggiato) a seguire il suo piacere immediato e individuale, e diventa sempre più difficile mettere a frutto le proprie capacità per il benessere collettivo. Semplicemente perché non siamo più in grado di ragionare come collettivo, e abbiamo perso il valore del sacrificio e dello sforzo che inevitabilmente lo studio comporta. 

Il mio caso, però, credo sia un po’ diverso da quello da lei descritto. A scuola (sin dalle elementari) non sono mai stato uno dei migliori, e anzi mi sono sentito “etichettato” (nel senso della teoria di Edwin Lemert) come uno degli studenti più pigri e più devianti. Nel corso degli anni, senza mai averlo voluto e anzi vivendolo con molta tristezza, ho iniziato a comportarmi esattamente nel modo in cui mi sentivo etichettato. Anzi, posso dire che la mia identità è stata costruita sulla base di questo etichettamento. E le mie azioni (sia quotidiane, ma in alcuni casi anche eclatanti) non facevano che confermare l’opinione che i docenti avevano di me. Per questo alle medie e alle superiori non ho mai speso lungo tempo nello studio benché le mie capacità (mai sfruttate) mi avrebbero permesso di arrivare più lontano. Invece passavo molto tempo per strada a fare bravate o a casa con i videogiochi. E così si spiegano le mie carenze non solo nelle materie scientifiche, ma anche nel latino, nell’italiano. 

Solo il ritrovato amore per lo studio (all’università) mi ha permesso di acquisire un’identità lontana da quella che avevo assimilato in ambiente scolastico. Le mie capacità sono state inespresse per lungo tempo sia per una mancanza di una autodisciplina e un rigore mai appresi, sia perché la devianza era ormai diventata parte della mia identità. L’università è stata un’emancipazione da una pigrizia e un’ignoranza che non avevo mai voluto o scelto. 

Quindi in conclusione, sì, le do ragione. Ma penso anche che la scuola sia così degenerata che i docenti oggi non abbiano il tempo (a volte neanche la voglia) di occuparsi né dei migliori né degli ultimi. Ogni studente ha esigenze diverse, per esprimere se stesso. Non so di cosa avrei avuto bisogno per arrivare ad amare lo studio come oggi, ma di certo sono grato di aver conosciuto all’università docenti così appassionati e appassionanti, che credo siano un esempio e uno stimolo a fare sempre meglio. Spero, se potrò, di poter essere un esempio a mia volta, in futuro. 

Un caro saluto».

[Davide] Amato 

Marcel Proust

Marcel Proust

«Caro professore,

la ringrazio per questa mail che tocca due punti a me molto cari: l’equità e la scrittura. Le esprimo, come sempre, in modo schietto la mia opinione, che questa volta diverge molto dalla sua.

Forse lei ha la fortuna di ricordare una scuola più inclusiva, nella quale l’obiettivo era la formazione, con tutti i suoi limiti, e il metodo era l’equità, per portare tutti sullo stesso piano. La scuola contemporanea, invece, mi pare sommersa di mille altri progetti che lasciano la didattica e le pari opportunità non al secondo, non al terzo ma all’ultimo posto. Come sa, ho seguito diversi ragazzi con disturbi di apprendimento o anche semplicemente senza basi, scoraggiati e con poca voglia, in ogni caso “deboli” e indietro, e le posso garantire che oggi la situazione è ribaltata: gli insegnanti non hanno il tempo di portare facilmente avanti neanche i “bravi”, figuriamoci i “deboli”. Oggi chi è debole resta debole, chi è forte o resta forte oppure non è abbastanza seguito e diventa debole. Ma di quest’ultimo caso non si può trovare la spiegazione né nei deboli né in chi cerca di aiutarli. Tra l’altro, con buona pace di Nietzsche, che in questo mi perdonerà, per quanto la morale cattolica possa essere stata assorbita, io non credo che i fragili in questione riescano a danneggiare a questi livelli. I deboli, caro professore, per chi è forte davvero, sono indifferenti, e non dannosi.

Ora, naturalmente non ho idea di quali errori le sono capitati sott’occhio e le abbiano suscitato questa riflessione. E non voglio neanche mettere in questione la qualità della selezione che lei opera per seguire gli studenti, perché la conosco e so che la spiegazione non è neanche lì. Secondo me, il problema è il concetto di Accademia che viene trasmesso negli ambienti universitari. L’attività accademica, infatti, consiste nel produrre risultati scientifici, che per un umanista non può non voler dire produzione di testi. Vede, purtroppo c’è una buona fetta di questo modo che guarda più allo stile — alto, complesso, finanche barocco — e, naturalmente ma dopo, ai contenuti, senza però valutare se questa produzione sia radicata su un terreno di esperienza e riflessione o sia solo il risultato di una bella composizione di contenuti già studiati proposti in un bello stile elegante.

Ecco, secondo me l’ingenuità stilistica non è da ricondurre a una capacità di padroneggiare la scrittura cui è stata sottratto un supporto (che certamente è fondamentale per crescere!). Le cadute di stile sono lo specchio dei tentativi di forzare un lessico e un contenuto che non sono radicati nella vita. È successo anche a me, perciò spero che le mie parole non suonino sprezzante verso niente e nessuno: per quanto abbia potuto comprendere delle lezioni e/o usare la mia sensibilità — che, se l’ha potuta conoscere in questi anni, sa che non è il commuoversi davanti a qualcosa di commovente — per scrutare nelle persone e nelle situazioni, non sono comunque riuscita a mettere per iscritto questi mondi senza prima averli maturati interiormente come esperienze, vissuti direbbero i miei Autori. Per tutto ciò, io non mi chiederei se questi talenti — filosofici, immagino, ma il discorso è universale — sono stati curanti, ma se la loro scrittura è una scrittura vissuta. Senza escludere me stessa, ci tengo a ripetere. E sono certa che Proust direbbe proprio così: le radici della scrittura sono nella vita, e non si può scrivere senza affondare la penna sul terreno dell’esperienza prima che sul foglio.

Le scrivo da Roma (di nuovo) e non so quando tornerò a Catania, ma intanto immagino che gli auguri di un buon anno ricco di pienezza, inviati da qui, possano aspirare a essere eterni e andare ben oltre il 2022. Dal canto mio, invece, la ringrazio: proseguirò nelle mie attività di scrittura tenendo presente il legame profondo tra scrittura e gioia. 

Un caro saluto». 

Daria [Baglieri] 

Catania, Monastero delle Benedettine sede del Dipartimento di Scienze Umanistiche dell'Università (ph. Sarah Diema

Catania, Monastero dei Benedettini sede del Dipartimento di Scienze Umanistiche dell’Università (ph. Sarah Dierna

«Gentile prof. Biuso,

da studente mi trovo d’accordo con quanto scritto da lei nella mail “Scrittura e giustizia”. Non le nego che ai tempi del liceo non ricevevo mai correzioni sintattiche e/o lessicali: i risultati sono gli errori nelle recensioni che le invio.

Colgo l’occasione per ringraziarla dell’inserimento del mio nome all’interno della pagina “Laureandi” del suo sito. 

Le auguro, inoltre, un sereno e proficuo 2022.

Distinti saluti».

Amedeo Barbagallo 

«Gent. Prof.

In merito alle sue righe relative alla scrittura, forse poco potrà contare quello che dico perché di poco si tratta, però non escluderei l’utilizzo della scrittura ‘digitale’ (personalmente, me ne rendo conto utilizzando il cellulare), sia da parte di chi insegna, sia da parte degli allievi.  Mi viene il dubbio che manchi proprio la ‘percezione’ la ‘visibilità’ dell’errore. Quando usiamo il cellulare ci pensa infatti il correttore automatico ad aggiungere un accento sulla ‘e’ o l’apostrofo dopo l’articolo, non ci si fa quindi caso, o meglio, si scrive sicuri che il correttore “farà la sua” poi. 

Mi capita spesso quando scrivo in una lingua diversa dall’italiano.  Se utilizzo lo smartphone è facile perché non devo fare molto (il che mi impedisce di apprenderlo effettivamente, l’errore), se invece utilizzo la pagina Word, il massimo della fatica consiste nel pigiare col tasto destro e guardare la forma corretta, ma anche in questo caso non credo di aver memorizzato lo sbaglio ortografico o di costruzione della frase. La conferma è che la volta successiva sbaglierò di nuovo o non saprò ancora come scrivere quella parola. 

Credo quindi che l’uso dei dispositivi, sia da parte degli studenti, sia da parte degli insegnanti possa influire. Con questo non voglio dire che siamo diventati incompetenti o abbiamo dimenticato la grammatica (per questo ho parlato di percezione dell’errore)». 

[SD] 

«Caro Prof, rispondo volentieri alla mail: “Scrittura e giustizia”. Concordo su quanto afferma. Purtroppo siamo sommersi di burocrazie, riunioni interminabili e corsi di aggiornamento spesso inutili ai fini dell’insegnamento. Penso che, nell’organizzazione a monte, non si dia importanza alla “Persona” nella sua globalità psicofisica, al “corpomente”. Ecco perché si parcellizza il sapere, si considera lo studente a compartimenti stagni e, di conseguenza si dà più importanza al debole a discapito del più forte. 

Personalmente amo i miei alunni e li scruto singolarmente entrando nel loro mondo psicologico pian pianino. Tutti hanno qualcosa da imparare anche se in modo diverso. Tutti nella loro diversità sono utili per gli altri. È anche vero che le lezioni di filosofia della mente mi hanno aperto un mondo e da quando ho iniziato a seguirla Prof. la mia visione della vita e della scuola si è evoluta in senso ampio ed olistico. Certamente Nietzsche è un maestro eccellente. 

Detto ciò, la ringrazio dell’augurio sulla scrittura e le auguro un anno nuovo importante e di pace. 

Mi scuso per la risposta breve ma di cuore!

[GG]

«Gentile Professore,

La ringrazio molto per questi auguri, spero attraverso l’esercizio di poter scrivere con maggior chiarezza e precisione evitando gli “errori banali” che lei ha citato e che non dovrebbero verificarsi.

Per quanto riguarda la sua riflessione e in merito alla mia esperienza al liceo posso affermare che gli insegnanti spesso non riescono del tutto a fornire strumenti adeguati ai ragazzi per coltivare le proprie potenzialità e peculiarità. Questo può accadere per innumerevoli motivi, tra cui ad esempio la discontinuità didattica e l’eccessivo numero di alunni in classe, anche con la presenza di ottimi insegnanti.

Nonostante questo fattore, che dipende probabilmente da una complessità del sistema scolastico che forse dovrebbe essere modificato, io ho ritrovato nella maggior parte dei miei insegnanti una guida durante gli anni di scuola. In particolar modo la mia insegnante di storia e filosofia è stata fondamentale per la scelta del mio percorso universitario.

Auguro anche a lei un sereno anno nuovo.

Cordiali Saluti».

Martina Orsina 

Roberto Longhi, ritratto di Amerigo Bartoli

Roberto Longhi, ritratto di Amerigo Bartoli

«Caro professore,

la ringrazio intanto per questa lettera e per la condivisione.

Non so dire in quali casi da lei descritti rientrerei, però provo anch’io questo sentimento, cioè di commettere degli errori o delle sviste che dopo le sue correzioni mi fanno esclamare: «Ma che scemo!». A dirle il vero, dato anche l’essere arrivato ormai al terzo anno di dottorato, dovrei anche poter contare solo su me stesso senza costringerla a revisionare puntualmente ogni cosa che scrivo, per la tesi o per le riviste. E ciò mi dà modo di ringraziarla, credo a nome di tutti, per questa ammirevole parte del suo lavoro.

Sulla risposta che dà sono un po’ perplesso. È vero che i più fragili necessitano di maggiori attenzioni, ma nella mia esperienza le insegnanti di liceo che si erano affezionate di più a me (guarda caso di lettere e di filosofia), pur con i voti sempre alti che prendevo, mi facevano notare ogni volta errori o punti su cui migliorare, dedicandomi anche più tempo di quello che forse avrei meritato.

Per quello che posso dire, al netto di sviste o refusi che possono capitare a tutti, mi accorgo di incorrere in errori quando cerco di dire in modo immotivatamente complesso ciò che avrei potuto esprimere con brevità e chiarezza, la quale, se ho capito bene, è in fondo la sua grande lezione. Brevi ma densi, incisivi e precisi. 

Tuttavia, confesso di avere quello che Longhi chiamava il “vizio barocco del critico”, direi anche gusto. I quadri, i romanzi, i trattati, le poesie sono sempre quelli, a cambiare sono gli sguardi in parole che li colgono e li esprimono. A fronte di centinaia di critici, pur acuti ma caduti nell’oblio, la scrittura di Longhi viene ancora studiata e apprezzata. Il problema è che non tutti sono Longhi, e difatti quelli che non lo sono sbagliano, o si limitano a una chiarezza semplice a quel punto anche sterile e banale. 

In ogni caso, forse è proprio la bravura a far sembrare gli errori più gravi e clamorosi, un po’ come Kissin che stecca una nota o Hamilton che sbaglia un inserimento in curva nel giro secco da qualifica, tanto da chiedersi: «Ma come hanno fatto loro a sbagliare in modo così grossolano!?».

Non so se quello che ho detto coglie il punto e se le può servire.

Ricambio i suoi auguri».

Enrico [Palma] 

Maritaine

Raissa Maritain

«Caro professore,

la ringrazio per questa mail che anticipa in parte un tema che avrei voluto affrontare a breve e che anticipo, seppur di poco, insieme alla risposta alle questioni che pone.

Ricordo distintamente quando nel corso dell’incontro scuola-famiglia del primo quadrimestre del secondo anno di scuole medie, alla richiesta di motivare il perché la professoressa di tecnologia avesse assegnato a tutti gli alunni lo stesso voto, sufficiente, la professoressa in questione rispose: «perché così sono tutti uguali, altrimenti alcuni non avrebbero superato neanche il primo quadrimestre».

Poco tempo dopo, alla fine del quinto ginnasio, ebbi modo di vivere una situazione simile, sebbene più grave. La professoressa di italiano, storia e geografia si ammalò gravemente all’inizio del secondo quadrimestre e venne sostituita da una giovane supplente. I 10 divennero 8, 6, 4 o addirittura 1 e lo divennero meritatamente. Neanche a dirlo la situazione suscitò non poco scalpore. Mentre infatti io e pochi altri eravamo contenti di poter finalmente leggere Manzoni e, in generale, affrontare i programmi di italiano, storia e geografia, e non passare le giornate a leggere sempre lo stesso libro e le stesse poesie (per tutto il tempo del suo insegnamento la professoressa di ruolo in questione non fece altro che leggere in aula I grandi amici di Raïssa Maritain e le poesie di Guido Gozzano), il problema della classe era la scomparsa repentina dei 10. Inutile dire che il disastro prospettato per molti a fine anno fu in larga parte evitato da un salvifico ritorno della professoressa di ruolo e, con lei, dal ritorno dei 10, dove necessari.

Purtroppo potrei continuare, ma credo di potermi fermare qui.

Il danno causato nei soggetti più capaci e indipendenti da questi comportamenti, così frequenti da costituire quasi la regola, come lei sa benissimo, emerge molto più avanti, quando la persona in questione si trova a intraprendere un compito di un certo valore e di una certa importanza rispetto alle tappe precedenti, ai compiti, agli esami. È qui che diventano evidenti le ruggini e le piccole mancanze del percorso, elementi che tutte insieme concorrono a rallentare lo sviluppo di un individuo, a rallentare il raggiungimento del suo pieno potenziale seminando delle piccole mine che verranno ritrovate a tempo debito.

Criticità come queste non possono non emergere nel corso di un lavoro rigoroso e approfondito come quello che tutti noi intraprendiamo con lei. Ci sarebbero infatti molte altre vie da intraprendere, certamente più semplici, proprio perché si parla di individui che sono capaci e che non avrebbero alcun problema a rimanere a un livello più superficiale, anzi. È anche per evitare tutto questo, e per me lo è stato sicuramente, insieme alla curiosità, al piacere dello studio, al piacere del pensare e alla passione per un tema, che rimarrebbe nonostante tutto, è per operare finalmente a un livello diverso, non più superficiale e in grado di coinvolgere tutte le capacità di cui si dispone, che si sceglie di portare a termine un percorso come questo.

Se è vero che dipende da ognuno di noi scegliere e rimanere nel solco di una certa via, che “siamo solo quello che abbiamo la forza di pretendere da noi”, credo anche di riconoscermi e di riconoscere con me anche altre persone, seppur in modi e per motivi diversi, nelle sue parole e nelle parole di Nietzsche. E no, non credo che tutto questo sia giustizia».

[Marcosebastiano Patanè] 

Nitetzshe

Nietzsche

«Caro Professore Biuso,

la ringrazio per aver condiviso questa sua importante riflessione sulla scrittura. Condivido anche io la sua idea/risposta in merito al quesito che ha posto. Viviamo un’idea di giustizia totalmente distorta e ipocrita che si riversa dalle dinamiche sociali a quelle individuali generando, spesso, aporie, contraddizioni e ingiustizie. La parola tragica di Eschilo è maestra nell’indicare questo inganno di cui la nostra società si ciba continuamente e in ogni ambito. La compassione verso i deboli, come ci ha insegnato il maestro Nietzsche, può essere colpevole di spegnere un grande destino quando è un impulso incontrollato e totalitario. In questo caso allora sì: la compassione è chiamata virtù solo fra i décadents (F. Nietzsche, Ecce HomoPerché sono così saggio, 4), poiché distrugge quel pàthos della distanza necessario per la vera emancipazione del più debole, ovvero: in molti casi il più fragile avrebbe bisogno della distanza per essere stimolato a fare di più, al posto di quella forma di attenzione, di cui lei ha raccontato, che si rivela essere ingiustizia nei confronti dei più preparati in nome di una giustizia parziale. Purtroppo, anche le varie forme della pedagogia contemporanea riportano le metastasi del politicamente corretto.

Se nel corso degli ultimi due anni la mia scrittura ha avuto grandi miglioramenti in termini di stile, di rigore e di precisione è merito suo. E non solo nei termini prima elencati: lei mi ha trasmesso l’idea della dimensione sacrale della scrittura come pienezza che può (e, per uno studioso, deve) accompagnare il vivere quotidiano, poiché ha il potere di trasfigurare l’angoscia e il torpore dell’esistenza in gioia benedicente la finitudine che siamo. Auguro anche a lei un nuovo anno pieno di scrittura e di pienezza.

Ho letto il programma del corso di Filosofia Teoretica (Teologie gnostiche) che terrà il prossimo semestre. È davvero interessante e spero di poter seguire le lezioni in presenza, se sarà possibile. A gennaio sarà possibile incontrarla in presenza per il suo ricevimento?

Un caro saluto, e ancora auguri».

Stefano [Piazzese] 

Catania, Monastero delle Benedettine sede dell Dipartimento di Scienze Umanistiche dell'Università (ph. Sarh Diema)

Catania, Monastero dei Benedettini sede del Dipartimento di Scienze Umanistiche dell’Università (ph. Sarah Dierna)

«Gentile professore, 

ho letto con interesse la Sua risposta a una domanda che più volte mi sono posta. Le propongo la questione dal mio punto di vista, quello di un’ex liceale.

Le conclusioni da Lei tratte mi sembrano plausibili: prediligere il più fragile a scapito del più forte è un’ingiustizia a tutti gli effetti; ingiustizia che verrebbe ugualmente commessa qualora ad essere privilegiato fosse il più forte. Tuttavia, sulla scorta della mia personale esperienza, ritengo che il problema dato dall’inadeguatezza della preparazione degli studenti universitari coinvolga tutta una serie di fenomeni riconducibili al disinteresse di alcuni docenti piuttosto che alla polarità fragile-forte. Un simile disinteresse non ha come conseguenza la trascuratezza degli studenti migliori, ma la trascuratezza degli studenti in generale.

Dei miei anni al liceo conservo vivido il ricordo dei primi giorni di scuola dopo le vacanze. I docenti raccontavano di quanto fosse stata dura evitare la bocciatura di Tizio, il quale, poi, avrebbe necessitato dell’aiuto dei suoi compagni di classe o di insegnanti a pagamento per ovviare alle sue carenze – accentuate dalla negligenza di coloro i quali avrebbero dovuto essere i suoi educatori. Chi aveva del potenziale, invece, andava seguito necessariamente. Andava seguito perché, una volta iscritto a qualche olimpiade nazionale, avrebbe assicurato al Liceo Mègara una pagina di giornale e un posto in graduatoria tra i migliori istituti della provincia di Siracusa. Grazie a quell’olimpiade, lo studente migliore avrebbe guadagnato un bel nove politico in pagella. Poi, una volta iscritto all’università, avrebbe dovuto assistere allo sgretolarsi di quel piedistallo di vetro sul quale era stato collocato. Anche i migliori, alla fine, fragili lo erano diventati. O lo erano sempre stati.

Sono stata una studentessa fragile, forte mi ci sono sentita a tratti. Fragile lo sono stata quando il docente di italiano e latino preferì contestare il mio modo di pensare – a suo dire troppo distante dai suoi paradigmi – piuttosto che discutere delle mie carenze. Forte mi ci sono sentita tutte quelle volte in cui qualche docente era disposto a dedicarmi un po’ del suo tempo dopo la lezione; quando il riconoscimento dei miei meriti era seguito da un’analisi critica, autorevole e obiettiva del mio percorso, non sempre in salita.

Ecco, dunque, la mia proposta: le pochissime ore a disposizione, la corsa ai programmi ministeriali e gli impegni burocratici dei quali deve farsi carico un docente non possono esimere lo stesso dai suoi doveri.

Forse, il ruolo dell’educatore consiste nell’evitare a tutti i costi l’accentuarsi ingiusto di una polarità che di fatto esiste. Un docente dovrebbe curarsi di tutti i suoi studenti, al di là di ogni impedimento e sempre nel rispetto della differenza: degli interessi, delle vocazioni e dei mezzi propri a ciascuno. Il ruolo del docente dovrebbe consistere principalmente nel rendere allo studente gli strumenti affinché questi possa realizzare la versione migliore di sé stesso, nel bene e nel male, sempre in modo giusto e imparziale. 

La ringrazio per gli spunti di riflessione sempre interessanti.

Le auguro un felice anno nuovo. 

Cordialmente».

Veronica Timmoneri 

Catania, Monastero delle Benedettine sede del Dipartimento di Scienze Umanistiche dell'Università (ph. Sarah Diema

Catania, Monastero dei Benedettini sede del Dipartimento di Scienze Umanistiche dell’Università (ph. Sarah Dierna)

«Gent. mo Prof.re, 

concordo pienamente con lei. Il suo discorso è sostanzialmente identico a quello che fece la mia amatissima prof. di Filosofia – Grazia Lombardo – ai tempi del liceo. Mi ricordo che spiegò un giorno in classe questa tra le tecniche delle finte “anime belle” che, di fatto, intendono sottrarsi alle loro responsabilità trincerandosi dietro a un falso perbenismo. La società ha bisogno di sostenere i fragili, ma anche di fornire ai migliori gli strumenti per esprimersi e contribuire, a loro volta, a una comunità che possa essere da ulteriore ausilio a chi da solo non può farcela. 

La scrittura è vita: è comunicazione con gli altri e con se stessi ed è pure ciò che mi aiuta a mettere ordine, a focalizzare i miei obiettivi con maggiore attenzione, a eliminare ciò che ostacola il mio benessere. Per scrivere si ha bisogno di buoni maestri: professori, silenzio, serenità, tempo, pienezza, libertà. 
Ultimamente mi sono convinta del fatto che il principale ostacolo alla formazione – in senso lato – degli studenti sia l’assenza di qualsivoglia nozione sulla mente, sin dall’inizio del percorso scolastico. Mi spiego meglio: esistono gli insegnanti di italiano, quelli di educazione fisica, di matematica e così via. Ma non esiste nessuno che insegni ai più piccoli che la mente non sia un’entità astratta o qualcosa che dall’esterno ci piloti, bensì una parte di noi stessi alla stessa stregua degli arti. Cosa ci rende più deboli dell’assoluta ignoranza sulle nostre capacità, che si traduce successivamente nello schiavismo nei confronti di altri o di mappe cognitive culturalmente apprese?

Così cresciamo nella totale mancanza di consapevolezza di come possiamo utilizzare il nostro strumento più prezioso, quello che ci consente di provare le emozioni desiderate, di imparare ciò che è funzionale, di allontanare ciò che non ci fa star bene, di esprimere noi stessi in tutte le forme possibili.
Anche questo mi ha insegnato mio figlio, quando nei mesi scorsi ha avuto dei problemi di autocontrollo. Reagiva impulsivamente in preda all’ira e, quando mi sono fermata a chiedergliene ragione, mi ha risposto: “Mamma, io quando mi arrabbio molto o sono nervoso, automaticamente, faccio cose di cui mi pento dopo, non ho autocontrollo!”. 

Così gli ho domandato: “E dunque la responsabilità di chi è?”

Ha esordito dicendo: “Eh, non mia. È dell’autocontrollo, è colpa sua!”. 

Allora gli ho fatto il solletico, suggerendogli che fosse “colpa” della mia mano. Ha riso e ha capito. Gli ho spiegato che l’autocontrollo è comunque parte di lui, che sta dentro la sua mente e che la sua mente è a suo servizio, esattamente come il suo braccio. Abbiamo dunque analizzato le cose che lo facevano arrabbiare e perché, sostituendo il pensiero negativo con uno positivo e adattando la reazione. Poi abbiamo modificato le parole, quelle dei pensieri stessi (che vanno circoscritti e mai generalizzati) e quelle della “rabbia”. Le abbiamo utilizzate per scrivere le regole condivise, quelle che come lui stesso suggerisce “ci rendono felici”. In un mese è sostanzialmente diventato un piccolo Gandhi! La concentrazione è aumentata, la rabbia completamente sparita, le emozioni positive moltiplicate e gli eventi negativi completamente messi all’angolo perché ritenuti privi di rilevanza. Se è stato così semplice per me, perché gli insegnanti non fanno altrettanto? 

Gli insegnanti che millantano “un’anima bella” – incapace, per definizione, di agire nel mondo – sono poi gli stessi che non ritengono, in fin dei conti, la scuola debba rappresentare il centro della vita degli studenti. Per loro è corretto che al suono della campana – così come durante le infinite “vacanze” natalizie, estive, pasquali, agatine, etc – i figli “debbano stare con le mamme”, poco importa se queste debbano lavorare e se sia giusto che anche le donne abbiano la loro indipendenza. E poco importa se una scuola che si dica “inclusiva” dovrebbe accogliere, nel pomeriggio, tutte quelle attività che assicurino le stesse opportunità ai figli dei magistrati, così come ai figli dei carcerati. La “crisi” della scrittura e della cura dei “migliori” è sintomatica, a mio avviso, proprio della meschinità nei confronti dei più deboli. 

Spero che questo 2022 porti luce per la mente, per le parole, per la scrittura. 

Buon anno! A presto».

Ivana [Zimbone] 

La serietà esistenziale, la capacità argomentativa, la pluralità di prospettive che emergono da queste lettere degli studenti del Dipartimento di Scienze Umanistiche dell’Università di Catania costituiscono una prova che, se è vero che numerosi giovani sembrano disinteressati alla conoscenza, immersi nelle illusioni del digitale, superficiali e refrattari verso ogni stimolo che non sia troppo banale, molti altri sono invece persone che si interrogano, che sanno osservare, pensare, criticare e criticarsi.

Dalle diverse esperienze che emergono, ogni lettore potrà farsi un’idea di come si vive, si lavora, si apprende o non si apprende nelle scuole italiane. Io posso solo dire di essere fortunato ad avere allievi come questi. 

Dialoghi Mediterranei, n. 55, maggio 2022 
[*] L’Autore ringrazia gli studenti e i dottorandi del Dipartimento di Scienze Umanistiche dell’Università di Catania, che hanno accolto l’invito a dialogare con il loro docente sul tema Scrittura e giustizia.

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Alberto Giovanni Biuso, professore ordinario di Filosofia teoretica nel Dipartimento di Scienze Umanistiche dell’Università di Catania, dove insegna Filosofia teoretica, Filosofia delle menti artificiali e Epistemologia. È collaboratore, redattore e membro del Comitato scientifico di numerose riviste italiane ed europee. È direttore scientifico della rivista Vita pensata. Tema privilegiato della sua ricerca è il tempo, in particolare la relazione tra temporalità e metafisica. Si occupa inoltre della mente come dispositivo semantico; della vitalità delle filosofie e delle religioni pagane; delle strutture ontologiche e dei fondamenti politici di Internet; della questione animale come luogo di superamento del paradigma umanistico. Il suo libro più recente è Disvelamento. Nella luce di un virus (Algra Editore, 2022).
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