Stampa Articolo

San Salvi, le tappe della memoria

Catasto dell’area di San Salvi, 1873. Fonte: Castore, Regione Toscana.

Catasto dell’area di San Salvi, 1873. Fonte: Castore, Regione Toscana.

il centro in periferia

di Eliana Martinelli

Periferie urbane, periferie della esistenza

Le trasformazioni che hanno investito l’area dell’ex ospedale psichiatrico di San Salvi a Firenze negli ultimi centocinquant’anni concorrono alla definizione di un caso studio emblematico, nel quale l’accezione di “periferia” può essere declinata in rapporto alle centralità urbane, umane ed esistenziali.

Possiamo individuare tre diversi momenti, in cui affrontare la questione. Il primo, contestuale all’istituzione del manicomio, vede la coincidenza tra periferia urbana a periferia umana. Il manicomio era posto esternamente alla città perché fuori da essa dovevano stare coloro che non erano considerati cittadini: i matti, ma soprattutto i poveri, le ragazze madri, gli omosessuali.

Il secondo momento, determinato dall’espansione urbana, vede il manicomio come eterotopia [1] interna alla città stessa, una “città negata” nella “città affermata”. L’area cessa di essere periferica, ma resta tale nella memoria dei fiorentini, perché permane lo stigma. Il superamento del manicomio come istituzione richiederà più di vent’anni.

Oggi, l’area è considerata parte della città, così come la malattia mentale è riconosciuta e curata nei presidi territoriali. Tuttavia l’architettura, con i suoi muri fisici, permane a testimonianza di una storia ingombrante, rendendo il luogo non ancora compiutamente integrato nella memoria collettiva. 

L’istituzione del manicomio

Nel 1865 l’area di San Salvi, che dal catasto leopoldino del 1781 faceva parte della comunità di Rovezzano, venne inglobata nel comune di Firenze in vista dell’espansione urbana di Firenze capitale. Si trattava di un’area molto vasta a carattere preminentemente rurale, su cui sorgeva l’Abbazia di San Salvi, confinante a sud con la linea ferroviaria.  

Nel 1886 la commissione amministratrice del futuro manicomio, con la consulenza degli psichiatri Tamburini, Grilli e Pellizzari e dell’architetto Giacomo Roster, individuò nell’area di San Salvi il luogo ideale per la costruzione del nuovo ospedale psichiatrico, intitolato alla memoria dello psichiatra Vincenzo Chiarugi (1759-1820). La costruzione fu intrapresa l’anno successivo, con lo scopo di realizzare una struttura moderna, in linea con le nuove teorie che si stavano allora definitivamente affermando in campo psichiatrico.

L’ospedale di San Salvi, inaugurato ufficialmente nel 1891, andava così a sostituire la vecchia e inadeguata struttura di San Bonifazio, che era sorta nel 1788 e fu diretta per molti anni dallo stesso Chiarugi. Per volere di Tamburini, fu realizzata una struttura a villaggio ordinata e rigorosa, costituita da un grande edificio centrale e da padiglioni che ospitavano diversi tipi di “pazienti”. L’intera architettura nella quale erano ospitati i matti era intesa come terapia al “disordine delle passioni” causato dalla malattia mentale: un ordine assoluto ricorreva dalla composizione delle strutture e delle facciate, all’organizzazione degli spazi, fino all’allestimento degli interni. Nelle fotografie del fondo Alinari, perfino i degenti sono disposti in ordine, in spazi a loro volta arredati in maniera assolutamente rigorosa. Sappiamo, invece, che la vita di coloro che erano rinchiusi all’interno dell’ospedale psichiatrico era soggetta a ogni tipo di sopruso e la loro condizione era spesso causa di una patologia psichica a posteriori. Il manicomio, dunque, aveva la duplice valenza di rappresentare da un lato lo strumento di cura, dall’altro un mezzo di apparente tutela per il resto della società.

Ordine e gerarchia governavano anche l’impianto planimetrico. Lungo l’asse maggiore e orizzontale del complesso, lungo circa 400 metri, erano collocate le strutture mediche maschili (a ovest) e femminili (a est), prevalentemente su due livelli. I diversi edifici erano collegati tra loro e con il palazzo direzionale tramite camminamenti che correvano sui muri di confine, per la sorveglianza notturna. I padiglioni più vicini all’area centrale ospitavano pazienti ritenuti meno pericolosi, mentre nelle aree periferiche erano situate le strutture che ospitavano i “furiosi” e “agitati”. Sull’asse minore e verticale di circa 180 metri erano ubicati i servizi di amministrazione, di servizio e di culto. Separatamente rispetto agli altri settori, erano collocati i comparti per pensionati. Perfino il recupero degli edifici preesistenti, come la vecchia cascina riconvertita in Villa Fabbri, teneva scarsamente conto dell’impianto tipologico originario ed era volto a ricomporre un’idea di austero ordine, soprattutto in facciata.

Planimetria da Roster G. (1900) Il nuovo manicomio di San Salvi a Firenze. In L’edilizia moderna, fasc.1, p. 10.

Planimetria da Roster G. (1900) Il nuovo manicomio di San Salvi a Firenze. In L’edilizia moderna, fasc.1: 10.

Il grande parco si sviluppava all’interno di un muro di cinta, di forma ellittica, alto circa 4 metri. Anche il progetto del verde rispondeva ad un impianto gerarchico: gli alberi di alto fusto separavano i settori nosografici, mentre la vegetazione bassa si concentrava nelle corti tra i padiglioni[2]; il viale ellittico alberato, prima a lecci, poi a tigli, metteva in evidenza la simmetria del complesso.

Pertanto, vi era una “periferia nella periferia”: la volontà di ricondurre tutto ad un ordine gerarchico rispondeva esattamente all’intento di creare diversi gradi di segregazione: 

 «[…] lo spazio segregato, con le sue pietre e con il suo ordine ossessivamente ripetitivo, deve servire a contenere il caos dello spirito, a ricacciarlo nel profondo, a ricostituire l’ordine mentale, sì che il malato possa apprezzare la bellezza della natura che lo circonda e lo difende, insieme alle mura finché egli non dimostri di essere pronto a tornare al suo dovere, cioè a tollerare le angosce che la città e il mondo dei sani gli procurano. La trappola sta nel fatto che quasi sempre il ritorno in quel mondo sarà comunque impedito dal rifiuto degli altri e della città» [3].
Progetto di un fabbricato della clinica, Arch. G. Roster, da Ricordi di architettura 1878-1900.

Progetto di un fabbricato della clinica, Arch. G. Roster, da Ricordi di architettura 1878-1900.

Dagli anni Cinquanta, l’introduzione degli psicofarmaci nelle terapie determinò la progressiva trasformazione della struttura, da luogo di asilo permanente a vero e proprio ospedale, con degenze più brevi, con l’obiettivo di contrastare il progressivo aumento degli internati. Fu istituito un servizio di igiene mentale fuori da San Salvi, al fine di garantire un supporto farmacologico ai dimessi. Il progetto di un nuovo grande ospedale psichiatrico nella periferia di Firenze fu abbandonato negli anni Sessanta, con l’avanzare dei primi movimenti antipsichiatrici, che proponevano «un nuovo modo di far psichiatria nel territorio, andando a ritrovare la follia là dove si sviluppa e cresce, fra la gente, nelle famiglie, nella città, e lì tentando dì restituirle uno spazio libero, che non fosse più esclusione e segregazione» [4].

Ortofoto dell’area di San Salvi,1954. Fonte: GEOscopio, Regione Toscana.

Ortofoto dell’area di San Salvi,1954. Fonte: GEOscopio, Regione Toscana.

Il superamento del manicomio

La rivoluzione, normativa e culturale, avviene con la cosiddetta Legge Basaglia, n. 180 del 13 maggio 1978, che sancisce la chiusura dei manicomi civili e regolamenta il trattamento sanitario obbligatorio, istituendo i servizi di igiene mentale pubblici. Tale legge quadro ha reso l’Italia il primo paese al mondo ad abolire gli ospedali psichiatrici. Tuttavia, il processo di definitiva chiusura non fu uniforme nel territorio nazionale e richiese molti anni. La legge 180, infatti, non prevedeva finanziamenti specifici e l’operatività era delegata alle Regioni. L’ospedale neuropsichiatrico di San Salvi fu definitivamente chiuso solo nel 1998. 

La scelta politica di destituire i manicomi si legava a una ben precisa visione dell’istituzione manicomiale: non strumento cura, ma di controllo sociale della parte più povera della popolazione, quella che non poteva esprimere soggettivamente la propria sofferenza esistenziale, conoscendo solo la sofferenza della sopravvivenza [5].

«Il problema fondamentale» secondo Basaglia «consiste (…) nell’andare al di là della ‘follia istituzionale’ e riconoscere la follia là dove essa ha origine, cioè nella vita» [6]. Se trasponiamo la questione ad un contesto ambientale, ciò può essere tradotto nel superamento del manicomio non solo come istituzione totale, ma anche come luogo fisico, riconoscendo la città come teatro della vita, e dunque anche della follia. Tuttavia, come afferma Basaglia in un celebre intervento a Trieste, «aprire l’istituzione non è aprire le porte»[7]. L’istituzione (così come lo stigma) resta, seppur declinata in spazi diversi.

Ortofoto dell’area di San Salvi,1978. Fonte: GEOscopio, Regione Toscana.

Ortofoto dell’area di San Salvi,1978. Fonte: GEOscopio, Regione Toscana.

Negli anni successivi alla dismissione di San Salvi, cresce il dibattito inerente al futuro dell’area e al suo rapporto con l’intero sistema urbano: «deve questo spazio ‘potenziale’ essere in qualche modo omologato allo spazio della città (ma quale città?) o si può più ambiziosamente pensare che diventi lo strumento (o uno degli strumenti) per costruire una nuova città che si ponga concretamente alla ricerca della salute»? [8]

Il contributo intellettuale più importante è stato quello di Giovanni Michelucci, che avvia una serie di ampie riflessioni incentrate sul tema del superamento dei luoghi di detenzione e dei contesti di isolamento a Firenze, tra cui l’ex manicomio di San Salvi, ultimo avamposto di emarginazione.  La ricerca di Michelucci è testimoniata dalla rivista La nuova città, su cui scrivono i più importanti nomi della psichiatria basagliana, oltre ad architetti e intellettuali rinomati.

Negli anni Ottanta il dibattito sulla legge 180 è ancora vivo, così come le critiche alla mancata risposta delle istituzioni nel curare le persone affette da patologie psichiche al di fuori della famiglia. Michelucci ritiene che la malattia mentale non può non essere conseguente alle condizioni ambientali, e dunque il più importante riferimento operativo è la città stessa, dove anche il folle vive: 

«cominciando ad enumerare gli spazi della città che si sono rivelati inutilizzabili per i folli, si scopre che non vi è posto capace di accoglierli. La casa, dove spesso il malato di mente è rientrato, dopo la Legge 180, a detta delle famiglie, è diventata invivibile. Gli altri ospedali, che ospitano questo tipo particolare di pazienti, hanno solo una funzione temporanea rispetto alle implicazioni e alla gravità del problema. I matti allora vagano spesso in città, sollecitando l’insofferenza dei passanti e soprattutto dimostrando, sulla loro pelle, che la città contemporanea offre spazi per la follia collettiva, ma nessuno per il delirio individuale»[9]. 

L’unica alternativa possibile alla disseminazione di spazi manicomiali nel territorio, è la realizzazione di una struttura urbana che, sgravando le famiglie, sappia rispondere ad esigenze sanitarie, culturali e produttive; una “città-scuola” dedicata non tanto alla cura del malato, quanto alla complessa rete di rapporti ambientali e interpersonali che determinano il disagio psichico.

Michelucci ritiene che il futuro di una parte di Firenze risieda in un grande progetto di riqualificazione: 

«limitandoci al carcere delle Murate e al manicomio di S. Salvi, questi due spazi vivono nei loro rispettivi quartieri come una tramontata ipotesi di ordine e di controllo sociale. Difficilmente potranno perdere il peso della loro precedente destinazione, a meno che il nuovo non abbia una forza vitale talmente dirompente da dissolverla progressivamente, trasformandola, da elemento di vincolo nel quartiere, a momento di crescita per tutta la città» [10]. 

Propone dunque di insediare in questi quartieri strutture al servizio del mondo universitario, nell’idea che la cultura sia il motore per utilizzare in maniera unitaria le due aree e intensivamente alcuni spazi. Parla, a questo proposito, di “centro mobile”, capace di attivarsi diversamente in base a circostanze e interessi: anziché dividere il territorio in zonizzazioni separate, il progetto dovrebbe prevedere un sistema “polifonico” di diverse attività culturali, ricreative e scientifiche[11]. 

Ortofoto dell’area di San Salvi, 2018. Fonte: Google Maps

Ortofoto dell’area di San Salvi, 2018. Fonte: Google Maps

San Salvi oggi

L’area di San Salvi, con un’ampiezza di circa trentadue ettari e un patrimonio architettonico e ambientale di grandissimo valore, non ha ancora trovato un futuro certo, nonostante i numerosi progetti che si sono susseguiti negli ultimi venti anni. Attualmente ospita soprattutto uffici e laboratori della Asl.  

L’unico presidio culturale permanente è quello della compagnia teatrale Chille de la balanza, che entrò a San Salvi nel 1997 per volere dell’ultimo direttore dell’ospedale psichiatrico Carmelo Pellicanò. Psichiatra vicino al pensiero basagliano, Pellicanò aveva già coordinato il processo di deistituzionalizzazione del manicomio di Volterra, curando al suo interno esperienze di teatro e di incursioni artistiche. La chiusura di San Salvi fu dunque accompagnata dalla volontà di accogliere un “germoglio” di comunità nella struttura, durante la fase di dismissione. Pellicanò riteneva che il superamento del manicomio fosse una questione innanzitutto culturale, volta a recuperare la follia come concetto appartenente all’individuo e alla società. Per farlo, era necessario operare in maniera interdisciplinare e collettiva, con l’apporto di architetti e urbanisti, recuperando le strutture manicomiali e aprendole alla città[12].

Il Dipartimento di Architettura dell’Università degli Studi di Firenze, in partenariato con Chille de la balanza, Simbdea e Fondazione Basaglia, sta portando avanti una ricerca biennale (2020-2022) denominata Stages of memory. Regeneration of San Salvi heritage community. L’obiettivo è sviluppare un progetto di rigenerazione, a carattere transdisciplinare e partecipato dai cittadini, in grado di trasmettere e al contempo rielaborare la memoria del luogo, nella speranza che San Salvi, un giorno, entri definitivamente a far parte della complessa architettura della città, e cioè della vita di una comunità. 

Dialoghi Mediterranei, n, 54, marzo 2022
Note
[1] Quei luoghi «che hanno la curiosa proprietà di essere in relazione con tutti gli altri luoghi, ma con una modalità che consente loro di sospendere, neutralizzare e invertire l’insieme dei rapporti che sono da essi stessi delineati, riflessi e rispecchiati». Da Foucault M. (1994), Eterotopia. Luoghi e non-luoghi metropolitani, Mimesis Edizioni, Sesto San Giovanni (MI): 13.
[2] Ajroldi C., Crippa M. A., Doti G., Guardamagna L., Lenza C., Neri M. L., a cura di (2013), I complessi manicomiali in Italia tra Otto e Novecento, Mondadori Electa, Milano: 202.
[3] Germano G. (1984), Dal manicomio di San Salvi una sfida per Firenze, in La Nuova Città n. 3 “Città e follia”: 104.
[4] Ivi: 107.
[5] Basaglia F. (2018), Se l’impossibile diventa possibile, Edizioni di Comunità, Città di Castello (PG): 21-22.
[6] Ivi: 28.
[7] Ivi: 29-44.
[8] Germano, op. cit.: 108.
[9] Michelucci G. (1984), Dal diario di un architetto, in La Nuova Città n. 3 “Città e follia”: 4.
[10] Michelucci G. (1984), Il crollo di un antico limite. Un’immagine di Firenze tra il carcere delle Murate e il manicomio di San Salvi, in La Nuova Città n. 5 “Ordine e disordine”: 10.
[11] Ivi: 12.
[12] Pellicanò C. (1984), Se parlo della città parlo anche dell’uomo, in La Nuova Città n. 3 “Città e follia”: 113-114.
Riferimenti bibliografici
Ajroldi C., Crippa M. A., Doti G., Guardamagna L., Lenza C., Neri M. L., a cura di (2013), I complessi manicomiali in Italia tra Otto e Novecento. Mondadori Electa, Milano.
Basaglia F. (2018), Se l’impossibile diventa possibile, Edizioni di Comunità, Città di Castello (PG).
Germano G. (1984), Dal manicomio di San Salvi una sfida per Firenze, in La Nuova Città n. 3 “Città e follia”.
Lippi D. (1996), San Salvi. Storia di un manicomio, Olschki, Firenze.
Michelucci G. (1984), Dal diario di un architetto, in La Nuova Città n. 3 “Città e follia”.
Michelucci G. (1984), Il crollo di un antico limite. Un’immagine di Firenze tra il carcere delle Murate e il manicomio di San Salvi, in La Nuova Città n. 5 “Ordine e disordine”.
Pellicanò C. (1984), Se parlo della città parlo anche dell’uomo, in La Nuova Città n. 3 “Città e follia”.
Roster G. (1900), Il nuovo manicomio di San Salvi a Firenze, in L’edilizia moderna, fasc.1: 10-11.

 _______________________________________________________

Eliana Martinelli, architetta e ricercatrice, dal 2012 svolge attività di ricerca accademica e professionale tra Italia, Germania, Turchia e Marocco. Nel 2017 ha conseguito cum laude il dottorato di ricerca in Composizione Architettonica presso l’Università IUAV di Venezia. È stata titolare di incarichi di insegnamento presso l’Université Euro-Méditerranéenne de Fès (Marocco), l’Università di Pisa, l’Università degli Studi di Firenze e l’Università Federico II di Napoli. È membro dell’unità di ricerca Dar|Med (DiDA Unifi), nella quale si occupa di progetto architettonico e urbano nel mondo euro-mediterraneo, con particolare riguardo alla Turchia e al Maghreb. Sui medesimi temi, promuove e coordina workshop di progetto e partecipa a convegni e seminari internazionali. Ha all’attivo una monografia e numerose pubblicazioni su volumi e riviste internazionali. Dal 2019 è assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Architettura dell’Università degli Studi di Firenze nell’ambito della rigenerazione architettonica e urbana, con particolare attenzione al tema della memoria e al coinvolgimento della comunità nella valorizzazione del patrimonio materiale e immateriale.

_____________________________________________________________

 

 

Print Friendly and PDF
Questa voce è stata pubblicata in Cultura, Società. Contrassegna il permalink.

Lascia un Commento

L'indirizzo email non verrà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

È possibile utilizzare questi tag ed attributi XHTML: <a href="" title=""> <abbr title=""> <acronym title=""> <b> <blockquote cite=""> <cite> <code> <del datetime=""> <em> <i> <q cite=""> <strike> <strong>