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Rifugiati e nuovi confini

profughi somali

di  Chiara Dallavalle

La tragedia di Lampedusa ha senza dubbio scosso nel profondo ciascuno di noi, con il suo carico immane di morti e dispersi, e con il senso di ingiustizia e impotenza per un dramma consumato a pochi passi da casa nostra, senza che poco o niente sia stato fatto per evitarlo. Tuttavia il numero impressionante di vittime della tragedia di Lampedusa non deve farci dimenticare che il Mediterraneo è quasi quotidianamente lo scenario silente di drammi simili, che per la maggior parte avvengono senza che ne rimanga alcuna traccia se non qualche relitto ritrovato casualmente in un secondo momento. Il blogger Gabriele Del Grande raccoglie da anni i numeri di questa strage in un sito dal nome emblematico “Fortress Europe”, arrivando a contare quasi 20.000 vittime dal 1988 ad oggi, di cui ben 7.000 soltanto nel Canale di Sicilia. I reportage quasi quotidiani nei telegiornali del periodo estivo testimoniano soltanto quegli sbarchi e naufragi di cui si viene a conoscenza per l’intervento della Guardia Costiera, mentre tutti coloro di cui si perdono semplicemente le tracce tra i flutti rimangono per lo più ignoti all’opinione pubblica.

Per la maggior parte si tratta di migranti forzati, cioè persone che non partono dal proprio Paese in cerca di una migliore condizione economica, ma che sono costretti ad abbandonarlo per il sopraggiungere di una condizione di estremo pericolo per sé e per la propria famiglia. Può trattarsi di una guerra civile, di una persecuzione di massa verso una specifica etnia o appartenenza religiosa, o un qualunque altro evento che rappresenti un pericolo per l’incolumità della persona. La condizione del migrante forzato è quindi legata ad un forte senso di perdita di tutto ciò che ha di più caro, perdita provocata non dalla scelta personale di migrare ma dalla pressione insostenibile di determinate condizioni esterne.

L’abbandonare, spesso repentinamente, i propri affetti, la propria terra e tutto ciò che di famigliare e rassicurante la persona possiede, oltre a produrre un lacerante senso di sradicamento, si accompagna con l’esperienza quasi sempre traumatica di un viaggio altrettanto pericoloso e difficile. Ad esempio, in uno dei tragitti maggiormente battuti dai migranti forzati, l’attraversamento del Sahara, le persone vengono sottoposte a ripetute violenze e abusi, fisici e psicologici, oltre che a condizioni di viaggio al limite della resistenza fisica. Molti migranti perdono la vita prima ancora di raggiungere la sponda Sud del Mar Mediterraneo, oppure restano bloccati in punti di sosta forzati, fino a quando non riescono a racimolare la somma necessaria per pagarsi la successiva tranche del viaggio. L’attraversamento del Canale di Sicilia è quindi soltanto la tappa finale di un’epopea che può durare anche anni, e il tratto di mare che separa Nord Africa e Sud Italia viene percepito come l’ultimo confine, l’ultimo ostacolo da superare per raggiungere la terra promessa.

Anche dal punto di vista invece degli Stati europei, il Mare Mediterraneo è una barriera determinante, da monitorare e in un certo senso preservare dal continuo tentativo di sfondamento operato da parte dei migranti. Quello della regolamentazione delle entrate attraverso una maggiore severità nel controllo dei confini è un tratto fondamentale nel dibattito sull’immigrazione in Europa, soprattutto dopo l’entrata in vigore degli Accordi di Schengen (1). La nascita della cosiddetta Area Schengen, seguita alla rettifica dell’omonimo Trattato da parte di buona parte dei membri dell’UE, ha infatti allentato il controllo sulle frontiere interne favorendo la libera circolazione di merci e persone tra gli Stati membri, ma ha al tempo stesso rafforzato quello sui confini esterni all’Unione in modo da limitare e rendere più difficili gli accessi da parte dei cittadini non europei. Questo ha sicuramente sostenuto la costruzione di un’idea di Europa fondata sulla metafora della fortezza (2), in cui la sicurezza, intesa come controllo dell’immigrazione, sembra essere tra le priorità per l’Unione (3). Secondo Albrecht, il controllo dell’immigrazione attraverso una regolamentazione più rigida degli ingressi, come previsto dagli Accordi di Schenghen appunto, verrebbe quindi percepito dall’opinione pubblica come un maggiore contenimento dei tassi di criminalità, con l’effetto benefico di sedare le paure ancestrali degli autoctoni rispetto alla propria sicurezza, ma anche rispetto al timore di perdere la propria “purezza” culturale, quasi che i confini geopolitici tra Stati contengano e preservino in qualche modo una presunta identità nazionale omogenea, minacciata dall’ingresso continuo di migranti portatori di alterità.

In questo sistema di controllo dei confini, il dibattito sui migranti forzati, che nella maggior parte dei casi presentano domanda di protezione (4) una volta giunti in Europa, pone interrogativi cruciali. Uno di questi riguarda, ad esempio, il tema dei respingimenti, cioè il rifiuto da parte dell’Italia di accogliere i migranti in arrivo dal Nord Africa, a seguito della stipula di accordi di cooperazione tra Repubblica Italiana e Libia per il contrasto dell’immigrazione clandestina. Nell’accordo, siglato nel 2008 dall’allora Governo, viene infatti affidata alla Libia l’attività di pattugliamento delle proprie coste al fine di contrastare la partenza dei clandestini (5). Qui diventa cruciale segnare una chiara distinzione tra il migrante che per ragioni economiche sceglie di tentare la fortuna in un Paese diverso dal proprio per migliorare le proprie condizioni economiche, e il migrante forzato, che abbandona il proprio Paese sulla base di un pericolo imminente, e a cui viene a buon diritto garantita l’opportunità di chiedere asilo in uno dei tanti Stati firmatari della Convenzione di Ginevra. Siglando l’accordo con la Libia, l’Italia ha in qualche modo impedito l’esercizio del diritto d’asilo ai migranti forzati presenti in Libia, essendo quest’ultimo uno Stato che non riconosce tale diritto e nel quale Amnesty International ha spesso denunciato la violazione dei diritti umani per i migranti non libici presenti sul territorio (6). Per questa ragione ci troviamo davanti ad una palese contraddizione tra il controllo sempre più sistematico dei confini Europei, di cui l’Italia ne sostiene una versione radicale quando si fa promotrice di azioni di vero e proprio respingimento dei profughi, e il diritto d’asilo, garantito anche dall’Italia nel momento in cui ha aderito formalmente alla Convenzione di Ginevra (7).

Oltre alle posizioni politiche più o meno allineate su questo tema, anche il sentire comune si muove spesso ambiguamente tra la spinta etica all’accoglienza di coloro che a diritto cercano asilo nel nostro Paese, e il timore che questo flusso inarrestabile travolga uno Stato già di per sé in una situazione di grande debolezza socio-economica. La percezione diffusa è che l’Italia non sia in grado di integrare al proprio interno tutti i nuovi arrivati, e che debba sopportare da sola il peso schiacciante di un’accoglienza spesso molto complessa e connotata da considerevoli criticità. Rispetto a questo vissuto di solitudine dal resto dell’Europa, va però detto che i dati provenienti dall’Unione Europea in merito all’accoglienza dei rifugiati mostrano una fotografia un po’ diversa. Infatti per quanto riguarda il numero di rifugiati accolti, l’Italia si attesta su cifre di gran lunga inferiori rispetto ad altri Paesi dell’Unione Europea, in termini sia assoluti che relativi. Nel 2012 erano presenti sul nostro territorio nazionale 58.000 rifugiati, mentre, a titolo di comparazione, la Germania ne ospitava circa 580.000 ed il Regno Unito circa 290.000, i Paesi Bassi e la Francia rispettivamente 80.000 e 160.000 (8). È quindi chiaro come la percezione diffusa di essere l’unico Paese europeo a farsi carico della pressione dei migranti forzati, risulti disconfermata dalle statistiche.

Questo dato, insieme alla politica di respingimento di cui sopra, contribuisce ad aumentare la posizione ambigua in cui il nostro Paese si mantiene sul tema dei rifugiati, alimentando un’apologia della frontiera come luogo di controllo per gli ingressi (9), ma senza che questo riesca in qualche modo a fermare o a controllare il flusso inarrestabile degli arrivi, lasciando spesso che le zone di confine, come ad esempio Lampedusa, si percepiscano realmente come avamposti isolati, lasciati soli a gestire i drammi quotidiani degli sbarchi.

Dialoghi Mediterranei, n.4, novembre 2013

Note

1. L’originale Accordo di Schengen risale al 1985 ed è stato successivamente implementato dai Trattati del 1990, a cui l’Italia ha aderito soltanto nel 1990, completando le procedure legali richieste nel 1997.

2. Il paradigma della fortezza viene rinforzato non soltanto attraverso il controllo dei confini esterni, molti dei quali, come nel caso del Sud Italia, sono scarsamente monitorabili, ma anche grazie a meccanismi interni al territorio dell’Unione quali strategie per identificare gli immigrati illegali, pubblicità negativa che mira a rendere l’Europa una meta meno appetibile, e provvedimenti deterrenti quali misure penali contro chi introduce illegalmente persone in Europa, e reimpatri forzati per questi ultimi (Albrecht, H. J. 2002. ‘Fortress Europe? Controlling Illegal Immigration’, in European Journal of Crime, Criminal Law and Criminal Justice, vol. 10, n.1:1-22).

3. Parallelo a questo processo di ridefinizione dei rapporti tra Stati membri dell’Europa, e tra Unione Europea e resto del mondo, ha preso il via un vero e proprio processo di «europenizzazione» (Borneman e Fowler, 1997), con l’obiettivo di suscitare un sentimento di appartenenza all’Europa tra i cittadini della UE. Il ricorso, ad esempio, al tema delle radici storico-religioso-culturali dell’Europa da parte di qualche esponente della politica italiana di qualche anno fa rifletterebbe proprio l’idea secondo cui esisterebbe un’eredità culturale unificante tra tutti i Paesi europei.

4. La legislazione italiana prevede tre forme di riconoscimento di protezione per i richiedenti asilo che ne abbiano titolo: la protezione internazionale, che corrisponde in toto al concetto di asilo politico e che si fonda sull’assunto che il richiedente sia sottoposto a persecuzione individuale; la protezione sussidiaria, che interessa i richiedenti asilo non perseguitati individualmente ma in quanto appartenenti ad un gruppo particolare (ad esempio i curdi siriani oppure i cristiani copti in Egitto); la protezione umanitaria, concessa a chi non è titolato ad ottenere le due forme precedenti, ma che per ragioni di particolare fragilità o vulnerabilità temporanee, viene comunque accolto nel nostro Paese per il tempo limitato di un anno (ad esempio una donna in stato di gravidanza).

5. Pinelli B. 2011 ‘Attraversando il Mediterraneo. Il sistema campo in Italia: violenza e soggettività nelle esperienze delle donne’, in LARES n.1, pp.161-163.

6. L’Italia è stata infatti accusata da varie agenzie internazionali, tra cui l’UNHCR (l’Alto Commissariato ONU per i Rifugiati) di violare il principio di non refoulement.

7. La Convenzione di Ginevra sancisce all’articolo 33 il divieto di espulsione e di respingimento, laddove dichiara che “Nessuno Stato contraente potrà espellere o respingere (refouler) – in nessun modo – un rifugiato verso le frontiere dei luoghi ove la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate a causa della sua razza, religione, nazionalità, appartenenza ad una determinata categoria sociale o delle sue opinioni politiche” (articolo 33, comma 1).

8. Fonte: UNHCR 2012.

9, Vedi nota n.5, p.163.

 

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