il centro in periferia
di Vita Santoro
La prima volta che ho avuto modo di guardare il film Il bene mio, diretto dal regista e sceneggiatore pugliese Pippo Mezzapesa, è stata in occasione della sua uscita cinematografica nell’ottobre del 2018. L’ho rivisto nuovamente circa un anno e mezzo dopo, all’inizio di questa primavera, più comodamente seduta sul divano di casa mia. Non so dire se questa seconda visione sia stata o meno influenzata dalla particolarità del periodo “sospeso” in cui è accaduta, quello cioè del lockdown dovuto alla emergenza sanitaria per il Covid-19. Di fatto, avevo molto apprezzato il film già alla sua prima visione, la seconda, più attenta e privata, mi ha confermato alcune prime impressioni e una valutazione senz’altro positiva del suo contenuto, ma soprattutto ha reso possibile cogliere dettagli e sfumature che non avevo prima rilevato.
Quando, perciò, mi è stato chiesto di scriverne una recensione, ho accettato, anche da buona cinefila, non senza qualche piccola perplessità non essendomi mai cimentata in una impresa del genere; ma non mi è mai dispiaciuto confrontarmi con nuove pratiche. Inoltre, il film tocca alcuni dei temi intorno ai quali ho cominciato a riflettere da un po’ di tempo; e ha, oltretutto, suscitato in me amabili ricordi di luoghi abbandonati e prossimi conosciuti e visitati nel corso della mia vita.
Va lu bene mia
curre a mamma toia
tu mo si l’ammore
bella mia
Io te vuleve bene
e te ne vojo ancora
tu me si l’ammore
bella mia
Se mammete ne voia
nu ce ne fuimme
pigghjme appuntamende
bella mia
Va lu bene mia
curre a mamma toia
tu mo si l’ammore
bella mia
Matteo Salvatore
Il titolo del film rimanda, come il regista Mezzapesa ha affermato durante una delle interviste rilasciate in occasione del lancio della prima, alla struggente canzone sopra citata Lu bene mio del cantautore folk di Apricena. La canzone apre con le sue note il film e ritorna una sola altra volta in una sequenza quasi in chiusura, pur continuando ad aleggiare in sottofondo e accompagnare il protagonista lungo tutta la sua durata.
La canzone di Matteo Salvatore parla però di una fuga d’amore, della nascita cioè di un sentimento; nel film, invece, come ha spiegato lo stesso Mezzapesa, quello del protagonista Elia «è un amore “spezzato”, è un amore finito, ma è un amore che lui continua a ricercare quotidianamente» [1].
Film che parla d’amore, dunque, ma anche film di morte, dolore e abbandono. Un film che ho trovato estremamente “delicato” nel trattamento di temi tanto complessi, perché lo fa in un modo “sospeso” ed evocativo. È tutto un susseguirsi di immagini di esistenza e di rimandi all’assenza, di visioni distanti sulle scelte di vita possibili e di usi distinti della memoria dei luoghi; e riesce a racchiudere pure una sorta di sottile ammonimento sulle responsabilità, individuali e collettive, della salvaguardia e della memoria di quelli che riteniamo i nostri luoghi cari, amati, e colmi di ricordi, pur talvolta dolorosi. Com’è noto, difatti, non sempre la costruzione delle memorie collettive coincide o incorpora le molteplici e dissonanti memorie individuali [2].
Pratiche del ricordo e dell’oblio
Il bene mio racconta la storia del piccolo paese di Provvidenza, completamente abbandonato dopo un terribile terremoto. Legato al ricordo della moglie scomparsa, è rimasto solo un uomo a custodire la memoria del paesino delle campagne pugliesi.
In verità gli abitanti al principio del film sono due, Elia e un pastore con il suo gregge di pecore, ma il secondo muore proprio in apertura a causa del crollo di un muro, mostrando in maniera chiara la precarietà e pericolosità del borgo in rovina e l’impossibilità di viverci. Tant’è che il giorno seguente alla morte del pastore e alla dispersione del suo gregge arriverà il sindaco (che è anche il cognato del protagonista) a intimare ancora una volta di lasciare il paese per trasferirsi a Provvidenza Nuova e per avviare la costruzione di un muro per impedire l’accesso al paese; un nuovo confine che, in sostanza, finisce per murare vivo Elia al suo interno.
La nozione di «paese», si sa, non indica genericamente solo un territorio, ma definisce anche la popolazione che lo abita [3]. A Provvidenza, tuttavia, non si è costituita una consapevole «comunità del ricordo», in grado di porsi tra i discorsi prodotti dalla memoria storica e ufficiale e le memorie individuali, fatte di resistenze e discrepanze. Elia resiste al discorso dominante, per lui il peso della distruzione e la dimenticanza sono il vero atto di violenza al quale non vuole piegarsi: «Questo è casa mia. Questo è il mio paese», continua a sostenere.
La trama procede descrivendo lo svolgimento di giornate sempre uguali, fino alla svolta determinata da una presenza misteriosa che sarà decisiva per marcare ancora una volta la scelta forte di Elia di “restare” nel suo paese assumendosi le conseguenti responsabilità anche di natura penale. Non senza però aver compiuto un ultimo atto di generosità verso una donna in difficoltà, in cui rivede forse la moglie amata.
Il film vuole suggerire una riflessione profonda sui margini esistenti e immaginabili tra ricordo e oblìo, dove il protagonista si pone come una sorta di “custode della memoria”, testimone del vecchio paese e della memoria del disastro che ha subìto. Così come il nome del protagonista richiama il profeta biblico Elia, noto anche per i suoi poteri taumaturgici, anche la denominazione scelta per il paese (Provvidenza) sembra evocare volutamente la promessa di un destino fortunato. Ma è lo stesso Elia a rivelare in proposito il paradosso: «Maria diceva che a Provvidenza non sarebbe mai successo niente. Mai niente. Aveva torto».
Elia agisce consapevolmente sui luoghi che ha scelto di continuare ad abitare, nonostante tutto e nonostante la sua condizione “illegale” di vita contrastata in tutti modi dalle istituzioni, dove lo stesso sindaco considera la vecchia Provvidenza un «paese maledetto». E lo fa in modi diversi: mantiene in vita la casa in cui ha vissuto con la moglie Maria, custodisce quasi fosse un luogo “sacro” la scuola elementare devastata e nel cui crollo ha perso la vita anche sua moglie, raccoglie e restaura oggetti e suppellettili recuperate nelle altre abitazioni abbandonate di fretta nella fuga precipitosa durante il sisma. Protegge anche la statua della Madonnina rimasta miracolosamente intatta nella chiesetta del paese anche dopo il terremoto; sarà poi portata via a spalla dai fedeli con una processione organizzata ad hoc dal vecchio verso il nuovo paese e che si concluderà con la festa a Provvidenza nuova e i fuochi d’artificio. Sono tutti «luoghi della memoria» questi, densi di una sorta di “sacralità”, in grado di incorporare memorie e rivelare continuità storica (Nora 1989) [4].
«Noi vogliamo dimenticare», dicono i compaesani.
Ed Elia risponde: «E vi sbagliate, ricordare bisogna».
Cancellare il tempo, dimenticando, rimanda anche all’analogia fra ricordo e rovina, e all’assonanza tra storia e memoria, di cui scrive Marc Augé [5]. Ma anche rende vuoti gli spazi pieni di un tempo. Il silenzio è ovunque, perché manca la vita, eppure tra le rovine compaiono prepotenti gli spazi costituiti «per sottrazione» dal territorio antropizzato, gli spazi interstiziali, di «risulta», «scarto» e «margine», quegli spazi anarchici e instabili che Gilles Clément chiama il «terzo paesaggio» [6].
Illegalità che si incontrano e collezionisti di memorie
Nel film emergono, a mio avviso, altri due temi interessanti. Da un lato, la questione relativa alle pratiche migratorie e alle situazioni di illegalità. Nur, la donna di indeterminata provenienza che Elia incontra e accoglie a casa sua, è fuggita dal suo paese e intende raggiungere sua sorella in Francia. Dopo le iniziali diffidenze e superando le difficoltà di comunicazione linguistica, Elia comprende la sua situazione, molto simile alla sua di condizione abitativa nel paese sgomberato. «No police! I’m illegal», lei gli dice continuamente. Ed Elia decide infine di aiutarla, anche perché Nur deve avere una memoria segreta e molto dolorosa alle spalle, da cui evidentemente fugge. Invece, un’altra memoria dolorosa impedisce, di contro, a Elia di andare via e iniziare una nuova vita altrove. Dopo averla salvata, non è chiaro quale sarà il suo destino. Tutto lascia intendere che riesca finalmente a compiere quel gesto disperato ed estremo tante volte agognato. Il finale del film resta intenzionalmente sospeso, lasciando lembi di immaginazione.
Dall’altro lato, c’è il tema del collezionare memorie, proprie e altrui, con l’obiettivo di costruire ed evocare pensieri, ricordi e sensazioni. Le stanze della sua abitazione di Provvidenza, che Elia ha trasformato in luogo colmo di ricordi e reliquie recuperati in giro per il paese, sono chiuse con un lucchetto, ne è precluso l’accesso a chiunque. Verranno aperte solo alla fine del film, quando i pochi amici e altri compaesani, cercando il protagonista scomparso, ritroveranno in esse oggetti del proprio quotidiano: lo skateboard di un figlio mancato durante il sisma, gli occhiali da vista indossati da bambino, i disegni dei bimbi della scuola dedicati alle maestre, un souvenir con un pesce musicale che si contorce.
Elia ha riscostruito nella sua casa una parte di Provvidenza, ha conservato, oltre ai suoi, oggetti che parlano di altre persone, delle loro storie ed esistenze [7]. Analogamente ai musei, anche alcune collezioni private sono in grado di divenire luogo di accoglienza, dialogo ed esperienza. Come accade nei tanti musei etnografici presenti soprattutto nei piccoli paesi come Provvidenza, dove «la sostanza dialogica, là dove memoria, cose e spazio delineano i labirinti e i percorsi dell’incontro con la “complessità del mondo”, non può che indirizzare il pubblico ad una esperienza che, non essendo quella esclusiva del mero guardare, sia carica di quei valori educativi e relazionali propri del viaggiare»[8] (Turci 2019: 51).
La collezione nelle stanze di Elia mi ha ricordato, ad esempio, quella vista nel film Ogni cosa è illuminata di Liev Schreiber (2005), dove l’unica superstite del villaggio di Trachimbord (raso al suolo dai nazisti e i cui abitanti sono stati barbaramente trucidati) ha conservato i ricordi e la memoria della sua famiglia e degli altri abitanti del villaggio, raccogliendo in maniera meticolosa dentro numerose scatole i vecchi oggetti che è riuscita a sottrarre all’oblio e alla distruzione.
Una delle immagini più forti del film è proprio lo spazio della sua casa stracolmo di scatole accatastate e nominate con precisione. La collezione di Elia comprende poi anche oggetti e abiti appartenuti a sua moglie; la sua tenacia nel sottrarre all’oblio la storia d’amore mi ha ricordato anche il noto e visitatissimo Museo dell’Innocenza di Istanbul, voluto e realizzato dallo scrittore Orhan Pamuk. In questo caso, si tratta di un museo che conserva centinaia di piccoli oggetti, suppellettili, abiti, foto, ritagli di giornale, documenti contenenti la memoria della sfortunata storia d’amore di Kemal e Füsun, e con essa la memoria recente della città di Istanbul. Il museo è, difatti, una sorta di omaggio a una storia d’amore frutto della fantasia, ma anche omaggio dello scrittore alla sua città, come già Pamuk aveva fatto e continua a fare in tanti dei suoi libri [9].
“Paesi fantasma” nel Meridione d’Italia
Infine, qualche considerazione ulteriore circa la specifica location del film. Il regista ha scelto di ambientarne buona parte in un paese del Sannio, Apice Vecchia, il quale fu effettivamente evacuato dopo un sisma, quello del 1962 [10]. Una sola immagine di Apice/Provvidenza, com’era prima del terremoto che l’ha devastata, compare due volte nel film rappresentata su un enorme telo, pensato a uso e consumo dei gruppi di turisti accompagnati dall’amico e guida turistica Gesualdo, e sfondo-cartolina per le foto ricordo. Pur nella “comicità” di tali sequenze, appare una sorta di emblema dell’inganno che talora le pratiche turistiche portano con sé.
Apice Vecchia mi ha fatto però pensare ad altri luoghi desolati e con destini analoghi. Tra i più indagati e oggetto di attenzione da parte di studiosi, antropologi, fotografi e persino delle istituzioni che vi hanno destinato nel tempo ingenti risorse, vi è senza dubbio il paese di Africo Vecchio, situato in Aspromonte [11]. Del destino del piccolo paese calabrese, narrato accuratamente da Vito Teti in un volume del 2004 [12], dedicato ai paesi abbandonati della Calabria, alla poetica della separazione e della riappropriazione e alle dimensioni della memoria di coloro che vi abitavano, si era ad esempio già occupato, durante gli anni Venti del Novecento, il meridionalista Umberto Zanotti Bianco, il quale ne parlò in un suo testo ritenuto fondamentale nella letteratura sulla Calabria [13]. E poi il reporter Tino Petrelli nel 1948 ne aveva documentato le condizioni di miseria e arretratezza nelle quali viveva la popolazione locale, non diversamente peraltro dalle altre aree interne del Meridione d’Italia.
Le vicende di Africo Vecchio e della costruzione di Africo Nuova a seguito di ripetute alluvioni e frane che avevano causato l’evacuazione del vecchio centro, mi sono state narrate recentemente, durante un evento organizzato a Matera a fine 2018 e dedicato ai tanti “luoghi della vergogna”, da un suo abitante di nome Bonaventura (altro nome propizio), funzionario dell’ATERP Calabria. Del suo vecchio paese, di recente oggetto di attrazione turistica spinta, mi aveva descritto ruderi e abbandono; del nuovo insediamento, costruito sulla costa a chilometri di distanza, più che altro rammentava il senso di spaesamento a lungo provato dagli abitanti ivi trasferitisi [14].
Tra quelli che possono essere considerati ulteriori ricordi ed esperienze personali, le vicende di Provvidenza mi hanno consentito di ripensare ad almeno due altri paesi. L’uno mi riporta a una uscita didattica compiuta, qualche anno fa presso Borgo Taccone, insediamento rurale della Riforma Agraria sito nel territorio di Irsina in provincia di Matera [15], in compagnia di alcuni agronomi ed economisti dell’Università della Basilicata. Fu costruito come villaggio tradizionale e come centro di servizi, con la sua chiesa e gli uffici (quello postale e la stazione dei carabinieri), intorno a cui sorgevano le 30 case coloniche degli assegnatari; vi erano anche la scuola elementare, uno spaccio, la stazione, l’ambulatorio e persino un cineteatro.
A partire dagli anni Sessanta del Novecento, a causa del progressivo abbandono delle campagne e della conseguente emigrazione dei lucani delle aree più interne della Basilicata, molti degli abitanti iniziarono a lasciare le case assegnate per trasferirsi altrove e Taccone prese a svuotarsi. A oggi, sono pochissime le famiglie che risiedono stabilmente nel borgo e restano più che altro abitazioni vuote, oggetti e suppellettili abbandonati, rovine e paesaggio incolto. La parabola di vita di Borgo Taccone ha visto anche alcuni interessanti e sporadici tentativi di riportarlo a nuova vita, trasformandolo ad esempio in ambientazione e location per produzioni video e cinematografiche.
Il pomeriggio della visita c’era un discreto vento polveroso, la mia sensazione, condivisa con gran parte degli altri visitatori, è stata quella, suggestiva, di camminare in un luogo sospeso nel tempo e fermo agli anni Settanta, ossia al momento in cui ne è esploso il declino. Taccone come Provvidenza, disfacimenti, erbacce ovunque, silenzio e abbandono di quelli che un tempo erano luoghi di vita e del paese che fu.
L’altro ricordo che mi è sovvenuto guardando il film di Mezzapesa riguarda invece Craco Vecchia, il paese fantasma più noto della Basilicata sempre in provincia di Matera, meta di veri e propri itinerari turistici e negli ultimi decenni set di film.
Lo avevo visitato la prima volta a inizio anni Novanta, quando nei pomeriggi della tarda primavera si aveva l’abitudine di cercare luoghi insoliti, sperduti e abbandonati da esplorare, anche talvolta mettendo a rischio l’incolumità personale. Girare per le strade franate di Craco ed entrare nelle abitazioni sospese nel vuoto, anche alla ricerca di cimeli e oggetti dimenticati da sottrarre all’oblio, era una sorta di “prova di coraggio” e “rito di iniziazione” della giovinezza, che io ricordo però con allegria.
Il centro storico di Craco fu evacuato a causa di ripetute frane e conseguenti ordinanze di sgombero, la prima delle quali fu emanata nel 1963 e l’ultima nel 1991. Gli abitanti furono spostati tutti a valle in località Peschiera e furono assegnati loro anonimi alloggi popolari, lasciando il centro storico per anni svuotato, preda di saccheggi e con il conseguente abbandono pure delle fertili terre coltivate limitrofe. La nuova Craco non ha mai convinto gli abitanti dislocati, perché considerato luogo anonimo e senza storia, tant’è che è divenuta negli anni una sorta di dormitorio man mano sempre più spopolato [16]. Da qualche anno l’amministrazione comunale, insieme ad associazioni e cooperative locali, ha avviato un progetto di recupero del vecchio centro storico a scopo turistico. Attualmente, è addirittura possibile acquistare sul sito del comune una Craco Card che consente la visita guidata in sicurezza.
«Voi non potete capire com’era bella Provvidenza», dice Elia nel film a tutti i gruppi di turisti in visita al paese terremotato. Sembra una sorta di fil rouge che attraversa la trama del film, un sentimento di fondo sotterraneo e che emerge sottile.
Ma il recupero dei paesi abbandonati è operazione complessa, richiede progettualità integrate, volontà politiche e impegno civile notevole, in particolare da parte di amministrazioni locali e di quanti in questi luoghi decidono di restare o ritornare [17]. Le rovine e i paesi abbandonati, ritenuti talvolta irrecuperabili, andrebbero una volta tanto considerati sotto altra luce e coinvolti, ove possibile, in progetti «di ritorno, di riuso, di coscienza di luogo» (Clemente 2019)[18].
Si tratta di praticare la cosiddetta «etica della restanza», come suggerisce Vito Teti [19], per il quale ogni luogo è anche luogo mentale e richiede un’organizzazione simbolica che ha a che fare con tempo, memoria e oblìo. Ecco perché bisognerebbe impegnarsi per evitare il rischio di una loro “morte”, e nonostante sia evidente che il nostro tempo è caratterizzato ovunque da marginalità, abbandono e rovine diffuse, tali luoghi ormai vuoti andrebbero forse pensati, invece che come «non più luoghi», come «non ancora luoghi», in altri termini come spazi di possibilità. E anche la postura di chi resta richiederà a sua volta di vivere i margini, riguardare il passato, sperimentare nuove dinamiche culturali [20].
Senza la perseveranza e le cure di Elia che cosa ne sarà di Provvidenza? Restano dolorose e assai nostalgiche le modalità che il protagonista mette in campo per affrontare l’elaborazione di un lutto impossibile da sostenere, che ha toccato gli affetti e anche i luoghi; modalità singolari (solo in parte condivisibili ai più) che permeano la sua esistenza e quella di chi lo ha a cuore, e ne guidano le azioni. Non è dato sapere neppure quale forma di memoria sarà tramandata, dopo di lui.
La visione del film Il bene mio mi ha affascinato. Ha consentito non solo di riflettere su temi complessi e di interesse antropologico, ma anche e soprattutto di riscoprire connessioni con altri prodotti cinematografici, e con altri luoghi ed esperienze racchiuse, questa volta, nella mia di memoria; alimentando, oltretutto, il proposito di ri-guardalo ancora e ancora una volta. E forse, oltre che intrattenere, (almeno per me) è anche questo che dovrebbe “saper fare” un film.
Dialoghi Mediterranei, n. 44, luglio 2020
Note
[1] Intervista a regista e protagonista del film: https://www.youtube.com/watch?v=Ts136hO4DQc
[2] Cfr. Halbwachs Maurice, La memoria collettiva, nuova edizione critica a cura di P. Jedlowski e T. Grande, Milano, Edizioni Unicopli, 2001.
[3] Pietro Clemente, Paese/Paesi, in Mario Isnenghi (a cura di), I luoghi della memoria. Strutture ed eventi dell’Italia unita, Laterza, 1997: 3-39.
[4] Nora Pierre, Between Memory and History: Les Lieux de Memoire, in «Representations», No. 26, Special Issue: Memory and Counter-Memory, University of California Press, 1989: 7-24.
[5] Marc Augé, Rovine e macerie. Il senso del tempo, Torino, Bollati Boringhieri, 2012.
[6] Clement Gilles, Manifesto del Terzo paesaggio, Macerata, Quodlibet, 2005.
[7] Miller Daniel, Cose che parlano di noi. Un antropologo a casa nostra, Bologna, Il Mulino, 2014.
[8] Turci Mario, Esporre etnografie. Sull’esporre etnografico come pratica museale di scrittura patrimoniale, in “Archivio di Etnografia£, n. s., anno 13, n. 1-2/2018: 39-51.
[9] La tormentata storia d’amore all’origine della collezione museale, inaugurata nel 2012, è raccontata in Orhan Pamuk, Il museo dell’innocenza, Torino, Einaudi, 2009. Per informazioni sul Museo dell’Innocenza: http://www.scoprireistanbul.com/il-museo-dellinnocenza/
[10] Per le location del film si veda: https://www.italyformovies.it/mappa-film-game-detail.php?id=6702
[11] Reportage fotografico di Giancarlo Parisi: http://www.giancarloparisi.net/2015/07/africo-vecchio/
[12] Vito Teti, Il senso dei luoghi, memoria e storia dei paesi abbandonati, Roma, Donzelli, 2004.
[13] Umberto Zanotti Bianco, Tra la perduta gente, Milano, Mondadori, 1959.
[14] Sulle storie e i modi di vita degli abitanti del paese di Africo, sui drammi, i conflitti, le sopraffazioni e la presenza costante e ingombrante della criminalità organizzata, si veda Corrado Stajano, Africo. Una cronaca italiana di governanti e governati, di mafia, di potere e di lotta, Torino, Einaudi, 1979.
[15] Alcuni reportage fotografici relativi a Taccone si possono trovare in rete. Un esempio è quello del Pietro Amendolara. https://www.pietroamendolara.it/villaggio_taccone_irsina_mt-p19924
[16] https://www.basilicataturistica.it/territori/craco/
[17] Tante ed emblematiche sono, ad esempio, le esperienze riguardanti i giovani nella Regione Basilicata raccolte nel documentario e nell’exhibit Vado verso dove vengo; entrambi frutto di un progetto del programma culturale di Matera Capitale Europea della cultura 2019, in cui sono stata coinvolta insieme alla SIMBDEA. Per informazioni sul progetto: http://www.vadoversodovevengo.it
[18] Clemente Pietro, Andare donde si viene, in “Dialoghi Mediterranei”, n. 1 maggio 2019.
http://www.istitutoeuroarabo.it/DM/andare-donde-si-viene/
[19] Teti Vito, Il senso dei luoghi. Memoria e storia dei paesi abbandonati, Torino, Einaudi, 2004.
[20] Teti Vito, Il sentimento dei luoghi tra nostalgia e futuro, in Riabitare l’Italia. Le aree interne tra abbandoni e riconquiste, Antonio De Rossi (a cura di), Roma, Donzelli, 2018: 191-203.
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Vita Santoro, PhD, è antropologa e docente a contratto in discipline DEA presso l’Università della Basilicata, dove è anche un membro del team della Cattedra Unesco in “Mediterranean Cultural Landscapes and Communities of Knowledge”, e presso l’Università di Bari Aldo Moro. È stata assegnista di ricerca nell’ambito del Progetto I- DEA per Matera Capitale Europea della Cultura 2019. Ha svolto attività di ricerca in Basilicata, Brasile e Catalogna sui temi di: antropologia museale e dei patrimoni culturali, antropologia urbana e del paesaggio, antropologia della scrittura. In qualità di Cultural Project Manager collabora in attività di progettazione culturale con enti pubblici e soggetti privati. È socia ordinaria di SIAC e membro del Direttivo di SIMBDEA; coordina dal 2013 la redazione della rivista “Archivio di Etnografia”.
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