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Quando cadono le statue. Memorie contestate e counter-heritage nelle proteste di Black Lives Matter

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Proteste presso la statua del generale Lee, Richmond (fonte: www.nytimes.com)

di Nicola Martellozzo

Nella pietra e nella memoria

La statua del Gattamelata rappresenta un riferimento immediato, per chi come me vive a Padova. La Repubblica di Venezia volle celebrare il suo generale commissionando a Donatello la famosa scultura in bronzo che oggi campeggia in piazza del Santo, uno dei luoghi simbolo della città. Anche non sapendo nulla di questo condottiero, uno storico dell’arte attento potrà illustrarvi le circostanze della morte osservandone la statua: nei monumenti equestri, infatti, una sola zampa sollevata sta a significare che il cavaliere morì per le ferite riportate in battaglia. Oggi sono ben pochi quelli in grado di riconoscere questo codice iconografico, o a cui interessa farlo. Per i più le statue sono un’eredità del passato, arredi urbani più o meno anonimi, decorazione artistiche. Non tutte, certo: la statua della dea Roma al Vittoriano, quella di Indro Montanelli a Milano, o il “dito” di Cattelan davanti piazza Affari spiccano nell’immaginario pubblico, differenziandosi proprio per la loro capacità di suscitare emozioni, dibattiti, memorie.

Non saremo più in grado di “leggere” certi monumenti come in passato (con buona pace di condottieri e zampe equine), ma la nostra società continua comunque ad erigere statue e memoriali, trasponendo valori, narrazioni e immaginari in questo patrimonio materiale. Oppure, il che è altrettanto significativo, a demolirlo e rimuoverlo, come forma di contestazione: «the trope of the absent, mutilated or toppled statue or memorial appeared with increasing frequency throughout the twentieth century as a metaphor for a humiliated and overthrown political regime» (Harrison 2013: 173).

L’esplosione della svastica a Norimberga, la caduta del Muro di Berlino, la rimozione della statua di Saddam Hussein a Baghdad, rimandano immediatamente ad eventi fondamentali della storia recente. La carica simbolica di questi gesti distruttivi è innegabile: quando cadono le statue, viene contestata sia l’autorità che ne sanciva l’esistenza, sia i sistemi di valore che materializzavano. La realizzazione di un monumento è sempre un’espressione intenzionale di potere, vale a dire della capacità – e della volontà – di un gruppo sociale o un’istituzione politica di collocare quell’oggetto in uno spazio pubblico, legittimandone la presenza attraverso la propria autorità. Questo però non implica necessariamente che la comunità che abita – nel senso più pieno della parola – quello spazio sia sempre e totalmente d’accordo con tale scelta.

Statue, targhe commemorative e memoriali rappresentano un tipo particolare di patrimonio materiale, esplicitamente creato per concretizzare e celebrare memorie, simboli e valori collettivi. I monumenti pubblici possiedono una dimensione ostensiva, sono fatti per essere esposti e guardati, pensati per veicolare precisi messaggi sociali. Alcuni, con il passare del tempo, perdono la loro capacità comunicativa, come la statua del Gattamelata. Altri invece vengono contestati, rinnegati, e perfino distrutti. Un monumento anonimo, guardato distrattamente per decenni, in una sola notte può venire demolito da una folla di manifestanti; non sono la pietra o il bronzo di cui è costituito ad essere cambiati, ma la società che guarda la statua.

Questo è quanto accade oggi negli Stati Uniti, dove da maggio è ripresa una sistematica rimozione di statue e altri monumenti pubblici. Al centro di questo fenomeno ci sono le proteste del movimento Black Lives Matter, che in quest’ultimo anno ha ottenuto un’inedita visibilità internazionale dopo la morte di George Floyd a Minneapolis. Il movimento nacque nel 2013 in risposta all’omicidio di un altro cittadino afroamericano, Trayvon Martin, e divenne famoso dopo le manifestazioni del 2014 a Ferguson. Il caso Floyd è solo l’ultima delle morti dovute all’intervento eccessivamente violento della polizia, accusata di brutalità e di discriminazione razziale [1] verso la comunità afroamericana. In questi anni Black Lives Matter si è diffuso in tutti gli Stati Uniti, raccogliendo consensi tra le minoranze etniche del Paese, ma attirando anche numerose critiche per i suoi slogan e le sue azioni di protesta. Le battaglie politiche condotte da BLM riguardano temi come il sessismo e l’identità di genere, ma la questione del white privilege e della polizia rimane centrale. Non è facile rendere conto di tutte le sfaccettature del movimento, la cui nascita e le cui istanze sociali sono intrinsecamente legate al contesto culturale statunitense, e a questioni – come quella della discriminazione razziale – che negli Stati Uniti assumono un’identità specifica. Anche per questo sono nati due compendi online [2], che raccolgono articoli, interventi e documenti che permettono di seguire gli sviluppi di BLM.

In queste poche pagine non è pensabile ripercorrere il dibattito pubblico seguito alla morte di Floyd e alle manifestazioni che hanno rapidamente infiammato gli Stati Uniti; ci occuperemo invece di un aspetto specifico di queste proteste, quello che riguarda per l’appunto l’abbattimento di statue e monumenti. Non si tratta di furori ciechi, ma di gesti dotati di una fortissima carica simbolica e che rimandano ad un altro dibattito centrale nel contesto statunitense, ovvero la rimozione di monumenti confederati. Si tratta di un patrimonio materiale problematico, dato che la Guerra di secessione (1861-1865) ha rappresentato uno dei traumi più gravi nella storia americana, che ancora oggi segna una spaccatura nella memorie e nell’immaginario collettivo.

Senza contare nomi di strade, edifici e parchi, rimangono più di 700 monumenti confederati, realizzati per lo più nel primo ventennio del Novecento, la massima parte dei quali è concentrata proprio negli ex-Stati secessionisti. Come evidenzia Shackel, la presenza di questi monumenti ha contribuito a rafforzare (quando non legittimare) certi atteggiamenti razzisti, assimilati nella memoria pubblica americana (Shackel 2001: 658). Va da sé che la sola rimozione delle statue non annulla in alcun modo il problema della disuguaglianza sociale o del suprematismo bianco. Tuttavia, dal momento che questi monumenti concretizzano una memoria storica ancora travagliata, diventano oggetti contesi, “pietre d’inciampo” attorno cui le comunità si dividono.

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Confronto tra cortei a Charlottesville, 2017 (fonte: www.wtvr.com)

Il dibattito sulla necessità di rimuovere statue, targhe e altri oggetti commemorativi dalle città americane è di lunga data, ma ritorna periodicamente in auge dopo episodi traumatici come raduni filo-nazisti, violenze contro la comunità afroamericana o marce di protesta. La rimozione sistematica di monumenti confederati ha inizio nel 2015, dopo la strage di Charleston (South Carolina), in cui nove cittadini afroamericani furono uccisi da un giovane suprematista bianco. Segue nel 2017 il caso di Charlottesville (Virginia), dove un uomo ha investito con la propria auto il corteo che protestava contro Unite the Right, un raduno di suprematisti bianchi, neo-nazisti e neo-confederati. Tale manifestazione venne organizzata proprio per protestare contro la rimozione della statua di Robert Lee, tra i più famosi generali confederati, che questi gruppi avevano riconosciuto come “loro” patrimonio.

Nei due anni successivi alla strage di Charleston furono rimossi 8 monumenti, mentre nel solo 2017, dopo gli eventi di Charlottesville, ne vennero tolti 36, quasi tutti su decisione delle amministrazioni cittadine. Dall’inizio delle proteste di quest’anno, sono già trenta i monumenti rimossi in tutti gli Stati Uniti (Taylor 2000) [3], ma vanno sottolineate almeno tre differenze rispetto al periodo precedente. Anzitutto, buona parte dei monumenti è stata abbattuta o danneggiata dagli stessi manifestanti, come parte integrante della protesta. La risonanza del caso Floyd ha fatto nascere manifestazioni analoghe in altre parti del mondo, specie in quei Paesi dove il passato coloniale rimane una questione problematica, come Regno Unito e Belgio. Infine, le rimozioni del 2020 non riguardano più solamente i monumenti confederati, ma per la prima volta si estendono anche ad altri personaggi, come Cristoforo Colombo: il 10 giugno, in tre diverse città americane (Boston, St. Paul e Miami), le statue del navigatore genovese sono state danneggiate e in totale sono 36 i suoi monumenti rimossi in tutti gli Stati Uniti. Ne viene contestata la rappresentazione storica di “scopritore del Nuovo Mondo”, sottolineando invece gli aspetti coloniali e la mentalità razzista.

Image: US-POLITICS-RACE-UNREST

Statua decapitata di Cristoforo Colombo, Boston (fonte: www.nbcnews.com)

La portata internazionale delle proteste è andata di pari passo con una contestualizzazione, più o meno riuscita, delle istanze di Black Lives Matter nei vari Paesi, come un’opportunità per evidenziare memorie problematiche. Così in Belgio sono state prese di mira le statue di Leopoldo II, per la sua brutale gestione del Congo in epoca coloniale, mentre in Italia si è riaccesa la querelle su Montanelli. Tra le immagini più famose di queste proteste c’è di sicuro l’abbattimento della statua di Edward Colston, gettata nel porto di Bristol. Al suo posto, l’artista Marc Quinn ha realizzato una scultura dell’attivista Jen Reid – intitolata “A Surge of Power” –, collocandola sul piedistallo vuoto di Colston. L’opera doveva essere un’installazione temporanea, ma è stata rimossa dopo poco più di un giorno per volontà dell’amministrazione cittadina, che ha poi deciso di conservarla nel museo di Bristol (BBC 2020). Una volta ripescata dalle acque anche la statua di Colston verrà esposta nel museo cittadino, con una targa a ricordo dell’avvenimento. La scelta di musealizzare i monumenti problematici è solo una delle possibili strategie attuate dalle istituzioni pubbliche in rapporto a questo aspetto delle proteste di BLM: in alcuni casi le amministrazioni hanno preferito anticipare spontaneamente la rimozione, in altri hanno restaurato le statue, in altri ancora hanno optato per coprire il monumento senza rimuoverlo.

L’antropologia – specie quella statunitense – ha accolto con favore le istanze di Black Lives Matter, declinando la questione del white privilege anche all’interno delle dinamiche accademiche. La Association of Black Anthropology ha espresso anche posizioni fortemente critiche verso la polizia, la quale «is and always has been a form of white supremacy». BLM ha incassato la solidarietà della Society for visual anthropology, della Society for Cultural Anthropology, della AAA e, in Europa, dell’EASA, solo per citare alcune delle più importanti associazioni di settore. Al contrario, sulle modalità delle proteste e in particolare sulla rimozione delle statue c’è decisamente meno accordo. Già nel 2017, dopo gli eventi di Charlottesville, nel meeting annuale della AAA si era posta la questione dei monumenti (Saul & Marsh 2018), sottolineando la necessità di rivedere la gestione di questo patrimonio “difficile”. La discussione, allora come oggi, verteva sull’efficacia di queste rimozioni nel trasformare l’immaginario sociale americano e disinnescare le retoriche razziste. In questo senso, ricercatori come Victoria Klinkert si esprimono in favore dell’abbattimento collettivo delle statue, evidenziando come nel patrimonio monumentale venga incorporato il passato coloniale, pratiche di violenza razziale e valori della white supremacy (Klinkert 2020). L’antropologa britannica considera ad esempio la reazione di gruppi suprematisti in difesa delle statue, che come a Charlottesville riconoscono quei monumenti come parte del proprio patrimonio e del proprio sistema di valori. Al tempo stesso, Klinkert nota come la rimozione ad hoc di loghi e termini razzisti rappresenti spesso un’operazione di whitewashing, con cui le aziende riconfigurano opportunisticamente le proprie strategie di marketing senza un reale interesse per la questione.

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Rimozione di A Surge of Power, Bristol (fonte: www.abcnews.go.com)

Viene allora da chiedersi se, dopotutto, anche la rimozione delle statue da parte delle amministrazioni cittadine non possa dissimulare una forma di whitewashing. Questo è quanto suggerisce Lawrence Kuznar, che già nel 2017 si dichiarò contraria alla rimozione dei monumenti confederati. È significativo che l’antropologa americana abbia collaborato come consulente per l’esercito americano contro l’ISIS, un’organizzazione terroristica famosa per la sua campagna di distruzione di monumenti e manufatti storici. Per Kuznar il problema dei monumenti confederati rappresenta una questione eticamente complessa, che coinvolge istituzioni, comunità e ricercatori, e con cui l’antropologia deve confrontarsi come sapere pubblico. Le statue, in quanto costrutti culturali, incorporano valori e significati nella misura in cui gruppi e individui ve li assegnano, e per questo la loro distruzione non fa altro che alimentare dinamiche di whitewashing: rimuovere le statue porta anche a rimuovere dalla memoria pubblica eventi storici problematici e negativi che andrebbero ricordati (Kuznar 2017). Paradossalmente, la rimozione dei monumenti confederati indebolisce la consapevolezza collettiva rendendola più permeabile alle retoriche suprematiste.

Per quanto problematico, questo patrimonio costituisce una testimonianza e un monito costante (funzione educativa), che Kuznar paragona a quello di Auschwitz. Tuttavia, un memoriale come l’ex campo di concentramento nazista e dei monumenti pubblici come le statue confederate pongono problemi diversi, a partire dalla loro origine; le statue possiedono una dimensione intrinsecamente ostensiva e celebrativa che Auschwitz non ha mai posseduto. Entrambi però sono esempi rappresentativi di negative heritage, che le proteste di Black Lives Matter hanno riportato al cento del dibattito statunitense.

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Alcune statue del parco di Szobor, Budapest (fonte: www.spiceofeurope.it)

Contro il patrimonio

Il patrimonio culturale non rappresenta qualcosa di dato e fissato, ma al contrario viene costruito culturalmente attraverso pratiche di governance, leggi, stakeholder pubblici e privati ecc. Per descrivere questo assemblaggio culturale che modella il patrimonio – materiale e immateriale – si parla di regimi del patrimonio (Geismar 2015). Lo stesso termine comprende anche la differente ricezione delle Convenzioni UNESCO da parte dei singoli Stati. È interessante come le norme e le convenzioni internazionali descrivano il patrimonio culturale mondiale con un linguaggio analogo a quello del patrimonio naturale: opere d’arte, reperti archeologici, monumenti, vengono tutti considerati come un insieme di risorse non rinnovabili, da preservare a beneficio dell’umanità. In questo senso, i regimi del patrimonio rendono conto della difficoltà di coniugare tale visione universalistica e conservativa con il riconoscimento di dissonanze e differenze culturali (Meskell 2002: 570). La mancata gestione di queste tensioni può portare ad una negazione del concetto stesso di patrimonio, un anti-heritage, come forma estrema di resistenza all’ethos normativo dei regimi; una negazione che si traduce finanche in atti distruttivi, danneggiando e demolendo manufatti e monumenti.

Gli assemblaggi culturali alla base degli heritage regimes mostrano spesso zone d’attrito, rotture e lacune, specie quando coinvolgono direttamente la rappresentazione identitaria di un gruppo, o la memoria sociale di una comunità. Prendono così forma quelli che vengono definiti patrimoni “assenti”, “difficili”, “negativi”, o counter-heritage (Geismar 2015: 80-82; Byrne 2014), e che richiedono apposite forme di governance per essere gestiti. Alla base di questi patrimoni problematici vi sono spesso guerre, genocidi, dittature, o traumi collettivi come quello dell’11 settembre (Logan & Reeves 2009). La caduta delle Torri gemelle si è fissata nell’immaginario globale, segnando profondamente la società statunitense: Ground Zero è un caso emblematico di patrimonio negativo, uno spazio conflittuale che concretizza il ricordo dell’attentato in un memoriale (Meskell 2002: 558). La sua realizzazione ha diviso l’opinione pubblica, divisa tra chi sosteneva una ricostruzione integrale e chi invece riteneva proprio l’assenza la testimonianza più efficace. Anche da parte dei familiari delle vittime non c’è stata un’approvazione unanime, critici sui risvolti turistici di un sito percepito come luogo di cordoglio. Lo stesso problema si era già proposto riguardo ad Auschwitz, che insieme a Ground Zero è il memorial museum più conosciuto e visitato al mondo [4].

Mentre i memoriali, come dice il nome stesso, evidenziano il nesso tra patrimonio materiale e memorie negative, altre forme di counter-heritage agiscono dissimulando o cancellando quel legame. Harrison descrive alcune di queste strategie, considerando la rimozione dallo spazio pubblico di simboli, edifici e monumenti fascisti in Germania e Italia nel secondo dopoguerra. Una prima soluzione prevede il riutilizzo attraverso l’estetizzazione, rivalorizzando il patrimonio come oggetto d’arte e ponendo in secondo piano la memoria negativa; la musealizzazione rappresenta l’esito finale di questo processo, ma non l’unico. L’alternativa è una distruzione parziale e selettiva, con un patrimonio “mutilato” ottenuto rimuovendo i segni più espliciti del suo passato, come svastiche e fasci littori (Harrison 2013: 173). A volte la mutilazione rappresenta una scelta consapevole, come forma di oltraggio e condanna: un esempio di queste “assenze significative” viene dall’Ungheria post-Stalin, dove delle statue del dittatore furono lasciati solo i piedi. Tuttavia, nelle statue è particolarmente difficile sradicare l’intento celebrativo che ne è alla base: valga l’esempio del parco Szobor di Budapest, in cui sono state ricollocate diverse statue sovietiche e dove, nonostante le finalità educative, rimane una certa ambiguità (Harrison 2013: 183-187).

Il caso ungherese è simile a quello di tutti gli ex-Stati sovietici e jugoslavi, che dopo lo scioglimento di quelle macro-entità politiche si sono impegnate nella costruzione di una nuova narrazione nazionale e comunitaria. In questi contesti di fragilità sociale, Kisić (2016) si occupa delle politiche di governance del patrimonio e ai tentativi di riconciliare le “dissonanze” al suo interno. Queste descrivono nient’altro che la sovrapposizione tra interpretazioni date da attori diversi, su luoghi, eventi, persone e oggetti del passato (Kisić 2016: 50). La dissonanza è una condizione presente in ogni patrimonio – anche se talvolta in forma latente – poiché i processi che lo costituiscono sono sempre posizionati socialmente, e come tali escludono altre interpretazioni. Per Kisić esistono precisi authorized heritage discourse (AHD) che sono costantemente all’opera per neutralizzare le dissonanze del patrimonio attraverso la mediazione con nuove visioni e immaginari sociali del passato (Kisić 2016: 55).

Occorre fare una netta distinzione tra la Storia, intesa come tentativo sistematico di descrizione del passato, e patrimonio, come assemblaggio contemporaneo ottenuto dalla Storia attraverso processi selettivi e interpretativi che chiamano in causa la memoria pubblica (Kisić 2016: 52). La Storia non coincide mai con la memoria: è un prodotto successivo, ottenuto sedimentando, purificando e assemblando immaginari e memorie sociali (Sather-Wagastaff 2015). Collochiamo la Storia prima delle memorie per un errore prospettico dovuto al nostro sguardo culturale, considerandola come qualcosa di assolutamente oggettivo, scientifico, puro. Cosa significa, allora, “riscrivere” la Storia? Vuol dire rimettere mano all’assemblaggio di memorie e visioni, mostrando il dispositivo culturale nel suo agire, come processo parziale e interessato. Le pratiche di counter-heritage contestano il patrimonio proprio per la parzialità della storia che materializza, insieme all’autorità che lo legittima. In questo senso le proteste di Black Lives Matter contro Cristoforo Colombo o, nel Regno Unito, contro Winston Churchill, sono tentativi di rivedere la narrazione ufficiale di questi due personaggi storici, evidenziandone gli atteggiamenti razzisti.

Tuttavia, certe memorie storiche particolarmente intrecciate all’auto-rappresentazione delle comunità vengono difficilmente riviste. In Italia ad esempio, il periodo della Resistenza è stato decisivo nel definire l’identità della nuova Repubblica, ma il conflitto tra partigiani e repubblichini costituisce tutt’oggi una memoria problematica. Ne vediamo alcune ripercussioni nella controversia nata sulla mozione – prontamente bocciata – per la realizzazione di un museo sul fascismo a Roma, con finalità didattiche. La proposta della consigliera Gemma Guerrini è stata subito condannata dall’ANPI e da buona parte delle forze politiche, ritenendola incompatibile con i valori dell’anti-fascismo. Simili musei dedicati al nazi-fascismo esistono in altri Paesi europei, come il Terror Háza Muzeum di Budapest e la Topographie des Terrors di Berlino, nati con lo scopo di educare e contrastare il negazionismo. È significativo che pochi mesi fa (giugno 2020), all’Archivio Centrale di Stato presso l’EUR siano stati trafugati 970 labari fascisti usati durante la Marcia su Roma. Colti insieme i due avvenimenti restituiscono un’istantanea delle difficoltà di gestire l’eredità del fascismo in Italia. Contestato o desiderato, rimane comunque un patrimonio capace di evocare forti emozioni e contrasti, una memoria che come la guerra di secessione americana continua a dividere la società, ma con logiche e narrazioni assolutamente contemporanee.

Paysage culturel et vestiges archéologiques de la vallée de Bamiyan

Sito del Buddha di Bamiyan, dopo la distruzione (fonte: www.wikipedia.org)

Più di altri monumenti, le statue catalizzano precisi immaginari del passato, dando letteralmente un volto a certe memorie. L’abbattimento delle statue di Robert Lee, Colombo o Leopoldo II ha una carica simbolica tanto più forte in quanto riguarda delle icone culturali, l’immagine di personaggi che incarnano interi sistemi di valore. Anche per questo Black Lives Matter è stato accusato di essere un movimento iconoclasta, che cerca di cancellare la memoria storica rimuovendone i simboli più evidenti. In senso lato l’iconoclastia rimanda ad un atteggiamento irrazionale, distruttivo ed estremista, “anti-patrimonio” per eccellenza, derubricando così le proteste di BLM a cieco vandalismo. Eppure, come sottolinea Geismar: «It is too easy to ascribe a simplistic politics of extremism to such antiheritage maneuvers without understanding the full implications of antiheritage sentiment as a foundation for social movements» (Geismar 2015: 81).

L’accusa di iconoclastia torna di frequente nelle pratiche di counter-heritage. Il caso più emblematico rimane quello del Buddha di Bamiyan, demolito dai talebani nel 2001 (Harrison 2013: 183-187). L’abbattimento di questa scultura secolare rimase per decenni nell’immaginario globale come esempio di iconoclastia moderna e di terrorismo culturale (Meskell 2002: 561-63). Tuttavia, quando confrontata con le modalità storiche dell’iconoclastia islamica tale rappresentazione risulta piuttosto anomala (Flood 2002: 651), e appare piuttosto come un riferimento retorico, una giustificazione per scopi decisamente contemporanei. La distruzione del Buddha fu un evento attentamente programmato, un evento mediatico con tanto di inviti ai giornalisti esteri. I talebani denunciarono l’ipocrisia della comunità internazionale, rimasta indifferente davanti alla carestia locale, ma al tempo stesso capace di spendere milioni per preservare un oggetto d’arte (Crosette 2001). In questo senso va inteso il rifiuto di Mullah Omar – leader del movimento – alla proposta del MET di New York, che in alternativa alla distruzione della scultura si offrì di acquistarla e rimuoverla a proprie spese; ai fini della contestazione, la distruzione della statua ha ben altro impatto che non la sua semplice rimozione.

Per molti versi, nelle sue modalità l’abbattimento del Buddha di Bamiyan ha anticipato la distruzione sistematica di reperti archeologici e manufatti da parte dell’ISIS. Le azioni dello Stato Islamico hanno costituito una vera e propria counter-heritage campaign (Harmanşah 2015: 171), in cui il tema dell’iconoclastia islamica ritorna come giustificazione ideologica. A differenza dei talebani, l’ISIS non ha avuto scrupoli a rivendere moltissimi reperti nel mercato nero come forma di auto-finanziamento. Lo Stato Islamico ha dato grandissima importanza alla propria immagine pubblica, utilizzando i social network come nessun gruppo terroristico aveva mai fatto. Le riprese – accuratamente montate – della distruzione perpetrata nel museo di Mosul hanno avuto una grandissima diffusione, scatenando un acceso dibattito all’interno della comunità internazionale. A questo proposito Harmanşah sottolinea il paradosso di definire l’ISIS iconoclasta, quando la sua strategia comunicativa ha portato ad un’iper-produzione globale di immagini. Anche le azioni più estreme di anti-heritage devono rapportarsi con «the central paradox of iconoclasm: visiting vengeance on the fetishized icon by slapping, slashing, or smashing, iconoclasts no less than iconophiles engage with the power (if not the animateness) of the image» (Flood 2002: 653).

La distruzione di opere d’arte e monumenti storici come forma di protesta non è solo una pratica recente, o relegata a movimenti estremisti e gruppi terroristici. Un caso che per certi versi anticipa le azioni di Black Lives Matter è quello di Mary Richardson, attivista per i diritti delle donne nel primo Novecento. Nel 1914, dopo l’arresto di Emmeline Pankhurst – leader delle suffragette britanniche – sfregiò il dipinto Venere e Cupido di Pedro Velázquez, con l’intenzione di sensibilizzare l’opinione pubblica sulla disuguaglianza di genere. Il quadro di Velázquez fu scelto dalla suffragetta come emblema dell’ipocrisia della propria società, che da un lato idealizzava la donna attraverso l’arte, e dall’altro le negava diritti fondamentali come quello di voto, ritenendola naturalmente inferiore all’uomo (Flood 2002: 654).

Come antropologi, non possiamo dimenticare che la distruzione volontaria del patrimonio materiale in altri contesti culturali rappresenta una possibilità accettata e socialmente riconosciuta. La più famosa di queste pratiche è senza dubbio la cerimonia del potlatch, in cui gli sfidanti gareggiano per dilapidare i propri beni, redistribuendoli o più spesso distruggendoli, guadagnando così prestigio e rango sociale. Recentemente, un nuovo potlatch è stato eseguito dall’attivista e artista indigeno Beau Dick [5] come “shame ceremony” (Troian 2014) contro il Parlamento canadese, per protestare contro le politiche governative nei confronti delle First nations canadesi. La pratica del potlatch, vietata per decenni dalle autorità canadesi, è stata così recuperata e ricontestualizzata come sfida al potere coloniale, un oltraggio simbolico cui il governo canadese non è ovviamente in grado di rispondere, e che vede il confronto non solo tra due sistemi di valori, ma tra due concezioni del patrimonio. Il manufatto in rame usato nel potlatch, che le istituzioni canadesi avrebbero conservato in un museo etnografico, è stato invece impiegato dai suoi legittimi possessori secondo la modalità tradizionale, cioè danneggiandolo intenzionalmente.

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Beau Dick insieme agli altri manifestanti durante la cerimonia del potlatch (fonte: www.warriorpublications.wordpress.com)

Il valore di una statua

Finora [6] le proteste di Black Lives Matter hanno portato all’abbattimento di quasi 200 monumenti, più della metà dei quali legati alla Confederazione. Nei tre quarti dei casi è una statua ad essere rimossa, una percentuale che dipende sia dalla maggior frequenza con cui vengono realizzate, sia da una precisa scelta da parte dei manifestanti. Entrambi questi fattori sono legati al modo in cui la statua è stata concepita come monumento all’interno del contesto europeo, prima, e statunitense, poi. Fin dal Seicento, infatti, le statue diventano parte integrante di una topografia del potere, legata allo sviluppo dello spazio pubblico monumentale. Tra XVII e XIX secolo le città diventano luogo di un processo di embellissement, un modellamento dello spazio urbano attraverso cui le autorità manifestavano il proprio potere (Nicolin 2009: 199). Le statue, dunque, si trovano al centro di queste pratiche celebrative, che con la nascita degli Stati moderni permettono di plasmare la memoria collettiva della nazione attraverso i monumenti.

Nelle metropoli contemporanee rappresentano dei landmark, edifici iconici che caratterizzano la città nell’immaginario globale, dotati di forti spessori ideologici (Nicolin 2009: 205). Monumenti, statue e altri urban landmark contribuiscono a creare e rafforzare le grandi narrazioni pubbliche, non solo a discapito, come abbiamo visto, di visioni e memorie alternative, ma insistendo sul patriottismo e legittimando specifici aspetti del patrimonio (Shackel 2001: 657). Le azioni di Black Lives Matter stanno mostrando la tensione tra istituzioni, movimenti e interi gruppi sociali per orientare la (ri-)costruzione della memoria pubblica, attraverso la cultura materiale e i valori che concretizza (Meskell 2002: 557; Shackel 2001: 665).

Le statue contemporanee hanno mantenuto parte di questo retaggio storico-culturale, nonostante la concezione di monumento – così come quella di patrimonio – abbia continuato a cambiare nel tempo. Per il sociologo e urbanista Lewis Mumford, la funzione “autentica” del monumento rimane quella dell’antichità classica, creato cioè per commemorare persone o eventi, fissandone la memoria nello spazio pubblico. Tuttavia, con il Rinascimento e la pianificazione delle città, il monumento diventa anche “involontario”: un elemento architettonico che è parte della progettazione dello spazio urbano, dipendente da valutazioni estetiche e senza finalità commemorative [7]. Ne vediamo un esempio estremo nel dipinto della “città ideale” conservato a Baltimora, in cui ogni edificio è un monumento, ma nessuno lo è davvero: ritroviamo edifici classici come l’anfiteatro e l’arco di Costantino, o recenti come il battistero di Firenze, insieme ad una piazza delimitata da statue. L’Ottocento segna una nuova transizione storica, in cui prende forma la moderna concezione del patrimonio; di conseguenza, il monumento inizia ad essere inteso come qualunque testimonianza del passato, senza distinzioni tra un tempio, un mausoleo o un edificio pubblico (Nicolin 2009: 200).

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La città ideale, dipinto rinascimentale conservato a Baltimora (fonte: www.wikipedia.org)

Tra il XIX e il XX secolo questo “patrimonio antico”, spesso cooptato all’interno delle auto-rappresentazioni nazionaliste, viene sistematicamente musealizzato. Per Mumford, che ritiene la modernità incompatibile con il concetto di monumento, i musei hanno ereditato l’antica funzione di preservazione della memoria (Mumford 1937: 265). Di fatto le pratiche museali agiscono risocializzando gli oggetti, privandoli di alcuni valori e attribuendogliene altri. Una maschera Dogon perde il suo valore rituale, un’icona ortodossa il suo carattere sacro, una scultura fascista – ricordando Harrison – la sua valenza politica. Un doppio processo, di neutralizzazione iniziale e di valorizzazione successiva, che ciononostante rimane esposto a critiche e contestazioni. È la storia stessa dell’antropologia a mostrare come la musealizzazione possa avere degli effetti distruttivi sul patrimonio, come nel caso dei manufatti indigeni raccolti nelle collezioni etnografiche (Meskell 2002: 565), che continuano a suscitare dibattiti sulla loro restituzione.

La musealizzazione dei monumenti confederati è una delle soluzioni “di compromesso” messe in atto dalle istituzioni nei confronti delle proteste di BLM. Il caso di Bristol è quello più conosciuto, ma sono molte le amministrazioni cittadine negli Stati Uniti che hanno deciso di spostare statue e memoriali nei musei, sfruttando la neutralizzazione di cui sopra per rimuovere la loro problematicità e disinnescare sul nascere ulteriori proteste. D’altronde, gli eventi di Charlottesville dimostrano che anche i suprematisti bianchi e i movimenti revisionisti sono interessati a questo patrimonio, al punto da opporsi alla rimozione delle statue. Anzi, come per il progetto del museo del fascismo a Roma, c’è la possibilità che queste operazioni di “neutralizzazione della memoria” lascino delle zone grigie, in cui è ancora possibile celebrare quel negative heritage statunitense legato alla guerra di secessione e alle politiche di segregazione razziale. Di nuovo, non tanto (o non solo) per le ricostruzioni del passato, ma per le ripercussioni sulla società attuale e sugli atteggiamenti discriminatori che già esistono.

Si tratta di un rischio concreto, ma per certi versi “connaturato” a questo tipo di patrimonio. L’aspetto celebrativo rappresenta un particolare trattamento della memoria, in cui personaggi ed eventi vengono esaltati positivamente. In altre parole, ogni monumento è commemorativo, ma solo alcuni sono celebrativi. Questo rende conto della difficoltà di separare i due aspetti nel caso di quel problematic heritage che abbiamo rapidamente esaminato nei precedenti paragrafi. Possiamo pensare la celebrazione come una specifica polarizzazione positiva della memoria, che ha la sua controparte negativa nella contestazione e nel counter-heritage. Ovviamente negativo e positivo vanno intesi come metafora, e non come un giudizio morale sul fenomeno. Ne consegue che la dissonanza del patrimonio ricordata da Kisić costituisce una condizione latente proprio perché l’aspetto celebrativo permane sempre come possibilità in ogni statua o monumento pubblico. Allo stesso modo, non è mai possibile eliminare del tutto la natura politica di questo patrimonio: i monumenti rappresentano delle embedded social memory (Sather-Wagastaff 2015), espressioni intenzionali di potere per materializzare precise memorie collettive nello spazio pubblico. Per tale motivo, possiedono una predisposizione ad incorporare valori simbolici, riproponendoli ostensivamente; le modalità con cui avviene questa forma di comunicazione si avvicinano al concetto di affordance, nel senso che “suggeriscono” un utilizzo del monumento.

La musealizzazione, la patrimonializzazione, la contestazione e perfino l’abbattimento sono usi culturali che le comunità fanno dei propri monumenti. Utilizzi creativi, per la precisione: «The process of destroying or removing an object, place or practice is not only a destructive process, but a process by which an attempt is made to clear the way for the creation of new collective memory» (Harrison 2013: 171). Certo, non è facile accettare l’idea che la distruzione del patrimonio possa costituire una forma, perfino legittima, di utilizzo; torna allora utile l’esempio del potlatch, che testimonia non solo l’esistenza di questa possibilità culturale, ma la sua ricontestualizzazione come forma di protesta nel contesto attuale. Del resto, la distruzione delle statue è una pratica di lungo corso anche nel “civilizzato” Occidente (D’Annovil & Rivière 2016), anche come azione sancita dall’autorità. Limitarsi ad accusare Black Lives Matter di vandalismo e iconoclastia non ci aiuta né a comprendere il fenomeno delle proteste, né a riconoscere il profondo e complesso disagio sociale del contesto statunitense; né, tanto meno, serve alle istituzioni e alle comunità coinvolte per trovare una linea di mediazione. Al contrario, provare a capire perché le statue cadono permette di immaginare strategie alternative per gestire questo patrimonio problematico.

In chiusura ci permettiamo di esplorare una di queste possibilità, consapevoli del suo carattere provocatorio. Cosa succederebbe se, invece di abbattere completamente la statua, invece di restaurarla e mantenerla sul posto o spostarla in un museo, questa fosse mantenuta volutamente danneggiata com’è nello spazio pubblico? Si tratta di una decisione possibile (e sensata, se possibile) solo a posteriori della protesta, che anziché neutralizzare la contestazione ne mantiene visibile i segni. Certo, una simile proposta è in pieno contrasto con molti degli attuali regimi del patrimonio, con la concezione del monumento come qualcosa da conservare nella sua integrità, ma d’altro canto ha il pregio di mantenere attivi certi aspetti critici del counter-heritage senza il bisogno di scontri violenti. I musei attuali possono raggiungere solo una parte limitata delle comunità con le proprie iniziative, mentre lasciare le statue danneggiate nelle piazze e nelle strade – nello spazio che la gente abita collettivamente – significa far spiccare questi monumenti, togliendoli dall’anonimato dello sfondo urbano, mantenendo attivo il dibattito pubblico. La dissonanza non viene risolta, ma portata (letteralmente) in superficie sfruttando il carattere ostensivo del monumento; nel contempo la distruzione parziale, come “oltraggio” simbolico (Harrison 2013), rende più ardue possibili valorizzazioni celebrative.

Dialoghi Mediterranei, n. 45, settembre 2020
 Note
[1] Mentre nella traduzione italiana assume inevitabilmente una connotazione ambigua, nel contesto statunitense racial discrimination appartiene ad una terminologia riconosciuta e meno problematica.
[2]https://anthropoliteia.net/category/pedagogy/black-lives-matter-syllabus-project/ http://www.blacklivesmattersyllabus.com/
[3] Un’altra lista in continuo aggiornamento si trova in una apposita pagina di Wikipedia: https://en.wikipedia.org/wiki/List_of_monuments_and_memorials_removed_during_the_George_Floyd_protests [controllato 12/08/20]
[4] Ricordando la caustica riflessione di Bennett, «non esiste un luogo non visitabile. Questo, almeno, ci ha insegnato l’Olocausto» (Bennett 2015: 123).
[5] Beau Dick ha ereditato la carica di capo del gruppo Kwakwaka’wakw, più conosciuti nella letteratura antropologica come Kwakiutl, residenti nella Columbia britannica.
[6]  Le cifre riportate si riferiscono alla situazione del solo contesto staunitense, fino a metà dell’agosto 2020.
[7] Si tratta di una nuova possibilità, che non sostituisce mai del tutto il monumento classico: ne è un esempio la statua rinascimentale del Gattamelata, ricordata all’inizio.
 Riferimenti bibliografici
BBC, 2020, “Jen Reid: Bristol Black Lives Matter statue removed”, BBC News, July 16, https://www.bbc.com/news/uk-england-bristol-53427014 [controllato 12/08/2020].
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 D’Annovil, Caroline, Rivière, Yann (eds.) 2016, Faire parler et faire taire les statues: de l’invention de l’écriture à l’usage de l’explosif, Roma: EFR.
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 Harrison, Rodney, 2013, Heritage: Critical Approaches, New York/London: Routledge.
 Kisić, Višnja, 2016, Governing Heritage Dissonance, Amsterdam: European Cultural Foundation.
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 Kuznar, Lawrence A., 2017, “I detest our Confederate monuments. But they should remain”, The Washington Post, August 18, https://www.washingtonpost.com/opinions/i-detest-our-confederate-monuments-but-they-should-remain/2017/08/18/13d25fe8-843c-11e7-902a-2a9f2d808496_story.html [controllato 12/08/2020].
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Sather-Wagastaff, Joy, 2015, “Heritage and Memory”, in E. Waterton, S. Watson (eds.), The Palgrave Handbook of Contemporary Heritage Research, Basingstoke: Palgrave Macmillan, pp. 191-204.
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Nicola Martellozzo, dottorando presso la Scuola di Scienze Umane e Sociali (Università di Torino), negli ultimi due anni ha partecipato come relatore ai principali convegni nazionali di settore (SIAM 2018; SIAC 2018, 2019; SIAA-ANPIA 2018). Con l’associazione Officina Mentis conduce un ciclo di seminari su Ernesto de Martino in collaborazione con l’Università di Bologna. Ha condotto periodi di ricerca etnografica nel Sud e Centro Italia, e continua tuttora una ricerca pluriennale sulle “Corse a vuoto” di Ronciglione (VT).

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