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Quale umanità dopo Cutro? Riflessioni su morte, confini e umanitarismo

Cutro (ph. Giovanni Cordova)

Cutro (ph. Giovanni Cordova)

di Giovanni Cordova

Perché continuare a scrivere e parlare del naufragio al largo di Steccato di Cutro oltre due mesi dopo gli eventi? Qual è il senso di continuare a tenere alta l’attenzione su un fatto abbondantemente approfondito da media, attivisti e attiviste, movimenti impegnati nella solidarietà e nel contrasto al razzismo? In fondo, si potrebbe obiettare, Cutro si ripete continuamente nel Mediterraneo e nel deserto del Sahara, dove migliaia di migranti, negli ultimi anni, sono stati consegnati nelle mani di milizie sanguinarie che operano in barba a qualsivoglia rispetto dei diritti umani e dove, al di qua della frontiera desertica, sono stati allestiti centri di detenzione nei quali ogni genere di abuso viene consumato, prassi che anche le agenzie internazionali hanno denunciato richiamando alle proprie responsabilità i Paesi che hanno contribuito alla messa in forma di questo perverso sistema di contenimento delle partenze, Italia su tutti.

Insomma, 26 mila morti negli ultimi dieci anni, di cui mille solo nei primi tre mesi del 2023: cifre che sono quelle di una guerra a non bassa intensità, e alle quali bisognerebbe aggiungere quelle di tante persone per le quali non si presenta l’orrifica possibilità di raccoglierne i cadaveri gonfi dalle acque del mare, e a cui dovremmo sommare la scomparsa di barchini nel Canale di Sicilia, nel mar di Sardegna o nello Stretto di Gibilterra, per limitarci al solo Mediterraneo centro-occidentale, e le ancor più numerose persone che intraprendono il viaggio dai contesti dell’Africa Subsahariana e che nemmeno riescono a raggiungere la Libia. Sono numeri che richiamano a ben precise responsabilità politiche: perché l’ormai annunciata guerra agli scafisti, ai quali si promette la cattura in ogni angolo del globo terracqueo, ignora – e contribuisce fattivamente a obnubilare – che questo frammentato e complesso sistema chiamato a gestire la vocazione alla mobilità di centinaia di migliaia (o milioni) di persone che a causa delle loro origini non possono muoversi liberamente, sistema alla cui definizione contribuiscono uffici consolari e ambasciate, personale diplomatico, i fantomatici scafisti, i mediatori di terra e di mare, gli uomini e le donne di potere con i loro accordi per lo sviluppo e la riproduzione neocoloniale del dominio, dipende ed è irrorato da una fatale restrizione delle possibilità di accesso alla mobilità.

Mobilità che costituisce una sotto-articolazione delle altre forme di capitale individuate da Pierre Bourdieu: un capitale di mobilità, variamente interrelato alla dotazione di altre forme di capitale: economico, perché chi può accedere alla mobilità ‘legale’ ha più soldi; politico, perché emigra nelle modalità ‘regolari’ chi occupa le griglie superiori dello scacchiere sociale e chi per ‘sangue’ ha il passaporto di un colore che gli permette di spostarsi senza patemi; sociale, perché la mobilità ha maggiori garanzie di riuscita se si è nelle condizioni di muovere opportunamente le pedine – le conoscenze – che servono al rilascio del visto. Il capitale culturale no, ormai conta sempre meno, perché negli ultimi anni sempre di più viene negata la possibilità di intraprendere soggiorni di studio a chi frequenta corsi universitari e di alto livello formativo, in Africa settentrionale e subsahariana.

In altre parole, sono le limitazioni impresse alla mobilità internazionale che rendono prioritario il piano informale della migrazione – la falsificazione di documenti, il pagamento di ingenti somme ai mediatori e agli ‘scafisti’, le fitte reti sociali tra i poli dell’esperienza della mobilità, e chissà come avrebbe nominato questo mondo tutt’altro che sotterraneo l’antropologo Evans-Pritchard, il quale ebbe a definire la Libia come il “condominio turco-senussita” – producendo dunque l’illegalità come regime esistenziale delle vite di scarto confinate al di fuori del centro politico ed economico dell’impero.

Ora, ritornando al quesito che apre questo contributo, è lecito chiedersi perché “i fatti” di Steccato di Cutro rappresentino uno spartiacque, impongano una cesura rispetto a dinamiche, temi, prassi governamentali e scelte politiche note e vigenti da ormai tanti anni. Certo, Cutro si impone all’attenzione per la quantità dei morti, non ancora definita visto che mentre scrivo ancora sono sei i dispersi, mentre il corpo di un uomo adulto è stato appena ritrovato al largo di Praialonga: la novantaquattresima vittima del naufragio. C’è poi la modalità particolarmente tragica di quest’ultimo: i migranti sono morti a 150 metri dalla riva dopo il lungo viaggio da Smirne, con l’ignominioso balletto di responsabilità e omissioni che tutti oggi ben conosciamo. Inoltre, il fatto che il naufragio sia avvenuto a una così ridotta distanza dalla riva ha reso possibile una ricerca dei corpi nel tratto di costa ionica a nord e a sud di Steccato di Cutro che ha acquisito un significato simbolico e politico tutt’altro che secondario, assumendo le fattezze di una responsabilità riparatrice tuttavia tardiva e decisamente inadeguata rispetto ai compiti che avrebbero dovuto imporre, la notte del 26 febbraio, il salvataggio dei migranti.

s-l1600Per questo, tanti tra i parenti dei sopravvissuti, dei morti e dei dispersi hanno attraversato l’Europa per ritrovarsi nel crotonese. La risonanza degli eventi ha permesso anche di dare notizia di fatti che altrimenti sarebbero passati in secondo piano: la permanenza dei sopravvissuti al naufragio in angusti centri di accoglienza, privi di servizi di accoglienza e di supporto psicologico – prassi che in ogni caso si ripresenta a ogni sbarco ma che, vista l’entità della tragedia/strage, avrebbe forse richiesto ben altro trattamento; le polemiche sui rimpatri delle salme in altra regione; l’interramento e la sepoltura di alcuni morti in modalità non conformi alla loro religione. Sono dinamiche che si riproducono a ogni sbarco e che in questo caso però hanno assunto particolare rilevanza mediatica e politica: dovremmo non dimenticare, alla prossima occasione, cosa si cela dietro i numeri: persone, relazioni familiari transnazionali da ricomporre, da vivi o da morti, pratiche rituali da ottemperare, progetti esistenziali individuali e comunitari la cui sospensione non può che generare disorientamento in chi ‘resta’ e in chi è già partito e si trova nella condizione di ‘emigrato’.

L’elemento decisivo che a mio avviso ha concorso a rendere il naufragio di Steccato di Cutro difficilmente obliabile è la risalita in superficie delle responsabilità che hanno co-determinato la morte dei naufraghi e delle naufraghe, responsabilità non solo logistico-organizzative ma politiche. L’indirizzo politico impresso dall’ex ministro degli interni, Matteo Salvini, e tutt’oggi valido ha reso maggioritarie le operazioni di polizia rispetto a quelle di salvataggio, determinando la concreta diminuzione delle risorse e dei mezzi di soccorso in mare, come quelli della Guardia Costiera, il cui ruolo negli ultimi anni nel Mediterraneo è stato ridimensionato e deformato.

In una recente riflessione scritta poche settimane fa, Salvatore Palidda ha impiegato l’espressione «scelta tanatopolitica» [1] per descrivere l‘orientamento etico-politico con cui i migranti – al largo di Cutro e altrove nel Mediterraneo – vengono lasciati morire come effetto di una decisione politica assunta per una serie di ragioni – convenienza elettorale, indifferenza morale, sacrificabilità di vite ineguali (Fassin 2019) in cambio di consenso e all’interno di partite geopolitiche con partner europei ed extraeuropei –  e che tuttavia difficilmente può essere impugnata in sede giuridica e legale. Sebbene negli ultimi anni le scelte macroscopicamente mortifere e razziste applicate da diversi governi – dai porti chiusi con cui navi contenenti decine di migranti in condizioni psicofisiche precarie vengono trattenuti illegalmente a bordo al “reato di solidarietà” comminato alle ONG la cui assenza poi determina le stragi del Mediterraneo, passando per le ancor più truci omissioni di soccorso manovrate dai piani “alti” di organismi di sicurezza – abbiano sollecitato l’azione di controllo e di vigilanza da parte delle autorità competenti, non è sempre lineare ricondurre un evento nella maggior parte dei casi ‘intangibile’ a una ben definita responsabilità politica, morale e personale.

Cutro (ph. Giovanni Cordova)

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La vita e la morte

Non dimentichiamo che nel tracciare i percorsi della sovranità nell’epoca contemporanea, Achille Mbmembe (2016) ha coniato la formula di ‘necropolitica’ per definire quella qualità ‘ultima’ del potere che consiste nella possibilità di esercitare poteri di vita e di morte, ovvero di decidere chi possa vivere e chi debba invece morire. La morte è il rimosso di una modernità “liquida” in cui la tecnologia – in primis quella medica – sembra avere il potere prometeico di riscrivere i confini tra umano e non umano e tra vita e assenza di vita, salvo accorgersi poi che ciò che invece è stato prodotto è semplicemente l’allontanamento della morte dalla trama sociale e intersoggettiva delle cose “umane”. Morte racchiusa in un ambito privato, invisibile, indicibile, sorvegliato in ragione della sua potenziale sovversività rispetto alla continua messa a valore che l’orizzonte neoliberale del capitale propone e alimenta senza sosta.

Eppure la pandemia prima e la guerra sul fronte orientale dell’Europa ci hanno restituito la terribile ‘terrestrità’ della morte. Ecco, la “tanatopolitica” con cui si lasciano morire i migranti gioca un doppio registro culturale, prima ancora che politico: esercizio del potere di morte, da una parte; suo non disvelamento, perché questa morte – o meglio, queste morti – non riguardano che la periferia dell’umanità, i suoi margini, la sua componente eccedente e sacrificabile, eppure così necessaria alla riproduzione dell’economia nel vecchio e non più troppo opulento Occidente.

In altri termini, i migranti vengono lasciati morire, come Steccato di Cutro ha manifestatamente evidenziato (e, ancora prima, le omissioni di soccorso nel Mediterraneo centrale, Lampedusa, lo scarica-barile tra Paesi dell’Unione Europea, ecc.), ma senza che il fondamento di questa decisione venga espressamente rivendicato; anzi, la decisionalità del “lasciar morire” viene negata fino all’ultimo. Al di là delle retoriche del governo e dei governi, una strategia ben consolidata per respingere ogni responsabilità consiste nell’attribuirla ai migranti stessi: l’agghiacciante domanda della premier Meloni ai superstiti del naufragio di Cutro (“Conoscete i rischi delle traversate?”) condensa questo tropo retorico tipicamente neoliberale in cui invece che le ragioni strutturali di un fenomeno a essere messe in primo piano nei processi esplicativi e descrittivi della realtà sono le responsabilità degli “ultimi” – e, prima di loro, delle ONG, “taxi del mare” e complici dei trafficanti. Ecco capovolti i nessi di causalità: non solo sono i migranti a essersi “giocati” la vita, ma essi vengono infantilizzati alla stregua di bambini incapaci di assumere scelte sensate e assennate.

9788869480072_0_536_0_75Per tutti questi motivi ritengo che la scelta tanatologica del “lasciar morire” non sia amorale, in quanto non vi è una sospensione di quella valutazione etica che la vita degli esseri umani impone nel conferire senso e significati ad azioni, luoghi, progetti e all’esistenza intera. Si tratta invece di una scelta consapevole e pienamente morale, in quanto inscritta in una cosciente negazione di valore della vita delle persone che vengono costrette a rischiare imbarcandosi nelle modalità che ben conosciamo, e che troppo spesso non vengono soccorse. Non tutti gli uomini e le donne impegnati nei salvataggi in mare ovviamente condividono questo assunto: mentre scrivo la Guardia costiera italiana trae in salvo più di 1200 persone nelle acque del Mediterraneo. Mi riferisco invece a un indirizzo politico, a una vera e propria cultura il cui baricentro “affonda” nel valore differenziale accordato alle vite umane sulla base della loro provenienza: che sia questa la logica strutturale in gioco è possibile desumerlo dai processi di razzializzazione cui quelle stesse persone, una volta sbarcate, vanno incontro: segmentazione delle opportunità di lavoro, di regolarizzazione giuridica, di possibilità alloggiative, ecc.

Per questi motivi non è opportuno usare il termine “tragedie”, ché per i Greci il caos e l’ineluttabile sfuggivano persino al controllo degli dèi. In questa sede, molto più banalmente pensiamo e ci riferiamo a decisioni umane, politiche, governative (e governamentali): si tratta cioè di “stragi”, esito incrociato di politiche nazionali e internazionali che stabiliscono gerarchie tra gruppi umani sulla base di criteri nemmeno troppo velatamente etno-razziali. L’etnicizzazione della mobilità umana è del resto un dato della più banale esperienza sociale allorquando si confrontino le possibilità di migrazione “legale” che si prospettino a un giovane europeo e a un giovane proveniente, ad esempio, dal nord Africa: il primo non incontra pressoché alcun problema nella definizione del suo itinerario migratorio (anche temporaneo), mentre per il secondo le difficoltà sono notevoli, e consistono ad esempio nel vincolo reddituale non inferiore ad una certa cifra, in modo da scoraggiare la semplice presenza fisica dei “poveri” in uno Stato “ricco”. Requisito, questo, comunque subordinato all’ottenimento di un visto, documento il cui rilascio chiama in causa quell’arbitrarietà e quella discrezionalità del potere (Veena Das parla a tal proposito di “illeggibilità” dello Stato) con cui la vita delle persone si ammanta di una precarietà esistenziale che corrode ogni ambizione di securitas e proattività nel mondo sociale.

Cutro (ph. Giovanni Cordova)

Cutro (ph. Giovanni Cordova)

Umanitario

Le dinamiche sin qui descritte rientrano in quel paradosso dell’umanitario che studiose e studiosi non hanno mancato di sottolineare. Il dispositivo umanitario, ovvero quel sistema di regolamenti, procedure, leggi, status, politiche volto a garantire una “presa in carico” dell’alterità sofferente e vulnerabile è indissociabile da una pratica del controllo sociale che non di rado si tramuta in repressione.

Ogni regime umanitario “accoglie” con una mano e “controlla”, molto spesso con l’esercizio della violenza, con l’altra. La storia della migrazione contemporanea in area mediterranea non può essere slegata dall’istituzione dell’area Schengen, all’esterno della quale i confini vanno protetti al punto da collocare la linea della frontiera da presidiare sempre più lontano dal territorio europeo. È quella esternalizzazione della frontiera che fa convivere la preservazione della fortezza-Europa con un attivo impegno che gli Stati delegano o appaltano a sempre più enti e organizzazioni transnazionali e private, apparati securitari in combutta con le forze di sicurezza di Stati di cui si richiede la collaborazione in cambio di prestiti e aiuti economici (la Guarda costiera libica o gli eserciti di alcuni Stati balcanici, ad esempio). L’ausilio di strumentazioni tecnologiche sofisticate continuamente aggiornate rende questo ambito del controllo dei migranti un business in crescita, alla cui strutturazione l’Unione Europea concorre disponendo ingenti finanziamenti [2].

Certo, non tutto l’“umanitarismo” è calibrato su una disposizione così aggressiva e violenta in funzione anti-migratoria. Il sistema umanitario poggia indubitabilmente sull’«imperativo etico e morale a portare sollievo a chi soffre e a salvare vite» (Ticktin 2006: 35, cit. in Sorgoni 2022). Non riconoscere il portato etico dell’umanitarismo significa non riconoscere una qualità specificamente umana che combina la sociabilità, la reciprocità, la capacità di proiettarsi nell’altro, la matrice simbolica del legame sociale. Ma oltre alle critiche che le modalità concrete di gestione e organizzazione dell’aiuto umanitario possono ricevere – come la critica ormai classica di Barbara Harrell-Bond (1986): deresponsabilizzazione e dipendenza degli attori sociali beneficiari dell’aiuto; indebolimento delle istituzioni locali; abuso della retorica dell’emergenza; disconoscenza delle risorse simboliche e rituali che strutturano la vita sociale dei rifugiati, ad esempio (Sorgoni 2022) – la contestazione del sistema umanitario chiama in causa le finalità che l’aiuto umanitario stesso persegue: oltre alla compassione e alla protezione, ad esempio, il controllo dei flussi migratori in modo che questi non portino danni all’Occidente – lo stesso che organizza e dispiega l’umanitarismo.

Basti pensare a come ogni intervento inerente ai flussi migratori in area mediterranea sia confezionato nella cornice retorica e politica della presunta prevenzione del “caos”, correlato ineliminabile della riflessione geopolitica nel Mediterraneo e oltre. Durante le Primavere Arabe, per evocare un altro esempio, l’allestimento di campi per rifugiati al confine tra Libia e Tunisia – operazione che ha registrato il coinvolgimento dell’UE – ha determinato che solo il 2% dei cittadini libici riuscisse a lasciare il Paese, in preda alla guerra civile che avrebbe portato alla fine di Gheddafi. E ai cittadini nordafricani in arrivo in Italia non è stato riconosciuto che un permesso “umanitario” non superiore ai sei mesi di durata – escludendo comunque le persone di nazionalità subsahariana che, soprattutto in Libia, costituivano una popolazione rilevante e assai vulnerabile, come purtroppo stiamo apprendendo negli ultimi anni.

È in questo senso che l’industria umanitaria presidia i confini dell’Europa e, certo non sempre, trae in salvo vite umane in mare. E quando ci si appella all’Europa per invocare una gestione comunitaria del fenomeno migratorio, non ci si può dimenticare del fatto che quell’istituzione, giudicata decisamente inattiva se non addirittura passiva, rappresenta il secondo donatore umanitario nel mondo.

Cutro (ph. Giovanni Cordova)

Cutro (ph. Giovanni Cordova)

Umanità

L’11 marzo ottomila persone hanno percorso le strade di Steccato di Cutro nell’ambito di una manifestazione nazionale alla quale hanno aderito associazioni, movimenti, partiti, sindacati e cittadini di ogni parte d’Italia. Una partecipazione ragguardevole, tanto più se si tiene conto della perifericità della sede e del preavviso non troppo ampio con cui la manifestazione è stata indetta. Il corteo è confluito, al termine della manifestazione, sulla spiaggia. Il vento, non troppo freddo, da nord, stemperato da un sole tutt’altro che timido; le onde ampie; la spiaggia, lunga e larga, su cui i manifestanti si disperdono con serena rassegnazione. In questa parte di Calabria ionica gli spazi e gli elementi fisici della natura sembrano vasti, oltremodo disponibili nella loro generosa immanenza, rivelando nella loro maestosità di poter prescindere dalla presenza umana. Non serve eccessivo sforzo di immaginazione per rappresentarsi la visuale di questo scenario dall’altra parte del mare, la stessa che devono avere avuto i naufraghi. Anche per questo esercizio proiettivo, forse, il consueto vociare delle manifestazioni scema in prossimità del mare. Si sentirebbe solo l’insistente fruscio del vento, non fosse che per i parenti delle vittime che, dietro a un megafono, prendono la parola e invocano la misericordia di Dio in preghiera.

Costringere un essere umano a rischiare la vita per spostarsi in cerca di un futuro diverso non contribuisce solo alla produzione dell’illegalità dei migranti, punto sul quale ha riflettuto ormai diversi anni fa l’antropologo Nicholas De Genova (2002). Sono i quadri politico-normativi a rendere ‘illegali’ gli esseri umani, non trattandosi, evidentemente, di una condizione di cui si è naturalmente in possesso. Ma mentre la produzione giuridico-politica e normativa di questa illegalità rimane piuttosto invisibile nel dibattito pubblico e politico, la sovra-rappresentazione mediatica tributata agli sbarchi e alle operazioni di presidio delle frontiere sui media rende ampiamente visibile l’arrivo – illegale – dei migranti sul territorio europeo. Lo spettacolo del confine, come lo definisce De Genova (2013), altro non è che una “scena” nella quale soggetti indesiderati e non voluti vengono trattenuti, filtrati, gestiti nel loro tentativo di superare il confine. Queste immagini confermano, naturalizzandola, la validità dei meccanismi di esclusione cui i migranti vanno incontro: in altri termini, fabbricano la legittimità di pratiche di controllo sociale la cui arbitrarietà si ammanta di una pretesa di realtà resa indiscutibile dalla spettacolarizzazione dei meccanismi di controllo e dai tentativi di elusione che polizia e migranti incarnano rispettivamente lungo la frontiera [3].

Spettacolo del confine, spettacolo della morte e del cordoglio. Chi era presente a Steccato di Cutro condivideva l’impressione – l’ambizione, l’illusione – di star prendendo parte a un’iniziativa diversa dalle altre, come se quella strage avesse fatto traboccare un vaso troppo pieno di lacrime. Eppure, cosa che non hanno mancato di rilevare alcuni tra i protagonisti di quella manifestazione, come i/le rappresentanti di movimenti di rifugiati e migranti, forme di razzismo e discriminazione strutturale vengono agite ogni giorno: nelle questure, negli uffici immigrazione, nelle pratiche per il diritto alla cittadinanza, in altri ambiti del giogo burocratico quotidiano. L’umanità non si “arresta”, recitava uno slogan inneggiante alla Riace di Mimmo Lucano; allo stesso modo la lotta per la dignità degli esseri umani non può arrestarsi a Cutro.

arendt-tempi-buiIl resto è noto: la visita del governo nel crotonese dove si è riunito per un breve consiglio dei ministri; il lancio dei peluche, monito alla difesa della vita indirizzato a una parte politica che, almeno sul piano delle retoriche, fa della “vita” un motivo morale ridondante; la proposta politica conseguente ma incongrua: aumento degli stranieri lavoratori da reclutare nel decreto flussi; nuova rimozione di forme di protezione “speciale”; esclusione dei richiedenti asilo (ovvero di tutti coloro che fanno ingresso in Italia e chiedono di regolarizzarsi prima di ottenere un’eventuale forma di protezione) dal secondo livello di accoglienza, quella diffusa e più incentrata sull’“integrazione” lavorativa, sociale e culturale nel territorio (oggi rappresentata dai progetti SAI).

Definire questa proposta come incoerente è il minimo: da una parte si certifica il bisogno di lavoratori e lavoratrici migranti in un Paese invecchiato e alle prese con una transizione demografico-occupazionale tutt’altro che irrilevante; dall’altra, si riducono le forme di protezione e le maglie dell’accoglienza “qualificata”. Un movimento schizoide o cannibalizzato da logiche elettoralistiche e propagandiste che testimoniano come “dopo Cutro” l’umanità richieda ancora di essere difesa. Anche da quella “logica umanitaria” che trova la sua più cruda epitome nell’invocazione degli stati di emergenza e nella miope caccia terracquea agli scafisti.  Ne L’umanità in tempi bui, Hannah Arendt ha scritto che

«la “natura umana” e il corrispondente sentimento di umanità si manifestano solo nell’oscurità e non possono quindi venire individuati nel mondo. Inoltre, in condizioni di visibilità si dissolvono nel nulla come fantasmi. L’umanità degli umiliati e offesi non è mai sopravvissuta all’ora della liberazione neppure per un minuto».

Sta a noi farci testimoni viventi di forme di umanità resistenti e militanti, in grado di straripare dagli argini della miseria intellettuale e degli arroganti poteri di morte.  

Dialoghi Mediterranei, n. 61, maggio 2023
Note
[1] https://effimera.org/far-morire-lasciar-morire-la-scelta-tanatopolitica-del-governo-meloni-e-dei-suoi-ministri-di-salvatore-palidda/ 
[2]https://www.balcanicaucaso.org/aree/Bulgaria/Commissione-europea-droni-alla-Bulgaria-per-monitorare-il-confine-con-la-Turchia.
 [3] In questo testo, per comodità espositiva uso in modo intercambiabile “frontiera” e “confine” benché le scienze sociali da diverso tempo assegnino significati diversi ai due concetti. Cfr. Fabietti 1995.
Riferimenti bibliografici
De Genova N., 2002, Migrant “illegality” and Deportability in Everyday Life, in “Annual Review of Anthropology”, 31: 419-447.
De Genova N., 2013, Spectacles of migrant ‘illegality’: the scene of exclusion, the obscene of inclusion, in “Ethnic and Racial Studies”, 36:7: 1180-1198.
Fabietti U., 2013, L’identità etnica. Storia e critica di un concetto equivoco. Roma, Carocci.
Fassin, D., 2019, Le vite ineguali. Quanto vale un essere umano, Milano, Feltrinelli.
Harrell-Bond, B., 1986, Imposing Aid: emergency Assistance to Refugees, Oxford-New York, Oxford University Press.
Mbembe A., 2016, Necropolitica, Verona, OmbreCorte.
Ticktin, M., 2006, Where Ethics and Politics Meet: The Violence of Humanitarianism in France, in “American Ethnologist”, 33, 1: 33-49.
Sorgoni, B., 2022, Antropologia delle migrazioni. L’età dei rifugiati, Roma, Carocci.

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Giovanni Cordova, ha conseguito il dottorato di ricerca in Storia, Antropologia, Religioni (curriculum etno-antropologico) presso l’Università ‘Sapienza’ di Roma. Ha preso parte a progetti di ricerca inerenti al Nord Africa (Tunisia, Libia) e alle migrazioni internazionali. Attualmente è docente a contratto di antropologia culturale presso l’Università Federico II di Napoli e assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali dell’Università degli Studi di Catania, dove conduce uno studio sulla ritualità religiosa delle comunità di origine asiatica residenti in Sicilia. Ha recentemente pubblicato per le edizioni Rosenberg&Sellier il volume Karim e gli altri. La gioventù tunisina dopo la Primavera.
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