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Qualche giorno a Tétouan, Marocco

copertina

Tétouan (ph. Macioti)

di Maria Immacolata Macioti

È il 23 luglio 2019 quando andiamo a Ciampino con Fiamma, antropologa culturale e artista nota per le sue istallazioni, che risentono dei suoi studi, della impostazione interiorizzata – ieri, laureata con Lombardi Satriani alla Sapienza, un Dottorato all’Orientale di Napoli con Amalia Signorelli, poi studi di arte degli Usa, a San Francisco; oggi, docente all’Università di Davis in California – e suo figlio Sami, quasi tredicenne. Sami è magrolino e schizzinoso, mangerebbe solo pizza, pasta, nutella e gelati, oltre a palline di pollo. Dovremmo andare a Rabat, la bella città marocchina che si affaccia sull’Atlantico, ricca di verde, dalle antiche mura.

Io viaggio con una normale borsa con cui uscirei a Roma: il mio bagaglio viene preso in carico da Fiamma o da Sami. Passo avanti a loro ai controlli, mi siedo accanto al gate. Ci sono donne marocchine con foulard sul capo ma a volto scoperto, uomini di varie età, pacchi e pacchetti, bagagli a mano, bambini di tutte le età. Dopo un po’ mi si avvicina un uomo ben più giovane di me e mi chiede se io non sia la professoressa Macioti. Sì, rispondo, ben sapendo che è passata l’epoca in cui sarebbe stato rischioso per me dare una risposta positiva, sono io. Lui spiega: è stato studente a Sociologia, ha seguito i corsi di Ferrarotti e mi ha incontrata più volte. Lei non mi riconosce? domanda.  No, rispondo, e mi scuso: non ho mai avuto una grande memoria visiva e negli ultimi tempi dimentico a volte i nomi di persone che pure conosco benissimo. Non insegnavo forse Sociologia della Religione? chiede. Certamente, ho insegnato alla Sapienza quella materia, oltre a Sociologia generale, sociologia della comunicazione e qualche altra cosa. La dizione delle materie negli ultimi anni ha subìto molti cambiamenti, non riesco a ricordare tutte le denominazioni. Mi fa piacere incontrare un ex studente, che oltre tutto spiega di avere anche fatto il Dottorato in Teoria e ricerca sociale con noi, all’epoca in cui era diretto da Ferrarotti.

Cosa fa lei ora? Chiedo con cautela. La risposta è rassicurante. Insegna a Bologna, all’università di Bologna. Mi rallegro e congratulo molto con lui, che spiega che avrebbe voluto continuare ad approfondire Sociologia ma purtroppo ha dovuto un po’ abbandonare quegli studi perché non trovava una collocazione adatta. Insegna quindi arabo. A me sembra comunque una gran bella cosa. Gli propongo, se crede, di mandarci qualche scritto per la rivista «La critica sociologica» che lui deve avere conosciuto e che esce sempre, anche se ormai con un editore, l’editore Serra. Lui aggiunge di avere visto sia me che Ferrarotti qualche anno fa a Campo dei Fiori, ma in una occasione in cui c’era molta gente: non era riuscito a salutarci. Deve essere stato durante l’ultima celebrazione per Giordano Bruno cui Ferrarotti ha partecipato come relatore, penso. Al ritorno controllerò la data. Intanto ci scambiamo le e.mail, con la speranza di riprendere i contatti.

Abbiamo potuto fare questa lunga conversazione grazie a un uomo molto magro che si è alzato e ha ceduto al docente di Bologna la sedia accanto alla mia: entrambi lo ringraziamo molto. Poi il mio interlocutore si allontana, giungono Fiamma e il ragazzino, che si procura patatine a una macchinetta lì accanto. E subito dobbiamo metterci in fila per l’imbarco. Il volo dovrebbe durare tre ore. Abbiamo biglietti priority, voliamo con Ryan Air. Ciò significa che entriamo nel pullman che ci porterà all’aereo prima di molti altri: dovremmo attendere in piedi, nel caldo, molto più di chi entrerà dopo. Mugugni si levano nel bus infuocato: non ci potevano lasciare dentro, nella sala d’attesa, nell’aria condizionata? Poi a un certo punto la situazione si sblocca, il pullman finalmente si muove e possiamo entrare nell’aereo, sederci in sedili stretti e poco spaziosi. Sami è contento ed eccitato, chiede monete  per gli acquisti di biscotti, di succhi di frutta. Vorrebbe dormire, ma non sa dove mettere i piedi, perché la madre vorrebbe evitare di averli addosso. E del resto le offerte di cibo, di oggettistica, di biglietti della lotteria e simili sono continue, impediscono che ci si possa addormentare.

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Tétouan (ph. Macioti)

Arriviamo finalmente a Rabat [1] con qualche minuto di anticipo e camminiamo verso l’uscita, che ci è consentita dopo un attento controllo passaporti e dopo che abbiamo riempito un foglietto in cui sono richieste informazioni varie, compreso l’indirizzo dove andremo: che noi non abbiamo. Ma dopo un attimo di panico Fiamma scrive un whatsapp a Tarek suo marito e papà di Sami, anche lui docente a Davis, esperto di cinema, alle spalle studi fatti a Parigi e un dottorato a Berkeley: e l’indirizzo arriva subito. Possiamo quindi uscire: io ho già salutato il più giovane collega, che era seduto subito dietro di noi. Usciamo, Sami tira la mia valigetta; non avevamo consegnato nulla, per cui ben presto ci troviamo fuori dall’aeroporto. E subito fuori vediamo Tarek che ci attende insieme ad un suo nipotino, Émile. Émile ha 8 anni, è tutto riccioli neri folti, guance da ragazzino piccolo. È di una simpatia travolgente, è felice di vederci e saltella impaziente. Baci sdentati, abbracci, ampi sorrisi. Ognuno di noi, Fiamma, Sami ed io, riceviamo un mazzo di rose, ogni mazzo con un suo colore diverso dagli altri. Di questo Émile, che ce li ha consegnati, è molto compiaciuto. Con loro c’è un giovane berbero di cui serbo ricordo per averlo visto altre volte, Mohamed detto Abdeladif, che salutiamo affettuosamente [2]. Sarà lui a guidare.

La macchina si avvia verso la città attraverso un ampio, bel viale affiancato da alti alberi e fiori. Émile sta appiccicato a Sami. Arriviamo presto in città, una città che rivedo con gioia pur essendoci venuta già più volte, per lavoro e per piacere. Noi tutti scendiamo, lasciando all’interno della macchina i bagagli che verranno portati nell’appartamento dove dormiremo stanotte, un appartamento che non conosco, appartenente a Khadija, la madre di Tarek che ha un enorme talento nel comprare case e arredarle, all’occorrenza venderle. Prendiamo accordi con lei per telefono: ci raggiungerà al ristorante dove verrà con Mohamed. Dopo una breve passeggiata per riprendere contatti con la città e per muoverci un poco dopo tanta immobilità in aereo, andiamo in un ristorante che si chiama “Mamma”. Un ristorante, come dice il nome, italiano. Ci viene spiegato che lì andavano da piccoli, spesso, Tarek e la sorella Myriam, mamma di Émile, con i genitori. Ne hanno un ottimo ricordo, ogni tanto capita che ci vadano ancora.  Entriamo, attraversiamo varie sale con tavoli bene apparecchiati. Siamo tra i primi avventori. Ci viene mostrato il tavolo che era stato già prenotato, ci sediamo. Émile, vicino a Sami, che guarda con sguardo adorante. E Sami sembra disponibile e contento, non infastidito da questo cugino più piccolo. Che chiacchiera, fa racconti con mimica, da grande attore. Arrivano presto i suoi genitori, Myriam ed Helmuth. Lui, operatore finanziario e imprenditore artistico, tedesco. Lei, artista. Ha fatto mostre a Rabat e Berlino, dove ora vivono. Lei anzi passa il suo tempo tra Rabat e Berlino, dopo aver vissuto a lungo a Parigi. Hanno portato regali per Fiamma, per Sami, per me. Una bella stoffa – le stoffe sono una specialità di Myriam, che le ama molto –, un quaderno moderno nelle linee dei colori, dal giallo all’arancio: lo userò per prendere appunti sui libri che leggerò. Ne ho un altro che ho portato con me, a fiorellini violetti, con il mio nome ricamato. Me lo aveva fatto, rivestendolo e ricamandolo, un’amica di Fiamma, all’epoca una ragazzina. Rachele. Oggi, una giurista terribilmente occupata sul lavoro, con due figli piccoli. Ringraziamo, contenti e imbarazzati: i nostri regalini sono nelle valigie, non possiamo contraccambiare. Émile è un po’ dispiaciuto, ma gli spieghiamo, parlando in francese, che avrà presto il suo regalo, e questo lo tranquillizza. Tanto più che nel frattempo è arrivata sua nonna Khadija con Mohamed-Abduladif: tutti sono ora pronti per ordinare. Pizza per i ragazzini, cibi vari per gli altri. Tutto molto buono, compresa la mia pasta con funghi. Tarek sembra felice di rivedere moglie e figlio, di avere con sé mamma e sorella. Una tavolata allegra, con chiacchiere che si incrociano, per lo più in arabo e in francese, ma anche in tedesco, visto che Helmuth e figlio sono seduti l’uno di fronte all’altro.

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Tétouan (ph. Macioti)

Qualche discorso più serio: Tarek racconta meglio, in modo più disteso, quanto già ci aveva detto attraverso messaggi telefonici: era andato a Tétouan – secondo lui pronto a lungaggini burocratiche – per fare domanda al fine di aprire, nella sua nuova casa di Tétouan, ormai messa a posto dopo un anno di lavori, una associazione culturale cui teneva molto, su cui molto aveva almanaccato, per la quale da mesi andava facendo piani. Racconta che oltre a due ostacoli insormontabili: il divieto di dormire nel luogo dell’associazione, in primo luogo; e, in secondo luogo, l’annuncio per cui, ad ogni iniziativa culturale sarebbe stato presente un esponente inviato dagli uffici preposti – per un docente americano, clausole chiaramente inaccettabili – aveva anche avuto una pessima accoglienza. Cosa intende? Spiega Tarek di essere stato accolto con toni irriguardosi, con battute tipo: «Viene da tanto lontano per fare proposte così inutili?». Tarek aveva detto che l’impiegato poteva rivolgersi a lui chiamandolo professore, aveva raccolto le carte e se ne era andato ignorando battute e richiami. Cerco di sostenere che forse è meglio che sia andata così. Sarà tutto più semplice. Inviterà comunque chi crede e potrà discutere con i propri ospiti di argomenti di comune interesse, a prescindere da avalli statali. Potrà intanto incrementare la biblioteca che ha cominciato a realizzare: io stessa gli ho portato alcuni libri da Roma, altri li aveva lui a casa di sua madre, altri ancora li sta comprando. Poco per volta riuscirà a mettere in piedi, me sono certa, una bellissima biblioteca.

Dopo, mentre ci salutiamo fuori dal ristorante con Myriam e famiglia, che rivedremo tra un paio di giorni, noto un uomo che sembra essere decisamente indigente, con difficoltà fisiche. Non ho ancora dei riad, la moneta locale. Mentre penso a cosa potrei fare, dal ristorante esce un cameriere e con mio grande sollievo gli porge una scatola con una pizza. Tarek spiega che questo è normale. Penso, non so bene perché, ai tanti italiani che vivono in Marocco, a quelli che ho incontrato, anni addietro, in una ricerca fatta per la CGIE. Alcuni, ricchi imprenditori; ma anche italiani con modeste pensioni, che qui riuscivano a vivere in maniera più confortevole di quanto non avrebbero potuto fare in Italia.

Siamo arrivati intanto all’appartamento di Khadija. Troviamo le nostre valigie, lei ci mostra le camere. Io ho la sua, molto confortevole, con un bagno a sé. Gli altri hanno due stanze e un bagno in comune. Salutiamo la padrona di casa che sta andando via perché vorrebbe raggiungere in serata Casablanca, dove domani ha un importante appuntamento medico. Ci sono un salotto con divano e cuscini e una stanza da pranzo appena meno imponente, ma in compenso al centro vi è un tavolo pieno di frutta, fresca e secca: arance, mele, pesche, mandorle, noci, datteri. Bottiglie di acqua minerale sono in ciascuna stanza.

L’indomani mi affaccio alla finestra e vedo alberi, verde. Una bella vista. Intanto si è svegliato Tarek. Prepariamo per mangiare in casa. Vado a vedere come stanno le rose, lasciate in acqua da ieri sera. Le appendo a testa in giù in un cortiletto coperto, in modo che possano seccarsi ed essere poi utilizzate da Khadija. E vedo che ogni mazzo al suo interno ha anche petali staccati, di altre rose! Tarek intanto ha comprato cornetti: ci sono anche biscotti con le mandorle, banane. C’è del caffè espresso. Poi, la partenza per Tétouan. Cerco di capire la direzione: circa a 30 km. da Ceuta, mi viene spiegato [3]. A un’ora circa da Tangeri. Bene, ora so meglio dove stiamo andando. In una zona interessata direttamente dai movimenti migratori, visto che la Spagna è vicina [4].

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Tétouan (ph. Macioti)

Viaggiamo su una macchina di Khadija, guida Tarek. Fiamma mette musica, controlla che Tarek non superi i chilometri previsti – difficile capire la logica: un cartello dice che si deve andare a 40. Pochi metri dopo, 80. Poi di nuovo, senza una ragione apparente, 40! Sami ed io guardiamo il paesaggio. Le campagne che attraversiamo sembrano piene di alberi e boscaglia. Ogni tanto, 4 pali e un tettuccio. Qualche animale. Alti pini dalle verdi chiome, eucaliptus annosi. Nel mezzo della strada, utilizzati anche come spartitraffico, per chilometri e chilometri, oleandri in fiore, bianchi e rosa. Terra color giallo si alterna ad altra decisamente rossiccia. Vediamo chilometri di serre. Laddove si intravede qualcosa sotto i teloni di plastica, vediamo piccoli banani. Nei prati, palme, agavi. Qualche mucca. E, inaspettato, un volo di cicogne: avrei dovuto saperlo, dopo le tante che ho visto a Marrakesh, dopo quelle di Rabat. Anche a Tétouan, dalla terrazza, vedremo numerosi voli di cicogne. Qua e là c’è qualcuno che lavora piccoli appezzamenti verdi. Cascate di bouganville in fiore, a più colori. Quando siamo a circa un’ora da Tétouan hanno inizio le segnalazioni in spagnolo e in arabo. Rapidissimo, Sami fotografa per me qualche avviso stradale e anche le rosse bandiere marocchine svolazzanti sotto le folate di vento. Smettiamo quando vediamo che sotto le bandiere spesso c’è una macchina della polizia [5]. Platani costeggiano l’autostrada su cui ci siamo da tempo immessi.

Ed eccoci a Tétouan, la città paragonata spesso a una colomba. Sami candidamente dice di vedere il sedere, ma non le ali. Certamente passiamo davanti a begli edifici bianchi a più piani, tra cui uno grande, imponente, con torrette laterali e merli. Ma passiamo anche davanti a piccole case dalle facciate scorticate e fatiscenti. Poi, finalmente, siamo arrivati. Tarek imbocca uno stretto vicolo, suona ad una anonima porta. Ed ecco che un ragazzo apre: è il fratello di Mohamed. Lo chiamano Si Mo. Si Mo non parla francese, ma a gesti ci fa capire di essere contento del nostro arrivo. I bagagli vengono scaricati.

Eravamo stati un paio di anni fa in questa città: Tarek cercava un riad da acquistare, pensava appunto a un centro studi. Ne avevo visti alcuni con lui e sua madre, ma non quello che aveva poi scelto e acquistato, che mi era stato detto essere in cattive condizioni. So che i lavori di restauro sono durati più di un anno.

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Tétouan (ph. Macioti)

Entriamo in un cortiletto vuoto salvo che per alcuni grandi vasi da fiori colorati, con qualche pianta di rose, con una di cedrina, pianta amabile per il profumo delle sue foglie. Altri sono invece pieni di erbacce. Tutti hanno bisogno, a mio parere, che gli si cambi la terra: lavori da fare verso settembre-ottobre. Intravedo sulla sinistra una porta gialla con inserti azzurri, di fronte a una panca e a un mosaico in ceramica sul blù e sul giallo. Con qualche disegno in verde. Ma non c’è tempo di approfondire: tutti si stanno levando le scarpa per entrare. Imbocchiamo un breve corridoio. Sulla nostra sinistra vi è un locale vuoto; ancora due passi ed eccoci nel cuore della casa. Casa? Un termine non adatto. Corte? Dimora?  Si tratta di un vasto ambiente dal pavimento a scacchi bianchi e neri. Un po’ avallato al centro, dove è stato collocato un bel tappeto rosso-rosa. Di fronte a noi che entriamo, dietro a colonne con fregi sul nero – ma le foglioline nere in certe ore diventano azzurre o rosa – vi  è un salotto in stile spagnolo. Su tre lati, divani con cuscini di varie dimensioni, rossi, uno lungo, con ai lati due più corti. Sui muri, piastrelle con pavoni: si tratta dell’unica parte figurativa di tutto l’edificio, per il resto aniconico.  Subito sulla destra, invece, entrando, ci sono due stanze. La prima che incontro è una sorta di studio, sempre comunque con mura decorate, con un comodo divano. La seconda sarà la mia stanza, cosa che apprezzo molto, così non dovrò fare scale più volte al giorno. Vi è un letto a due piazze, con lenzuola una gialla e una azzurra, un bagno con doccia, dipinto in azzurro. Le piastrelle mi sembra siano diverse dalle altre, come forme e colori, essendo verde, giallo, azzurro. Ma non ho il tempo di approfondire, devo vedere gli altri ambienti.

Sulla sinistra entrando vi è una alta porta in legno decorato – in legno decorato, con inserti in vetro è anche la porta della mia stanza, ma con disegni e colori diversi. Entrando vediamo una stanza da pranzo con un lungo tavolo al centro, con sedie intorno. Sul retro si intravede un altro cortile. E di fronte alla stanza da pranzo, sul quarto lato? Una fontana, naturalmente. L’elemento caratterizzante questo tipo di edificio. Una fontana al cui chiocchiolìo mi abituerò nei giorni futuri. Ma il pianterreno non è esaurito, la visita guidata continua. Tra la fontana, circondata da maioliche dai bei disegni e colori, e il salotto spagnolo, un altro piccolo corridoio sulla cui destra si apre un bagno per ospiti – non dovrò quindi offrire il mio a nessuno – e, sulla sinistra, la cucina. E dietro alla cucina, un cortile, e poi le stanze di Si Mo e del fratello.

Non riesco ancora a credere a quel che vedo che stiamo imboccando comode scale che si aprono poco oltre la mia porta. Arriviamo facilmente al piano di sopra, con altre stanze e il bagno. Vicino alla stanza di Khadija – che spiegherà che d’inverno la sua è l’unica stanza discretamente calda, essendo collocata sopra all’hammâm, che a sua volta è sopra al forno dove si cuoce il pane – altri tre gradini e c’è il terrazzo.  E lo spazio per la biblioteca? Tarek mi farà vedere come vi sia una porta, in fondo al cortile da cui siamo entrati, che si apre su uno spazio in cui già vi sono scaffalature e libri. Anche qui, una scala – questa, mi sembra, con gradini più alti: mi limiterò al piano terra – dà accesso ad altri due piani sempre dedicati ai libri.

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Tétouan (ph. Macioti)

Mangiamo cibo cucinato da Si Mo, ci riposiamo. Da me, dalle due dita di finestra aperta, entra un bel vento, tanto che devo mettere un cuscino a fermarla. Mi andrebbe, nel pomeriggio, un giretto per la Medina? Certamente. Ed eccoci in strada. Passiamo da una antica porta che, se non ho mal compreso, si chiama Bab okle, la porta della ragione, dopo avere guardato, sulla sinistra di chi entra, una lapide che ricorda i rapporti Spagna-Marocco, sempre conflittuali fino a Cervantes. C’è gente, anche se non così tanta come immaginavo, forse per l’ora: siamo nella parte del mercato, con verdure e frutta di ogni tipo, mandorle e noci, specialità locale, ma anche fichi, quelli che da noi chiamiamo settembrini, qui apparentemente già maturi e tentanti. Con prodotti per la casa. Ne compriamo alcuni che ci servono, tra cui i deodoranti che ci erano stati sequestrati. Scansiamo il canaletto centrale, in cui scorrono spesso liquami, avanzi di verdure.

Poi, un rapido passaggio alla Casa dell’Arte, ancora oggi funzionante. Si paga un biglietto e un custode apre una grande porta chiusa con vari giri di chiave. Entriamo prima in una sala con numerosi tavoli con sedie, mobili vari. Poi, andiamo a dare un’occhiata in giardino. Un giardino pieno di gerani in fiore, di alberi da frutto. Di lato, sulla sinistra di noi che entriamo, le stanze dove dormono gli studenti, le terrazze. A me pare di esserci già stata, qualche anno fa, quando appunto Tarek cercava un ambiente da acquistare. Lui non se lo ricorda, pensa di no. Resto comunque con la mia convinzione.

La sera ceniamo in casa, chiudendo il pasto con noci con miele e formaggio caprino, una vera bontà. Ho molte e.mail a cui rispondere: necessariamente, imparo a farlo dal cellulare. Parlo per telefono con un mio vecchio amico che è a Roma, mi rallegro con due nipoti arrivati secondi a una gara europea di barche a vela, in Francia. E poi, prima di andare a dormire, una puntata in terrazza. Una terrazza che vedrò poi meglio nelle prossime serate. Ma intanto vedo quanto sia spaziosa, con tavoli e sedie a più livelli, con le montagne da un lato. Con continui voli di cicogne, cosa per me di grande fascino. Ma la cosa più incredibile è un’altra. In un angolo vi è un minareto dipinto in bianco e azzurro. E mentre siamo lì, a pochi metri da noi il muezzin alza la voce per il richiamo alla preghiera dei fedeli proprio mentre Tarek mi spiega che forse costruiranno un’altra camera sopra al primo livello della terrazza, in un certo angolo. L’avevo sentito, durante la giornata, più volte, il richiamo del muezzin [6]. Ma non avevo ben compreso che il minareto era parte integrante della casa, come ora mi viene chiarito. Tanto che il proprietario dell’edificio ha il diritto di sceglierne i colori e farlo ridipingere, come loro hanno fatto. Verso le 5 di notte si sente la sua voce portata dall’altoparlante piovere sull’edificio, sul quartiere tutto, penetrare nelle nostre stanze attraverso le finestre socchiuse.

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Tétouan (ph. Macioti)

Il mattino successivo – 25 luglio – Tarek esce con Sami. Tornano con una bella chitarra che il ragazzino si premura di accordare. Seduto su divani vellutati, tra molti cuscini, suona alcune canzoni imparate tra San Francisco e Roma. Tarek commenta: il passo successivo sarà l’acquisto di un pianoforte. Si farà carico lui dell’educazione musicale di Sami.

Una giornata, questa, che vede molti arrivi, a cominciare da quello di Myriam e famiglia. Dove staranno? A Martil, a pochi chilometri. Martil lo ricordo bene, una spiaggia piena di gente e ombrelloni, donne coperte fino alle caviglie, vesti nere. Fanno il bagno vestite, cosa cui non sono abituata, poiché mi sembra che a Rabat le donne siano più disinvolte nel vestiario. Il lungomare sempre pieno di macchine, per cui ci si mettono ore a fare pochi chilometri. Loro dormiranno in un bell’appartamento di Khadija, dove anche Sami ed io abbiamo passato una notte, un paio di anni fa. La zona intorno è decisamente popolare – mi ricorda Ostia o Torvaianica, o i dintorni di Rimini. Il palazzo, brutto. Ma c’è un ascensore, cosa gradita, e i locali all’interno sono, invece, belli e confortevoli, sempre con divani, cuscini, tavolinetti su cui poggiare una tazza di tea alla menta, qualcosa da mangiare.

Myriam e famiglia giungono sudati, stravolti: lei non approva l’aria condizionata, si sono fatti più di tre ore di macchina senza. Qui fanno docce, si riposano, si rimettono. Finalmente verso le 14 possiamo consegnare i nostri regalini – braccialetti per madre e figlio, uno con la M di Myriam, l’altro con la E di Émil. Intanto il piccolo freme, si agita, vuole giocare. Dal nulla compare un impegnativo, solido, grande calcetto, che chiede addirittura monete per elargire le palline. Sembra sia stato comprato a Casablanca. Viene messo nel cortile da cui si passa per entrare, insieme a un piccolo ping pong. Tarek e Si Mo, Sami vengono subito precettati: e si scopre che Si Mo è bravissimo, tutti se lo contendono.  Palle finiscono in terra o nei vasi da fiori, urli e risate si levano inevitabilmente, rompendo la usuale quiete. Tarek si informa; ho sentito il muezzin? Sì, ammetto, l’ho sentito ma poi mi sono riaddormentata. E la sposa? No, non mi sembra, forse mi sono persa la sposa. Ma che vuol dire? Tarek mi spiega che nella notte delle nozze, la sposa cambia sette volte abito. Il corteo nuziale è passato da queste parti, all’alba, con accompagnamento di musica: forse la sposa era alla settima veste. Lui Tarek era andato, tanti anni fa, a un matrimonio che era durato fino alle 6 del mattino!

Con Myriam e famiglia mangiamo pollo e verdure cotte, formaggio di capra. Poi, verso le 17 giunge, da Casablanca, Khadija, con una macchina piena di cibo. Subito viene organizzata una sontuosa merenda. Arrivano crepes e frittelle marocchine dette beghrir, che si possono farcire con varie marmellate e con miele. I bambini scelgono, senza esitare, la nutella. Émil mangia, come sempre, a quattro palmenti, beato. Ma perfino il difficile Sami, impacciato oltre tutto da una macchinetta ai denti che sembra dovrà portare per quattro anni, si lascia andare e apprezza. A cena avremo torta salata con verdure e formaggi, verdure cotte, frutta in abbondanza, tra cui i piccoli dolci fichi verdi. E si va in terrazza: dove ammiriamo voli di cicogne, sullo sfondo delle montagne. Il cielo conserva a lungo traccia di aerei che vanno in direzione di Tangeri. Salgo un po’ più in alto, mi siedo su una panca attrezzata con cuscini, ci godiamo la fresca serata, la vista dei vicini Monti del Rif.

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Tétouan (ph. Macioti)

E giunge il venerdì 26. Tarek, Fiamma e Sami escono, tornano con belle babuche in pelle, rosse, per me. Vengono fatte a Fès, una Fès cheben ricordo da miei viaggi precedenti: cittadina berbera, poi abitata da famiglie in fuga dall’Andalusia, cui si aggiungeranno arabi provenienti da Kairouan, oggi in Tunisia. Fès è piena di bei caffè eleganti. Ma io ricordo la medina e anche la zona in cui si lavorano i colori, la conceria: uno dei lavori più difficili e faticosi, lungo un percorso che facciamo con foglie di menta davanti a bocca e naso, rischiando di vomitare per i cattivi odori. Molti uomini lavorano lì, in piedi, per ore e ore, con piedi e gambe nel liquido maleodorante. Belle, le babuche. Ma mi ricordo troppo bene la lavorazione per godermele tranquillamente. Una città d’arte, oggi molto nota al di là del suo paese, Fès. Una città tradizionale, come sembra esserlo Tétouan.

Cerco di disegnare su uno dei miei quaderni il grande, particolare ambiente in cui trascorriamo parte della giornata, guardo libri posti su un tavolo, davanti al lungo divano nel salotto spagnolo. Apprendo sfogliando Tetouan Capitale méditerranéenne, libro scritto sotto la direzione di M’hammead Benaboud [7] che Tétouan è stata definita ville creative dall’Unesco, che nel 1997 l’ha inserita nel patrimonio mondiale Unesco. La città, leggo, era stata distrutta dai Portoghesi verso il 1437. Ricostruita a fine secolo. Siamo a 60 chilometri da Tangeri, la città che si è riflessa in tanta letteratura, oltre che nel cinema. Una città divenuta meta di ricchi e poveri europei o americani artisti e omosessuali, dove circolava droga. Basti ricordare Allan Ginsberg o Jack Kerouac: una città ben presente nella letteratura internazionale. Poi, dopo il 1960, molte cose cambiano. Oggi Tangeri è una bella città sul mare, un importante porto: lì eravamo giunti, qualche anno fa, provenendo dalla Spagna, per nave. Tarek che si interessa molto di cinema mi aveva ricordato alcuni noti film riguardanti Fès e Tangeri (Tanger, come lui dice). Non solo: Tétouan è a breve distanza da Ceuta, che ho avuto modo di conoscere credo intorno al 2007 o 2008, le cui alte, respingenti recinzioni, fatali a molti aspiranti emigrati ho potuto valicare anni addietro con Fiamma e Tarek, visitando anche le case popolari apprestate per gente in fuga, subito al di là del confine. Proprio la vicinanza con Ceuta, che è sulla punta dell’Africa, luogo mitico, dove sarebbero giunti Ercole e lo stesso Ulisse/Odisseo, ma oggi luogo spagnolo, laddove la Spagna è un importante partner commerciale del Marocco,  fa sì che molti migranti vengano anche a Tétouan, così come un tempo vi si giungeva se si era musulmani o ebrei in cerca di una vita più tranquilla: una città, Tétouan, che è sempre stata, apprendo, luogo di accoglienza di esiliati.

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Tétouan (ph. Macioti)

In questi giorni leggo, quando posso, un bel libro uscito da poco su Averroè, studioso che molto interessa Tarek. Il libro è di Gilbert Sinoué, Averroè o il segretario del diavolo, uscito con Neri Pozza editore [8] . Vi si parla di Cordova, città che ha dato i natali a Seneca e a Mosè Maimonide (la dizione del nome è cristiana) o Musà Ibn Maymun, secondo la dizione araba. Cordova, città di libri, laddove Siviglia è piuttosto città della musica. Il testo segue le vicende dello studioso, si sofferma su una sua importante storia d’amore, sui suoi studi, sulla famiglia, sulle alterne fortune della sua vita. Leggo che Tommaso d’Aquino avrebbe lavorato su una traduzione di Michele Scoto. Il che vorrebbe dire che si è passati da Palermo alla Persia, attraverso l’Oriente. Un testo oscuro e mutilato, unico che si sarebbe salvato di 50 scritti originari. Lui Averoè era detto in un primo momento al-Hafid, il nipote, per via del nonno magistrato Abu AL-Walid Muhammad. Poi, Ibn Roshd. Ma questo è un libro conteso, è di Fiamma e posso vederlo solo quando lei esce e non se lo porta dietro: non riuscirò a leggere le ultime pagine, perché nel frattempo lei lo ha spedito a San Francisco. Credo però di avere appreso del forte legame che ebrei e musulmani avevano, storicamente, con l’Andalusia.

 Torno al libro su Tétouan. Apprendo che il bel palazzo bianco con torrette visto lungo la via per giungere qui era un tempo una vecchia ferrovia che univa Tétouan con Sebta. Rinnovato nel 1918, è oggi il Museo d’Arte Moderna. Vicino a noi vi sono il Musée ethnografique – vi si possono ammirare vesti tradizionali, tra cui anche vesti nuziali ebraiche – e quello archeologico. Vi è un Museo della memoria storica della Resistenza e della Liberazione. Una città interessante e colta, si direbbe. Tra le attrazioni ricordate su tutte le guide, la grotta di Kaf Yaht El Gher, la grotta di Ercole, che ho visitato qualche anno fa con Fiamma e Khadija, spazio pieno di marocchini, oltre che di turisti.  Frequenti le vendite di ceramiche, con bei vivaci colori oltre ad altre, più semplici, color terra. Quello di Tétouan è considerato, leggo, un souk importante. Vengo distratta da una telefonata da Roma, dall’amministrazione del condominio: si può fare una riunione presso di me, l’8 agosto? Senz’altro! Giungono una serie di e.mail.

Verso le 17, con due macchine, i ragazzi e i loro genitori vanno al mare. Torneranno poi qui Sami e Fiamma. Sami al ritorno prova la Iacuzzi, tutti saliamo, ormai che è sera, sul terrazzo. Sulle terrazze, per meglio dire. Qui in effetti vedo da fuori la cupola che completa il locale centrale su cui, in basso, si aprono le stanze del pian terreno. Un quadrato di finestre con vetri molati, verdi, blù e bianchi, sono quelle che dal basso lasciano filtrare aria in abbondanza, se aperte. E, a tratti, inviano chiazze di luci colorate sulle pareti, sui mosaici sottostanti, che sembrano macchiati da colori che dopo qualche minuto scompaiono. Un gioco di luci incredibile. Questi vetri, mi viene spiegato, sono giunti dall’Iraq. Perché dall’Iraq? mi chiedo smarrita. Non sapevo vi fossero speciali lavorazioni del vetro.  No, mi viene spiegato: il fatto è che il precedente proprietario era stato ambasciatore in Iraq, si vede che li aveva trovati belli, li aveva acquistati e portati qui.  La terrazza più grande, la prima in cui si entra, ha ampi vasi con rosei fiori che pare siano giunti da Cuba. Sami ha portato sin qui la chitarra, suona un poco per noi. Intanto avanzano grandi nuvole che lasciano ipotizzare lontani temporali. Scendiamo, il vento si è fatto ormai troppo forte. Chiudiamo molte finestre, andiamo a dormire pensando all’indomani, ai vari arrivi previsti.

Perché da sabato 27 saranno con noi vari ospiti, di cui alcuni giungono da molto lontano. La mattina sul presto sto leggendo quando Mohamed mette accanto a me sul divano collane e collanine berbere, braccialetti di perline colorate: un suo regalo per Fiamma e per me. C’è anche un braccialetto in pelle per Sami, cui aggiungiamo alcuni dei nostri, tipici, fatti con perline di diversi disegni e colori. Ringraziamo molto. Fiamma ed io mettiamo subito una collana, Sami sfoggia il braccialetto in cuoio. C’è un gran vento. Le finestrelle sopra cambiano colore, i gialli sembrano ora color arancio.  Scopro ogni giorno nuovi giochi di luce.

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Tétouan (ph. Macioti)

Ma intanto tornano, ed è ormai pomeriggio, Tarek con Nouri, un cugino marocchino che da anni vive in Serbia e che ricordo per averlo incontrato anni addietro. Ne sono certa? Non era un altro cugino, figlio di una cooperante uccisa mentre faceva il suo lavoro? No, replico, era lui, il cugino bello! Lui sembra divertito e compiaciuto, il mio ricordo è comunque persuasivo. Ora sono passati vari anni, lui è un po’ cambiato, ha moglie e un baby, ma lo riconosco e tutti gli fanno festa: è venuto per una sola notte, per vedere Khadija, cui è molto affezionato. Ma poi deve rientrare, è pressato dal lavoro. Anche qui lavora senza alzare la testa per qualche ora. Cosa fa? Ingegnere, ha studiato negli Usa, trattava aerei militari. Poi, un momento di flessione: è allora che è andato in Serbia. Al momento gestisce tre pasticcerie tra Zagabria e Casablanca: mi viene mostrato un dépliant con dolci allettanti, conosciuti e sconosciuti. Poi mi verrà spiegato che è uscita da poco in Marocco una sua intervista in quanto esperto di aerei militari, che lui spera di poter riprendere qui il suo vecchio lavoro. Alto, veste in modo informale, con una maglietta che richiama le forze armate. Mi chiede notizie di un mio recente viaggio in Serbia: cosa ho visto? Dove sono stata? Le mie impressioni? Racconto di aver avuto la percezione di non sopiti timori rispetto all’Albania. La risposta giunge rapida: certamente, gli albanesi vogliono la realizzazione della cosiddetta Grande Albania. Ci stanno riuscendo, in Kosovo. Chiudo rapidamente l’argomento, d’ora in poi parleremo d’altro. Con loro sono giunti due altri ospiti, portati in albergo a sistemarsi nelle loro stanze, ad aprire le valigie.

Fino a qui, tutto sommato i rapporti linguistici sono stati relativamente semplici. Solo con i due ragazzi berberi non abbiamo una lingua in comune. Loro non parlano il francese, l’arabo è per loro la seconda lingua. Però sono molto attenti e gentili, si spiegano a gesti, cercano di prevenire ogni nostro desiderio. Si Mo fa avanti e indietro con acqua minerale e pani di vario tipo, pani morbidi all’interno, croccanti fuori. Porta croissant. I primi due giorni è lui che cucina, che si occupa della tavola. Tra i piatti che ci offre, pomodori freschi tagliati a piccoli pezzi, pieni di cipolla cruda, pollo, verdure cotte, jiben, un ottimo formaggio di capra. Forse studia da cuoco, una professione qui molto richiesta.

L’altro fratello è adibito piuttosto agli accompagni. Ora, ad esempio, ha appena portato in casa due ospiti di Tarek e Fiamma, Anthony e Juana. Lui, mi viene spiegato, è svizzero. Lei, colombiana. D’ora in poi si intrecceranno discorsi in inglese e spagnolo: entrambi vengono da San Francisco, sono giunti a Tangeri.  Anthony, mi viene spiegato, è un nome noto nel mondo dell’arte, oggi in difficoltà perché sovra qualificato rispetto alle offerte di lavoro che vi sono a Los Angeles e altrove, per cui non riuscirebbe a lasciare San Francisco. Lei ha studiato arte. A Roma, mi viene detto, per 4 o 5 anni. Parla quindi bene l’italiano. Lui invece, svizzero di origine, parla inglese e francese. Quindi tutto bene, si potrà parlare agevolmente con tutti loro. Juana è giovane, ha una massa di capelli ricci che tiene in genere legati, è simpatica e socievole, estroversa.

Mentre Nouri dorme in un albergo vicino, loro dormiranno qui, in una stanza vicina alla terrazza e a quella di Tarek e Fiamma, di regola usata da Khadija: che apprezzo molto per la sua grande cortesia. Non sta bene, è ovviamente stanca, eppure cede gentilmente la propria stanza. E mi dice di non preoccuparmi, a lei piace avere ospiti.  Dormirà con Sami, le prossime notti. E giungono Connie e Paul. Connie: già direttrice del Berkeley Art Museum, che si è sempre presa cura dei suoi più promettenti allievi. Che aveva incoraggiato, ai suoi inizi come artista, anche Fiamma. Ricordo una visita fattami in Roma da lei e dal marito, che avevo conosciuto nel mio ultimo soggiorno a San Francisco, qualche anno fa. Ora Connie è sola: mi racconterà che il marito, che è, precisa, il suo secondo marito, è caduto un giorno, fulminato, ai suoi piedi: lei ne è ancora sconvolta. Mentre ne parla, ha le lacrime agli occhi.

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Tétouan (ph. Macioti)

Lo capisco, certamente. Ma secondo me lui è stato molto fortunato, ha evitato giorni, settimane o magari mesi e mesi di malattia, ha evitato dolore e senso di menomazione, la dipendenza da altri. Capisco, certo, il suo dolore, dico a Connie: ma se fosse possibile farlo ci metterei decisamente la firma, per una morte del genere. Penso, mentre parlo, a due mie cognate, entrambe da tempo in una clinica, una in Cile, l’altra in Belgio. Quella che è in Belgio, paralizzata da anni da un lato, non più in grado di leggere, di tenere una cosa in mano. Che se viene fatta sedere viene legata alla sedia per evitarle cadute. L’altra per fortuna sta meglio, ma a volte cade in avanti nel tentativo di alzarsi. Chi potrebbe augurare qualcosa del genere a un essere amato? Riprenderemo più volte, nelle prossime giornate, questo discorso difficile. Mi mostrerà le fedi, quelle di lui e le sue, ognuna su una mano. Ricorderemo le giornate che avevamo trascorso insieme.

Connie ha portato con sé un pittore che nessuno di noi conosceva prima ma che fa subito amicizia con tutti. Crediamo l’abbia convocato anche per sentirsi più tranquilla nel viaggio tra Madrid e Tangeri. Tutti impareranno ad apprezzare Paul, ragazzini compresi: gioca con loro appassionanti partite a calcetto. Esclamazioni, alte grida, risate riempiono il cortile. Dopo 24 ore mi mostra le foto dei suoi figli, una ragazzina e un maschietto con l’aria simpatica, di cui è molto fiero. Mi spiegano che lui è argentino ma che vive da anni a Valencia. Valencia? Ma è una città che conosco bene, che mi piace molto, dove per anni ho avuto amici, specie la collega Inmaculada Serra Yoldi. Spiego che vi sono stata più volte, per convegni, per tesi di dottorato. Che ancora ricordo di aver presieduto una ‘giuria’ di dottorato, in una seduta durata, se non ricordo male, sei o sette ore, terminata poi con un pranzo sul mare. Ricordo l’opera degli artisti, in un letto di fiume ormai privo di acqua.

La merenda è seguita a breve distanza dall’aperitivo: questo, in terrazza, dove ormai il sole sta tramontando, dove tutti alzano grida di ammirazione vedendo le cicogne che intrecciano voli… Dove la voce del muezzin si alza invano a contrastare brindisi e voci dei temporanei abitanti il luogo. Fortuna che questi disturbatori partiranno presto, deve aver pensato il muezzin. Ma forse non è qui e noi sentiamo solo la sua voce registrata.

Ci attende un lungo week end di tre giorni, le cui giornate scivolano una nell’altra, mentre se ne confondono i margini. Certamente basta alzarsi la mattina che arriva un caffè turco, cui segue poco dopo una ricca colazione. La tavola, allungata, riesce a ospitarci tutti. L’unica che non si siede e cura che gli altri abbiano da mangiare è Khadija. A colazione e per cena, piatti con vari cibi riempiono per lungo tutto il centro tavola, con effetti spettacolari.

 Chi alloggia in albergo ci raggiunge dopo la prima colazione, e poi in genere si formano vari gruppetti e itinerari: c’è chi vuole andare al mare e chi non vuole andarci, chi intende vedere la città, chi vorrebbe esplorare la Medina che però è molto ampia e comprende varie parti, per lo più in salita o discesa. Nouri riparte e va accompagnato. Io sto il più possibile dentro casa e leggo una serie di libri che ho portato e che lascerò qui ma dò anche un’occhiata a libri presi dalla biblioteca. Tarek arriva con un libro sulle piante del Marocco per me, un libro di Jamal Bellakhdar, Le Maghreb à travers ses plantes [9]. Prendo appunti, La Premessa ci ricorda che oggi si parla molto di paesaggistica, ma che la cultura – e quindi anche la paesaggistica – è un prodotto sociale comunitario. E promette che le famiglie, che hanno ricordi del loro passato rurale, scopriranno leggendo cose magari dimenticate.

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Il discorso prosegue con cenni geografici. Il Marocco, ci ricorda l’Autore, ha una situazione unica: è l’estremo Nord del continente africano, ma a Est è in contatto con il mondo arabo. «Le Pays du Couchant», invece del Paese del Levante! Bordato dal deserto del Sahara, come Tunisia e Algeria, presenta però tre grandi catene montagnose: il Rif [10], l’Atlas e il Tell: massicci diversi l’uno dall’altro. Io mi compiaccio di conoscerne bene due su tre. Si alternano, prosegue Jamal Bellakhdar, regime desertico e clima mediterraneo moderato – certamente anche a Tétouan in questi giorni ci sono buoni 10 gradi in meno rispetto a Roma.  Luogo di storia e cultura, terra di incontri di popolazioni diverse: v. i berberi, poi i negroidi del Sahara settentrionale, i fenici, i cartaginesi, e quindi i romani e gli ebrei, i bizantini e i vandali sono stati di passaggio; altri sono rimasti. Poi ecco gli arabi, giunti dal vicino Oriente, passati all’Islam, v. egiziani e iraniani, sogdaniani e caucasici, oltre a ebrei orientali che portano credenze, tradizioni, savoir faire: e tutto questo si riflette sulle piante. Specie emblematiche della tradizione locale si mischiano ad essenze che vengono da lontano [11]: tra queste, i pini. Pini che oggi sono numerosi, bellissimi, che hanno folte chiome: molti li abbiamo visti venendo da Rabat a Tétouan. Vi sono oggi pini di Aleppo, pini marittimi. Pini neri, pini parasole. Vi è il pistacchio dell’Atlas. L’argan. L’argan, pianta importata da fuori? Ne ho sempre sentito parlare in relazione al Marocco, l’ho sempre immaginata come pianta marocchina. E ora soltanto scopro che non è così. Eppure, si era trovata così bene in Marocco, questa pianta forestiera, da contribuire al benessere del nuovo Paese, da farne conoscere il nome ben al di là dei suoi confini. Leggo ancora di carrubi e mimose. Cinque densi capitoli esaminano le varie specie. Un bel libro interessante, complesso. Che ci parla della capacità adattiva di esseri umani e piante. Non decifro bene alcune parole: mi rivolgo a Khadija, che ha a lungo insegnato francese: neppure lei le riconosce. Termini botanici, pensiamo e ci rassicuriamo: non abbiamo necessariamente dimenticato il francese.

Purtroppo però appena deposto il libro sulle piante leggo in internet, un po’ in ritardo, delle votazioni per il secondo decreto Salvini. Cifre spaventose: 217 assenti! Come è possibile? Gente probabilmente contraria ma che non ha il coraggio delle proprie idee? Anche se sarebbe stato impossibile ribaltare i risultati dei voti a favore, ben 322, anche aggiungendovi i 90 voti contrari. Sono soprattutto gruppi, forze cristiane, dai cattolici ai valdesi con i metodisti, a discutere. Ferrarotti ribadisce al telefono quello che da un po’ va dicendo: tutto sbagliato, questo approccio basato sul richiamo all’accoglienza, sull’aiuto a persone in difficoltà. I richiami di papa Francesco. Bisogna dire che i migranti ci servono, sono necessari, visto l’azzerarsi del tasso di natalità, viste le emigrazioni italiane in ripresa. Non va bene il populismo cattolico. Sarà vero, però al momento sono proprio le religioni ad alzare la voce in difesa dei migranti, contro gli iniqui decreti Salvini.

Osservo nel frattempo il cambiamento di colore delle mattonelle sul nero che adornano le colonne davanti al salotto spagnolo. Juana, che per lavoro è particolarmente attenta alle piastrelle, mi spiega che queste hanno in sé anche i colori azzurro e rosa che a tratti, nel pomeriggio, si evidenziano e che mi sono affrettata a fotografare. Conferma che i disegni sugli altri mosaici, che vedo come foglie, sono in realtà risultati di calcoli, di motivi geometrici, di algoritmi. A me sembra incredibile, ma hanno certamente ragione lei e Tarek, anche io so bene che è esistito un periodo aniconico. Non sapevo si fosse riflesso così a lungo nella cultura, nell’oggettistica.

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Sabato o domenica mattina, il 28, non so più, molti vanno a fare una visita guidata di Tétouan. Tarek ha preso una guida locale che li porta anche attraverso la medina, nella parte dell’abbigliamento, che a quanto sembra mostra lunghi abiti belli, multicolori. Belli sì, ma mai quanto i miei, uno sull’azzurro e uno sul verde, dono di Khadija. Passano, i camminatori, anche attraverso il cimitero locale: il piccolo Émil torna poi con un sacchetto pieno di pezzi di colorate, diversamente disegnate mattonelle – ne regalerà qualcheduna a Sami, che ha un po’ di febbre ed è rimasto qui. La passeggiata guidata è un successo, nonostante la scarpinata di tre ore: anche se Connie tenterà invano di ritrovare i begli abiti che aveva visto per acquistarne uno. Fiamma dice che non riuscirebbe neppure a ritrovare la parte giusta della medina.

Il pomeriggio siamo credo tutti in casa, i più stroncati dalla passeggiata mattutina in salita, sotto il sole. Qui invece venti freschi, sontuose merende con datteri, frutta varia, crépes che i bimbi riempiono di nutella, l‘aperitivo in terrazza. E poi cena, invece, all’interno, cosa più pratica.  In queste serate si esibisce Paul, che suona bene la chitarra e conosce musica e parole di canzoni celebri. E suona anche Sami, cui è arrivata intanto la musica dell’ultima canzone che aveva imparato a Roma da Juri, un simpatico ragazzo che gli aveva anche insegnato ad accordare la chitarra. Juana ha un corto e scollato vestito verde che le sta molto bene, che usa solo qui, che cambia quando deve uscire. Fiamma a un certo punto indossa un lungo abito giallo con ricami bianchi che suscita mormorii di approvazione. Dove lo ha preso? In qualche boutique a Rabat o a Casablanca? A Roma. Mormorii di stupore seguono questa dichiarazione.

Mi istruisco su Tétouan. Leggo che è costruita sui primi contrafforti del Jbel Dersa. Che le residenze sono in genere fuori dagli spazi riservati agli scambi commerciali e anche alla produzione artigianale [12]. Le case residenziali hanno in genere intorno vie di circolazione, rimaste a lungo semi-private. Le case più belle possono avere una o due corti, possono includere giardini. Hanno in genere un hammâm e, naturalmente, una fontana. Come mi conferma la casa in cui ci troviamo. Vi sono in genere spazi per ospiti e domestici: ed anche questo è rispondente. Il libro che consulto parla di indubbie influenze moresche: un fatto incontrovertibile. Vi si parla di porte che hanno motivi ornamentali presi dall’Andalusia, dalle grandi pitture in ferro a forma di tridenti contornati alle luci filtrate e ai decori. La corte interna, vi è scritto, presenta marmi, pietre intagliate, colonne e facciate della corte, legno intagliato e dipinto, ferro forgiato. Tutti elementi qui ampiamente presenti. Come lo è la fontana, altro motivo importante della corte. Fontana che in genere è ricoperta da un arco: come lo è quella qui collocata, che accompagna le nostre giornate con il chiocchiolìo dell’acqua corrente.

Sulla corte in genere si aprono varie stanze, di cui una matrimoniale: lo è quella in cui dormo. Le stanze dovrebbero avere cuscini, mobili dipinti e tessuti ricamati: pare che a Tétouan vi siano sontuosi ricami in seta. Una casa andalusa, questa in cui ci troviamo, senza alcun dubbio. Una dimora che comunica urbanità e armonia, ma anche sapienza e capacità lavorativa. Buon gusto.

In terrazza, nel vento, tra un salatino e un altro, parlo un poco con Anthony. Come mai uno svizzero, un sociologo, come mi è stato detto, è poi finito a occuparsi di arte – dal Wattis Institute – a San Francisco? Una lunga storia, mi spiega, I suoi genitori, americani. Il padre insegnava pedagogia all’università. Poi, la chiamata a Ginevra per insegnare con Piaget, per far sì che i due docenti possano confrontarsi, frequentarsi. Il padre accetta, la famiglia si trasferisce a Ginevra. Quindi in realtà lui è l’unico della famiglia che è poi tornato negli Usa, dove ha studiato sociologia, dove ha poi trovato nuovi interessi, lavoro. Penso all’amico Lalive d’Epinay, sociologo, ordinario appunto all’università si Ginevra, di cui con altri colleghi sono stata più volte ospite.  Che a mia volta ho invitato a Roma alla Sapienza per seminari e convegni. Anthony non ne riconosce il nome: ma ragionandoci ipotizza che sia stato un collega di suo padre.  Entra in questi discorsi anche Connie, che è in pantaloni scuri e maglietta bianca, i capelli a caschetto fino al mento. Una Connie che in questi giorni, come abbiamo saputo, compie gli anni. Ottanta. Calici si alzano in suo onore, voci di auguri riempiono il cielo solcato dalle cicogne: un fatto che non riusciamo ancora a vivere come abituale.

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Tétouan (ph. Macioti)

In queste giornate vi è chi arriva, chi esce. Myriam e famiglia arrivano, forse la domenica, ma lei riesce per andare a trovare vecchi amici. Helmuth e figlio restano qui. Sami, in genere impaziente con i ragazzini più piccoli e in particolare con il cugino, passate le primissime giornate, sembra invece contento di averlo qui. Si mettono al tavolo da calcetto. Giunge Si Mo, a dare manforte. Arriva Paul. Grida gioiose, urla di disappunto si levano, salgono oltre i gelsomini in fiore che si affacciano nel cortile. Levo un po’ di erbacce. Le rose bianche fino ad ora splendide e in fiore spargono petali sotto il vento incalzante. Li raccolgo, non vorrei venissero pestati. Guardo, in un altro vaso, un bocciolo di rosa color rosso che promette una prossima apertura. Che in effetti avviene, forse di lunedì. Lunedì 29. Certo la domenica sento da Franco che a Roma ha piovuto un po’, ma che a Fiumicino si è avuta una tromba d’aria, che una persona è morta. Una stagione assurda.

Khadija mi mostra oleandri in fiore appena comprati, rosa alcuni, bianchi gli altri. Riluttante, spiego che non sono l’ideale, in una casa con ragazzini: e penso ad Émil, curioso, esuberante, che potrebbe esserne attirato. Gli oleandri, e lo ricordo bene, sono velenosi. Lei resta incerta, poi mi dà ragione. In effetti avrebbe dovuto sapere che inducono vomito. Se li si mettesse in terrazza? Forse sarebbe meglio, rispondo. Che fiori metterei giù in cortile? Cambierei la terra, in primo luogo. Poi, volendo, gerani, che non richiedono molta fatica per crescere e fiorire. Certamente gelsomini, visto che sembrano amare il clima di Tétouan, crescere così bene. E bouganville: che piacciono molto anche a Khadija. Tarek dice che dovremmo fare un programma in merito, gli spiego che comunque farei tutto verso settembre-ottobre, con un clima più fresco. Perché in casa si sta molto bene, ma fuori fa decisamente caldo, almeno fino ad una certa ora, quando saliamo in terrazza.

La notte tra sabato e domenica mi sveglia di colpo la finestra che si è aperta sotto la furia del vento. La socchiudo, metto cuscini, un paletto a fermare una delle due ante. Sono circa le 2. Poi, alle 5, la voce del muezzin. Mi alzo assonnata. La sera di domenica, dopo una lunga giornata in cui c’è chi va al mare, chi rimane in casa, chi fa passeggiate serali, in terrazza si decide per un torneo di calcetto. Sami prende i nomi, decide le coppie. Si Mo è molto ambito come compagno.  E dopo cena, il conteso torneo: domani andranno via Émil e famiglia, bisogna assolutamente procedere ora. Si è iscritta anche Connie, per cortesia: non sa neanche come funzioni il calcetto, verrà presto eliminata. Voci in più lingue, esclamazioni, urla riempiono il cortile fino a tardi. A lungo resistono Paul e Si Mo.

Tutti hanno fatto foto agli interni della casa, alle persone: ognuno promette che le girerà, una volta tornato a casa. Alcune di Tarek e Fiamma mi arrivano subito, belle, prese in terrazza e all’interno. Khadija decide che le più belle sono quelle fatte da Juana, che promette di inviarle alla fine del loro viaggio. Ma siamo al lunedì pomeriggio-sera, e si avverte nell’aria una certa tristezza. Domani andremo tutti in diverse direzioni. Connie con Paul a Madrid, poi lei, dopo una lunga attesa di ben sette ore, prenderà il volo per New York dove si fermerà qualche giorno, prima di continuare per San Francisco. Paul invece da Madrid rientrerà a Valencia, ritroverà la sua famiglia, i figli le cui foto abbiamo tutti ammirato. Anthony e Juana invece hanno già i biglietti per quella che noi chiameremmo una corriera: proseguono il viaggio verso altre città del Marocco. Le conosco? Sì, in effetti sono stata qui più volte, per vari anni, con delle mie amiche ho visto le città imperiali, con Enrico Pugliese abbiamo fatto ricerche sugli italiani in Marocco. Vale la pena, certamente. Marrakesh? Bellissima. Si tratta del posto dove ho potuto vedere molto più da vicino le cicogne, che spesso portavano nel becco legni per il nido. Sopra le mura della città vi erano, all’epoca, grandi nidi di cicogna. Non so ora. Parlo della piazza descritta da Elias Canetti, dei bellissimi giardini, con cactus e bambù, con alte palme e cascate di bouganville. Con ulivi. Sono certa che serberanno bei ricordi non solo di questa città ma anche degli altri luoghi del Marocco. Che certamente io ho visto in stagioni più propizie, in primavera e in autunno.

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Tétouan (ph. Macioti)

Juana avrebbe dovuto cucinare lei al posto di una donna del luogo che in questi giorni è venuta sempre, dalla mattina alla sera, per le pulizie e la cucina: ma non si è sentita bene, per cui abbiamo sempre avuto cibo marocchino con pollo, verdure cotte, ceci, lenticchie formaggi, couscous, tagine, ma anche insalate e pomodori, olive stupende, barbabietole crude e cotte. Frutta di tanti tipi, compresi i fichi d’India. Khadija beve succo di carota. Ci offre anche tea con menta, tisane, oltre al caffè. Tarek ha previsto una sorta di cena di addio in un ristorante molto buono, di pesce. Vedendo la mia faccia mi rassicura: ci sono anche piatti non di pesce.

Io però penso che farei meglio a restare a casa, anche se mi ero cambiata per uscire: mi sembra che sarebbe più prudente, non sono certa di stare benissimo. Sami andrebbe con gli altri, non ha più febbre, sembra essersi ripreso dal malessere che avvertiva ieri. Subito Khadijia si preoccupa: Si Mo può restare con me. Assolutamente no, dico con forza. Alla fine escono tutti, dopo che ci siamo salutate affettuosamente con Connie, che domani partirà con Paul direttamente dall’albergo.

 Sono usciti forse da un paio d’ore quando mi sembra di avvertire il suono di finestre che sbattono, al piano di sopra. Piena di buona volontà salgo le scale, apro la porta della terrazza, già chiusa a doppia mandata, e scopro che le finestre stanno benissimo: si tratta di botti tipo mortaretti, forse per celebrare la ‘festa del regno’ di cui si è sentito dire [13]. Così richiudo tutto e torno giù, giusto in tempo per precipitarmi in bagno e vomitare immagino il pasto delle 13 o 14, visto che poi non ho preso altro. Poco dopo sento voci. Si apre la mia porta. Arriva Paul che mi abbraccia e saluta: per fortuna indosso una lunghissima accollata camicia da notte, presa a suo tempo a Rabat. Fiamma era riuscita a trattenere Connie, non lui. Arrivano tisane, consigli, voci rassicuranti. Se non me la sento di partire cambieremo i biglietti. Lo escludo. Partiremo senz’altro.

Il giorno dopo ci muoviamo con due macchine, una guidata da Tarek, l’altra da Mohamed: con lui vanno Khadija e Sami, così io ho il retro della macchina per me sola, posso volendo stendermi e dormire. Non voglio affatto. So di che si tratta. Qualche spezia, le verdure crude, tutte cose sconsigliabili, con il mio fegato. Ma nulla che ci impedisca di partire: solo, eviterò di mangiare. Fiamma, che è scesa più volte durante la notte a controllare se stavo bene, si gira spesso a guardarmi durante il percorso in macchina, mi interroga, offre da bere, chiarendo che devo bere poco per volta. Neanche fossi un neonato da accudire.

Per via, molta presenza di poliziotti, con o senza macchine: sembra ci sia in giro il re per la festa di cui si è detto, la festa del regno [14]. Chi sa quanto potrà durare, questo regno? Meglio non pensarci, godere invece della vista di bouganvillee e di fichi d’India, delle numerose serre.

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Tétouan (ph. Macioti)

Ed eccoci all’aeroporto. Saluti, abbracci. Khadija proseguirà per Casablanca, dove inizierà una cura di un mese dopodomani. Tarek resterà un paio di giorni a Rabat, poi rientrerà a San Francisco via Madrid, seguendo il percorso fatto da Connie. Mohamed mi abbraccia e bacia la mia mano, tutti e due i fratelli sembra siano stati molto contenti di un po’ di soldi che ho lasciato per loro, in euro. Anche Si Mo, che abbiamo lasciato in casa tutto solo, era apparso commosso alla nostra partenza. Baci e abbracci, quindi entriamo nell’aeroporto. Abbiamo già il ceck-in fatto, Fiamma si avvia verso i controlli per entrare nella zona di imbarco. No, le viene detto. Bisogna passare dallo sportello, quello dove c’è una lunga fila. Possibile? Non dobbiamo consegnare valige. Non importa, dobbiamo comunque andare ai controlli. Fiamma fa la fila, noi l’aspettiamo nei pressi. Non c’è da sedersi. Sami annuncia che sta male, si sdraia in terra. Per fortuna Fiamma lo conosce, sa che non sopporta partenze, addii. Lo porta in bagno e al ritorno il ragazzino sta meglio. Io intanto tengo il posto. Dietro di noi una bella ragazza marocchina con un lungo vestito nero con merletti cerca di fare conversazione, anche se non siamo, purtroppo, in queste circostanze, molto rispondenti. Come Dio vuole, Fiamma arriva, riemerge con un timbro in più rispetto a prima. Torniamo all’imbarco: tra Fiamma e Sami portano loro la mia valigetta, io ho solo la mia solita, normale borsa con documenti, fazzoletti di carta, caramelle e medicine. Ai controlli ci dicono che non possiamo entrare. Non abbiamo riempito i foglietti. Che foglietti? Ci viene indicato uno scaffale poco lontano, con foglietti da riempire. Va Fiamma con i nostri biglietti e passaporti. Dopo un po’, finalmente ci sono i foglietti riempiti: possiamo passare. Ma non abbiamo finito.

C’è ora una lunga coda per il controllo passaporti. Fiamma fa la fila. Sami ed io vigliaccamente ci rifugiamo su una panca nei pressi. Accorreremo al momento giusto. Dopo circa 20-25 minuti, un uomo viene verso di noi, mi dice di andare a uno sportello che si è liberato, a prescindere dalla fila. Spiego che c’è una giovane donna che sta facendo la fila per noi. La posso chiamare, è la risposta. Vado. Fiamma è ancora molto indietro, all’inizio non mi vede. Poi si accorge di me, perplessa lascia la fila per vedere che succede. Tutti e tre veniamo rapidamente indirizzati al primo sportello libero. Ringrazio, procediamo. Finalmente possiamo passare, dirigerci verso il gate. Almeno così immagino. Invece no. C’è un controllo per il foglietto bianco già riempito.

Raggiungiamo infine un caffè con sedie, sulle quali scivoliamo ben contenti. Passeranno un po’ di minuti prima di trovare le energie per ordinare da bere, un panino per il ragazzino. Andare a vedere le boutiques per fare spese? Dopo un breve tentativo desistiamo. Attenderemo tranquilli fino al momento dell’imbarco. Poi, una gradevole sorpresa: l’aereo è arrivato, lo vediamo, vediamo i passeggeri scendere. Ancora qualche minuto per le pulizie. Poi ci fanno scendere le scale, ci troviamo a una breve distanza, a piedi. Nel caldo. Perché non lasciarci sopra, con l’aria condizionata? Non si sa. Ancora un’attesa e finalmente possiamo muoverci per l’imbarco. Camminiamo in fretta, ci dirigiamo all’ingresso da dietro. Siamo tra i primi a entrare da quel lato, cosa essenziale per poter mettere le valigie sulla cappelliera. E finalmente ci possiamo abbandonare tranquilli sui sedili. Inevitabili un po’ di perdite di tempo, persone che non sanno dove devono sedersi, altri che aprono le cappelliere, le trovano piene e le lasciano aperte. Noi sappiamo che il più è fatto, che ora potremmo stare tranquilli fino a Roma. Anche Sami sta bene, chiede solo, a un certo punto, patatine e biscotti.  Arriveremo dieci minuti prima del previsto a Roma. Una telefonata al mio portiere che è già a Ciampino. Deve solo avvicinarsi a noi con la macchina. Eccolo. Le valigie, tutte piccole, gli zaini vengono messi dietro. A mezzanotte siamo a casa, a Corso Vittorio. È il 30 notte, anzi ormai è il 31. Messaggi dal Marocco, per il Marocco.

Certo, ragioniamo con Fiamma, sembra molto più facile entrare in Marocco che non uscirne. Ma in realtà siamo usciti, noi tre, da una dimora da sogno, siamo ritornati in una accaldata, soffocante, slabbrata realtà italiana e romana.

Dialoghi Mediterranei, n.40, novembre 2019
 Note

[1] Rabat ha difficili relazioni con l’Algeria per la definizione del confine e per la gestione della immigrazione clandestina. Inoltre pesa il sostegno dato dall’Algeria al Fronte Polisario, cioè alla formazione indipendentista che ha posizioni opposte a quelle del Marocco per quanto riguarda la sovranità del Sahara Occidentale.
[2] Lui e il fratello, che troveremo a Tétouan, lavorano da anni nella famiglia di Tarek. Vengono dal Sud del Marocco, come sua madre Khadija.
[3] Conosco, ricordo bene Ceuta, dove so che i flussi di ingresso si sono raddoppiati, dopo il 2017. Dove c’è stato una sorta di assalto da parte di circa 800 migranti (cfr. Francesco Anghelone e Andrea Ungari, a cura di, Atlante geopolitico del Mediterraneo, Bordeaux edizioni, 2019, testo voluto dall’Istituto di Studi Politici “S.Pio V”).
[4] In effetti leggerò poi che tra il 1° gennaio e il 14 dicembre 2018 si sono avuti oltre 55 mila arrivi di migranti in Spagna, la maggior parte dei quali dal Marocco. Il che vuol dire che sono transitati dal Marocco (nel 2017, erano stati sulle 20 mila unità). In Italia invece nel 2018 si è avuto un crollo di sbarchi, pari a circa l’80%, grazie alla politica messa in piedi dall’Italia e dalla Libia, di freno e contenimento, di sequestro dei migranti in condizioni tragiche, in Libia.
[5] Il Marocco si riconosce in una monarchia costituzionale: il re è, in questo momento, Mohammed VI. La Costituzione del 1996 – emendata nel marzo 2011 – attribuisce il potere legislativo a un Parlamento bicamerale (Camera dei rappresentanti, con 395 seggi, di cui 60 riservati a donne; elezioni a suffragio universale ogni cinque anni, e Camera dei consiglieri con 120 membri eletti indirettamente, per sei anni, da organizzazioni locali, sindacati, assemblee locali). Dalla fine degli anni ’90 si ha un certo processo di apertura politica, processo che ha i suoi limiti in tre ‘sacre’ tematiche: il re, l’Islam e il Sahara occidentale (cfr. Treccani, Atlante geopolitico 2019: 508-513).
[6] So da anni che il Marocco ha posizioni moderate, con riguardo alla religione. Tuttavia l’impressione ricavata negli ultimi anni, con soggiorni a Tétouan e dintorni, mi induce a chiedermi se non stia cambiando qualcosa, se non stiano prendendo spazio tendenze più radicali. Certamente qui le donne usano vesti tradizionali più di quanto non occorra altrove. Ma forse è anche il fatto che siamo vicino al Rif, e che da tempo esiste, anche in Marocco, una presenza terroristica di matrice jihadista. Ma non ne sappiamo abbastanza.
[7] È una edizione dell’Associazione Tétouan-Asmir, in cui si tratta la storia della città caratterizzata dalla fabbricazione di tappeti e dalla pittura. Vi si parla di una forte presenza ebraica. Sembra tra l’altro che nel 1488, alle soglie della conquista di Granada da parte dei re cattolici, un gruppo di coloni andalusi musulmani avesse iniziato la ricostruzione della piccola borgata di Tétouan, che a partire dal 1600 si svilupperà sempre più come città commerciale, artigianale e militare, anche grazie all’arrivo di migranti andalusi in seguito all’espulsione decretata da Filippo. Arriveranno anche molti moriscos, convertiti da cinque generazioni. Emerge una certa élite intellettuale, vengono fondate due madrasse. Mi colpisce l’insistenza sulla apertura e comunicazione con la cultura orientale, la fondazione di scuole libere, di associazioni culturali e centri di ricerca.
[8] L’edizione italiana è del 2019. L’originale, Averroès ou le secrétaire du diable, Librairie Arthème Fayard, 2017.
[9] Ed. Le Fennec, Casablanca Maroc, 2018: 323. Il sottotitolo recita: Plantes, productions végétales et traditions au Maghreb.
[10] La catena montagnosa del Rif è a maggioranza berbera. Dal 2016 vi sono state proteste contro il comportamento della polizia. Il malcontento sociale, riguardante soprattutto, oltre gli abusi della polizia, la corruzione e la disoccupazione, si è rafforzato nel 2017 e 2018, anche perché nel frattempo si sono avute  condanne a una prolungata detenzione per più di una cinquantina di manifestanti arrestati.
[11] Di queste piante che giungono da lontano tratta il 1° capitolo. Gli altri prendono in esame rispettivamente il 2° Arbrisseaux et plantes herbacée de la flore sauvage, il 3° specie fruttifere arbustive coltivate, v. la palma da dattero, le mandorle, la granata ecc., il 4° piante vivrières non arbustive, tra cui lenticchia e aglio, pomodori e cocomeri ecc. E l’ultimo, il 5°, piante aromatiche e per condimenti, tra cui tea e menta verde, gelsomino, basilico ecc.
[12] Per il Marocco e la sua economia sono importanti il settore agricolo e agroalimentare, l’attività ittica. Ma soprattutto rilevante è il settore estrattivo, con il fosfato. Il settore manifatturiero si incentra sulle produzioni tessili oltre che su aziende meccaniche e elettroniche. Lavorazione in cuoio e tappeti sono trainanti. Al 2019 l’indice di competitività globale (0-100) è del 58,6 (75 su 140), le importazioni sono 40.827,1 milione di dollari (specie da Spagna, Francia, Cina, Germania, Usa), le esportazioni raggiungono i 25.354,0 milioni di dollari (Spagna, Francia, Italia).
[13] Mohammed VI è il successore di Hassan II, che aveva preso il posto di Mohammed V. Il regno di Hassan II aveva visto forti limitazioni delle libertà politiche e civili. Oggi la situazione appare mutata in meglio, anche se permangono zone grigie.
[14] Non mancano problemi e tensioni, a partire dalla crisi del Sahara occidentale: la monarchia marocchina rivendica la propria sovranità sull’area, ricca di fosfati nel sottosuolo, mentre il popolo sahrawi ne rivendica a sua volta l’indipendenza tramite il Fronte popolare per la liberazione della Sagua el-Hamra e del Rio de Oro, noto come Polisario. Per il Sahara Occidentale il Marocco ha interrotto (maggio 2018) i rapporti con l’Iran, che accusa di finanziare il Fronte Polisario.

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Maria Immacolata Macioti, già professore ordinario di Sociologia dei processi culturali, ha insegnato nella facoltà di Scienze politiche, sociologia, comunicazione della Sapienza di Roma. Ha diretto il master Immigrati e rifugiati e ha coordinato per vari anni il Dottorato in Teoria e ricerca sociale. È stata vicepresidente dell’Ateneo Federato delle Scienze Umane, delle Arti e dell’Ambiente. È coordinatrice scientifica della rivista “La critica sociologica”  e autrice di numerosissime pubblicazioni. Tra le più recenti si segnalano: Il fascino del carisma. Alla ricerca di una spiritualità perduta (2009); L’esperienza migratoria. Immigrati e rifugiati in Italia (con E. Pugliese, nuova edizione 2010); L’Armenia, gli Armeni cento anni dopo (2015), Miti e magie delle erbe (2019).

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