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“Purezza indù”, l’India di Modi tradisce Gandhi

Modi, nel giorno della elezione a presidente (@Il Sole 24ore)

Modi, nel giorno della elezione a presidente (@Il Sole 24ore)

di Antonio Ortoleva

«Con questa legge, madre Teresa di Calcutta oggi sarebbe in carcere». Frase ad effetto e di straordinaria efficacia, come nel repertorio di Arundhati Roy, la scrittrice originaria del Kerala tradotta in tutto il mondo, nonché battagliera protettrice dei diritti civili. Difficile darle torto mentre un’ondata di integralismo indù, in un cocktail di nazionalismo suprematista servito dal governo, sta investendo l’India.

Nella più grande democrazia del mondo fondata da Gandhi, nell’epicentro della spiritualità universale, nella terra dove da millenni coesistono centinaia di credi diversi, praticare una religione che non sia l’induismo sta diventando un problema. Anzi, lo è già, e può apparire un’iperbole, stando alle dichiarazioni e alle proteste di importanti imam e vescovi, perché i principali bersagli di strada e di Stato sono proprio musulmani e cristiani.

infograph-freedom-of-religion-in-india-hd-1Il grimaldello è stato il varo del Freedom of Religion Act, una legge che, a dispetto del nome ha dato strada a una marea montante di persecuzioni, violenze e delitti a sfondo religioso, sia verso i seguaci di Maometto che di Cristo. È vietato convertire con la forza: un precetto corretto ma del tutto farisaico. In realtà è il presunto reo che deve dimostrare di non averlo fatto. Già nel 2005 la pakistana Asma Jahangir, eroina dei diritti civili, aveva svolto una relazione ufficiale alle Nazioni Unite sulle insidie della legge che, disse ad alta voce, andava modificata. Oggi, i più rinomati giuristi internazionali ritengono che vada abrogata.

«Le leggi anti-conversione – ha scritto Pasquale Annichino, esperto di diritto e religione tra Foggia, New York e Cambridge – sono in aperta contraddizione con lo stesso articolo 25 della Costituzione indiana che protegge la libertà dei cittadini di professare, praticare e diffondere la loro religione. Sono inoltre una sfida a un modello fondato sull’universalismo dei diritti che protegge la libertà di coscienza».

Il Freedom of Religion Act non è stato modificato né abrogato, si è invece allargato ad oggi in undici Stati federali, tutti governati dal partito al potere, il BJB di Narendra Modi, il premier della destra nazionalista che governa l’India al secondo mandato, cioè da otto anni. Con la crisi consolidata del Congress Party della famiglia Gandhi-Nehru e della cultura laica indiana, appare remota l’epoca di Indira che, in una fase tempestosa di tumulti, tra brillantezza di luci e di ombre opache, presiedendo il gruppo dei Paesi Non Allineati alle superpotenze, provò a modernizzare l’India, a imporre riforme a favore della sterminata platea di contadini e piccoli agricoltori, a gettare le basi di una democrazia consolidata, per finire uccisa dalla sua guardia del corpo della minoranza sikh che vendicava il sacrilego bombardamento del Tempio d’Oro, durante i moti d’indipendenza del Punjab.

india-1L’India di oggi non ha bisogno di disallinearsi perché è già quasi superpotenza asiatica, terzo Paese al mondo per spesa militare, perché già tratta quasi alla pari con Stati Uniti, Cina e Russia, equidistante dall’invasione dell’Ucraina negando sanzioni, accettando con favore il petrolio di Mosca a prezzo scontato, nonostante le pressioni americane. La guerra nel cuore dell’Europa, in assenza di organismi superpartes come l’Onu e la Ue, ha spostato in Asia l’asse politico-economico globale che riposizionerà, nei termini brevi, nuovi equilibri nel mondo.

E qui entra in gioco il premier Modi e la fascinazione della Grande India che propone una società dominata dalla “purezza indù”. Revisionando, e di fatto manomettendo la storia, scrive Mario Prayer, storico delle Istituzioni dell’Asia Meridionale, il pensiero ultra-nazionalista

«si fonda sull’assioma dell’ininterrotta continuità della “tradizione vedico-indù”, elemento fondante dell’identità storica dell’India. Ogni apporto giunto dall’esterno nel corso dei secoli viene considerato alla stregua di una diminuzione del suo spazio vitale. Questa tesi si è accompagnata a un progetto politico incardinato sull’ideologia dell’hindutva (“induità”), secondo cui lo Stato-nazione dovrebbe riflettere la natura essenzialmente indù del suo passato».  
Bramino nel tempio indù nel Rajasthan del nord (ph. Antonio Ortoleva)

Bramino nel tempio indù nel Rajasthan del nord (ph. Antonio Ortoleva)

Hindutva, dunque. Che fa rima con fatwa, una sorta di scomunica sociale per ogni manifestazione pubblica che non sia induista. Garante della purezza indù, in prima fila e da circa un secolo, si staglia l’organizzazione paramilitare di stampo paranazista-religioso, con milioni di seguaci, Rashtriya Swayamsevak Sangh (RSS), dalle cui file proviene mezzo governo e lo stesso premier Narendra Modi in gioventù. Spesso protagonista di azioni violente, ha oggi, con l’esperienza governativa, rettificato in senso più istituzionale le posizioni radicali. In un’intervista al quotidiano online “The Print”, il cheif dell’organizzazione, Mohan Bhagwat, ha sancito che aboliranno d’ora in poi il termine “Ahindu” (non indù) per non alienarsi le altre comunità, così spiegando le nuove posizioni ideologiche.

«Essere indù non significa alcuna identità religiosa. È legato a uno stile di vita… Noi del Sangh crediamo che ogni Bharatiya (indiano) sia sempre stato indù per cultura, ma in seguito, quando sono avvenute le invasioni islamiche e occidentali, alcuni di noi si sono convertiti ad altre religioni come l’Islam o il Cristianesimo. Il metodo di adorazione può essere diverso, ma lo stile di vita di ogni Bharatiya è l’induismo, ed è per questo che tutti gli indiani sono indù, per identità nazionale». 

I bersagli predestinati di questo clima oltranzista sono i musulmani, in primis, a seguire cristiani, minoranze etniche come gli Adivasi – sgombrati dai boschi del Sud per far posto a miniere di carbone – dalit, cioè “gli intoccabili”, una marea di diseredati tuttora relegati ai margini della società indiana, nonostante alcune leggi a loro protezione.

channels4_profileLa vittima eccellente ed emblematica di questo clima ultra-ortodosso è un gesuita indiano di 84 anni, morto di Covid in prigione dove era stato rinchiuso da otto mesi con accuse mai provate. Gli appelli alla libertà di padre Stan Swamy, che si era battuto per i diritti del popolo Adivasi, sono giunti in ritardo alle orecchie delle autorità. Il religioso, già affetto dal morbo di Parkinson, è deceduto dopo il ricovero in un ospedale di Mumbai solo pochi mesi fa.

E qui ritorna il monito, con cui avevamo aperto l’articolo, di Arundhati Roy. Perché tra gli effetti collaterali della campagna anti-cristiani, più volte stigmatizzata dal Vaticano, emerge il congelamento dei conti bancari della congregazione delle suore cattoliche di Madre Teresa per non precisate irregolarità, con gravi carestie nei centri dove vengono accuditi migliaia di orfani. Il quadro repressivo si completa con irruzioni nelle chiese, statue del Cristo in frantumi, arresti per improbabili conversioni forzate, spesso risolti con l’abiura da parte del colpevole ai ferri, persino linciaggi.

«Qui in Rajasthan – la regione più turistica e in parte più moderna, la terra dei marajà, denuncia con pacatezza il giovane vescovo di Jaipur, Jijo Varghese, detto don Giuseppe perché da anni a Roma per completare gli studi teologici – per noi è vietato predicare, pena la prigione. Vivere da cristiano in India non è facile».

Non molti anni fa sono stato testimone oculare della devozione a San Francesco Saverio, “Signore di Goa”. Il parroco della basilica confermava che il santo gesuita è venerato non solo dai cristiani. Il 3 dicembre è festa nazionale nel piccolo Stato dominato dai portoghesi sino a mezzo secolo fa. Al lunghissimo corteo che dura 3-4 giorni prendono parte anche induisti e musulmani e altri, una varietà di fedeli che riscontrai in quel momento in meditazione e preghiera tra le navate lusitane, donne in hijab o con velo annodato sotto il mento, uomini in kurta. Non erano quelli solo altri tempi ma, sino a prova contraria, testimonianza della vera anima spirituale indiana. Che segue il proprio dio ma che onora e rispetta le divinità altrui.

Alte uniformi a Delhi durante la parata all'Indipendence Day (ph. Antonio Ortoleva)

Alte uniformi a Delhi durante la parata all’Indipendence Day (ph. Antonio Ortoleva)

Tra sikh, buddhisti, jainisti, parsi e numerosi altri credi in coabitazione, i cristiani sono poco più del due per cento degli indiani, circa 30 milioni. Ben più numerosi i musulmani, in maggioranza sciiti e commercianti, stimati in 200 milioni, la terza componente islamica più numerosa al mondo e nel mirino di violenti attacchi. «Non dovreste avere paura di andare in prigione per aver ucciso dei musulmani», disse in autunno un leader induista ultra-ortodosso dal palco dalle città santa Aridwar e senza alcuna conseguenza. L’hanno chiamata con scherno la “Jihad dell’amore”: i musulmani sposano le nostre donne e le costringono ad abbandonare l’induismo. Alcuni matrimoni sono stati interrotti per sospetta conversione forzata.

Scene da un matrimonio a Jaipur (ph. Antonio Ortoleva)

Scene da un matrimonio a Jaipur (ph. Antonio Ortoleva)

Il Kashmir dai meravigliosi altipiani al confine col Pakistan è l’unico Stato a maggioranza musulmana. Un attentato dei secessionisti e con forti dubbi sulla matrice fu pretesto, nell’estate 2019, per abolire lo statuto speciale della regione che godeva di autonomia da settant’anni. Le vibranti proteste conseguenti furono represse con vittime e arresti di massa e il medesimo capo d’imputazione: terrorismo. È poi del dicembre dello stesso anno il varo del famigerato emendamento che ha escluso proprio i musulmani dalla legge sulla cittadinanza dei rifugiati da anni nel Paese. Human Rights Watch ha segnalato gravi violazioni a sfondo razziale e l’uso della forza solo nei confronti degli islamici mentre venivano attaccati dai sostenitori del governo, ormai «definitosi come partito unico» secondo autorevoli commentatori indiani. La sfida degli ultimi giorni il divieto alle studentesse musulmane del Kerala di entrare a scuola con il velo e un susseguirsi di proteste e interventi violenti delle forze dell’ordine.

L’ondata nazionalista e la ricerca di un’effimera e pericolosa purezza indù, secondo lo scrittore e politologo ultraottantenne Prem Shankar Jha, preludono alla fine della concezione dello Stato laico e al dominio di un’elite economica reazionaria con il rischio di offuscare la purezza originaria e originale dell’India che da millenni indica al mondo la più irresistibile delle vie, quella della spiritualità non dotta e ascetica ma semplicemente umana e orizzontale, che conduce a considerare l’altro, qualunque religione professi, come me stesso.

Dialoghi Mediterranei, n. 55, maggio 2022

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Antonio Ortoleva, ex giornalista del Giornale di Sicilia, già direttore e co-fondatore del periodico antimafia “Il Quartiere nuovo” di Palermo e docente di giornalismo a contratto presso l’Università di Palermo. Autore di reportage di viaggi, del volume C’era una volta l’India e c’è ancora, Navarra Editore, e più recentemente dello stesso editore Non posso salvarmi da solo. Jacon, storia di un partigiano.

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