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Presenza e realtà. Sul virtuale

metaversodi Alberto Giovanni Biuso 

Una premessa metafisica 

Qualunque sia lo specifico tema e ambito di una ricerca scientifica, essa presuppone almeno due elementi:

1) che l’oggetto di indagine esista in qualche modo, non soltanto e non necessariamente nella modalità fisico-chimica dell’occupare un volume nello spazio attraverso una massa di atomi o mediante tutto ciò che viene identificato con l’elemento fisico-empirico; 2) che di tale oggetto si possa conseguire una conoscenza spiegabile con il linguaggio, una conoscenza dunque che non sia ineffabile o soltanto interiore-psicologica. Un terzo elemento consiste nel convergere di ontologia e linguaggio in un ambito che è possibile definire con il termine di verità.

Ciò che chiamiamo realtà, mondo, essere è una struttura semantica asintotica, che non può essere colta con la certezza assoluta che le vecchie metafisiche e i più giovani scientismi pretendono di raggiungere.

Della realtà è parte costitutiva l’incessante dinamica di identità e differenza. La struttura e il significato di ogni ente consistono infatti nell’essere ciò che è perché non è altro. Che qualcosa ci sia significa che una parte della materia sta mutando rimanendo ciò che è. L’essere è identità e differenza. La differenza è intrinseca all’essere. La differenza è la molteplicità di ciò che è. Che ogni ente possa essere diverso da un altro ente e insieme a esso legato è possibile soltanto sul fondamento della identità che accomuna tutti gli enti tra di loro. Chiamiamo essere tale identità nella differenza.

Un atteggiamento metafisico, vale a dire un’indagine profonda e oggettiva sull’intero, implica l’andare oltre la dualità realismo/trascendentalismo. Il realismo ingenuo si illude di poter pensare il mondo senza transitare dalla complessità del corpomente che ne elabora i significati. Il trascendentalismo si illude di poter rendere conto dei modi e dei limiti della conoscenza senza ammettere che essa inizia sempre dalla materia che c’è e rimane immersa nella prassi esistenziale ed ermeneutica in cui la vita procede e si raggruma.

Non potremmo esistere se non fossimo parte di un mondo che ci precede e che c’è indipendentemente da qualunque sguardo. L’essere è insieme e inseparabilmente flusso e permanenza, poiché ogni mutamento ha senso in quanto qualcosa rimane e, di converso, il permanere di un ente si staglia sull’orizzonte del suo mutare. 

og__id13970_w800_t1670855389__1xLa presenza 

Che rapporto intrattiene ciò che chiamiamo virtuale e digitale con tutto questo, con la densità ontologica della realtà? Per cercare di rispondere, è opportuno accogliere l’avvertimento di Eugenio Mazzarella, per il quale «il dossier digitale è sul tavolo del futuro. È inutile, e irresponsabile, rifiutarsi di sfogliarlo» [1].

A guardare bene tale dossier, i fenomeni più ‘all’avanguardia’ della nostra ipermodernità, le tecnologie più avanzate e innovative, conservano, presentano e manifestano in realtà dei tratti arcaici. Il progetto del Metaverso intende trasformare Facebook in ciò che esso è stato sin dai suoi inizi. Non una piattaforma di incontri e interazioni; non un immenso database di parole, nomi, immagini, suoni; non un’impresa commerciale ma il tentativo di creare una nuova realtà, il sogno di essere dio. Il fondamento di Facebook e di Metaverso è «un animismo digitale» (Mazzarella 2022: 102) di forte impronta numerica (‘digitale’ appunto) e dunque galileiana e platonica, che disprezza la realtà dei corpi, della materia e della presenza per sostituirla con una «dimensione vitale, relazionale, sociale e comunicativa, lavorativa ed economica, vista, agita e proposta come frutto di una continua interazione tra la realtà materiale e analogica e la realtà virtuale e interattiva. Dove l’effetto gorgo, il buco nero dell’online fagocita sempre più la realtà offline, la vita come tale» (ivi: 11), in questo modo «sradicando la nostra vita, il nostro esserci, dall’essere-nel-mondo di presenza fin qui abitato» (ivi: 15).

Se si guardano le modalità concrete nelle quali sinora si è tradotto questo progetto, emerge appunto la sua somiglianza con forme di dominio assai tradizionali, un «uso oligarchico e lucrativo della rete da parte di uomini su altri uomini» (ivi: 96-97) che si manifesta, tra l’altro, in «concretissimi processi di alienazione sociale, esistenziali e finanche percettivi […]. Non ci si rende conto che il web è la nuova gleba a cui siamo asserviti, paradossalmente ancora più stanziale della vecchia gleba, perché è racchiusa nel fazzoletto di terra di uno schermo che ci viene fornito a ‘casa’, senza neppure necessità che si esca ‘in campagna’» (ivi: 25).

Lungi dall’essere smart, intelligente e agile, il telelavoro è una «truffa che rischia di aggiornare online il cottimo della manifattura domiciliare senza fabbrica» (ivi: 50). E dunque la decantata da troppi (Luciano Floridi, ad esempio) ’quarta rivoluzione’ dell’infosfera si rivela un ulteriore «passaggio epocale nella storia dell’alienazione intrinseca all’umano nel rapporto con i suoi mezzi» (ivi: 60). Un’alienazione proprio nel senso marxiano, una rinuncia all’autonomia e all’emancipazione per sottomettersi invece senza neppure averne coscienza a una «oligarchia dei padroni pubblici e privati del web nel Deep State del potere dell’infosfera» (ivi: 115).

Questo spiega anche il presentarsi di forme di luddismo che sono sempre inseparabili dalle pratiche di sradicamento e di alienazione implementate a partire dalla Rivoluzione industriale, un «luddismo digitale» che «come tutti i luddismi avrebbe le sue ragioni» (ivi: 95).

Siamo in pieno Otto-Novecento, abitiamo forme di sfruttamento e di alienazione che sono insieme virtuali e reali. E questo anche perché non esiste alcuna Intelligenza Artificiale, espressione definita senza mezzi termini da Mazzarella un imbroglio in quanto «definire la computazione automatizzata intelligenza artificiale è una truffa linguistica, che Bacone avrebbe ascritto agli idòla fori, a quegli errori dovuti al linguaggio e alla sua fallacia che non corrispondono a nulla di reale e ne corrompono o impediscono una corretta conoscenza» (ivi: 100).

Questo giudizio assai severo ma del tutto plausibile di Mazzarella è condiviso da Lucien Cerise, per il quale «l’IA est une parodie d’intelligence, comme le transhumain est une parodie de l’humain, mais leurs promoteurs humains, trop humains, peuvent provoquer des catastrophe en essayant de les imposer au forceps, par la contrainte ou par la ruse» [2].

A questa potente forma di alienazione; a questa «realtà ibrida che dall’interno avrà scarse o nulle capacità anche di sapersi come ibrida» (ivi: 136); a questa «demenza digitale» (ivi: 140) che scambia le forme di controllo più pervasive mai concepite con i sogni dei visionari transumanisti, con il paradiso del non dolore e dell’immortalità; a questa «tecnologia altamente tossica» (ivi: 127), Eugenio Mazzarella oppone un imperativo che è insieme politico, antropologico e ontologico, quello di «salvare la presenza, che è il più generale imperativo del presente» (ivi: 49).

E lo fa nel modo più disvelatore, che non sta nelle forme della polemica social, del giornalismo, dell’economia ma nel livello profondo della filosofia. 

9788858134115_0_536_0_75Realtà e documanità 

Diversa è la prospettiva nella quale si pone Maurizio Ferraris, che in Documanità. Filosofia del mondo nuovo raggiunge risultati di rilievo su tre questioni fondamentali: l’ontologia, l’antropocentrismo, la morte. Un quarto elemento di grande interesse è l’ambizione sistematica di questo suo testo, intenzione non certo frequente nella filosofia contemporanea.

L’opera è divisa in quattro capitoli, ciascuno dei quali si compone di quattro paragrafi le cui scansioni sono in reciproca corrispondenza e che permettono quindi una lettura non necessariamente continua, quella pensata dall’autore, ma in qualche modo trasversale e personalizzabile. Significativo della natura mista dell’opera – tra pamphlet politico e meditazione metafisica – è che alcune delle tesi più significative siano esposte non nel testo ma in varie lunghe note a fondo libro.

Il paragrafo chiave è il 3.1 dedicato all’Ontologia, che è anche il più breve del libro. In esso Ferraris espone le ragioni di fondo di una metafisica realistica, e lo fa in particolare in una nota: 

«È fin troppo ovvio che il soggetto ha esperienza di un oggetto se e solo se ha esperienza di un oggetto, questa è una solida tautologia. Ma è un’assurdità pretendere che l’oggetto esiste solo se il soggetto lo conosce o ne ha esperienza. In quarto luogo, il relazionismo quantistico si riferisce alla osservazione di oggetti in presenza e nel presente, e non si pone alcun interrogativo circa il passato e la sua esistenza e azione nel presente. Questa limitazione temporale (che inizialmente è un vantaggio, perché nasconde le difficoltà, però alla fine è un serio svantaggio, perché limita seriamente la portata della teoria), ha delle conseguenze drammatiche sulla possibilità di dare un senso qualsiasi al mondo in cui viviamo e al modo in cui lo viviamo» (Ferraris 2021: 384 nota 11).

Si smontano quindi alcuni dei presupposti più arbitrari sia delle metafisiche idealistiche – «Cogito ergo sum è un principio che oscilla fra la tautologia (è ovvio che ci sono: sto pensando) e l’irrilevanza: potrei, per esempio, essere qualunque cosa, per quel che ne so, e a questo punto l’esistere significa ben poco. Viceversa, est quod ego non cogito sembra parzialmente più saggio, almeno a livello ontologico» [3] – sia delle fisiche quantistiche, come quella di Carlo Rovelli: 

«Quanto si dice del relazionismo quantistico vale per il mondo microscopico, ma non per il mondo mesoscopico in cui ha luogo la nostra esperienza, e nel quale, se si pretendesse di far valere il relazionismo quantistico, si incorrerebbe in controsensi manifesti. Il passaggio dal microscopico al mesoscopico è un errore filosofico, in cui talvolta incorrono i fisici quando parlano speculativamente. […] Il nostro mondo non ha nulla di simile, e non abbiamo esperienza dei quanti più di quanto abbiamo esperienza dei fantasmi» (ibidem). 

La difesa dell’ontologia e della realtà si origina sia dalla «resistenza della percezione» nella quale «si annuncia l’enorme resistenza del mondo, che c’era prima di noi e che resterà dopo di noi» (ivi:187) sia dall’apriori materiale che constata come «senza epistemologia ci sarebbero così laghi, montagne, epistemologi (intesi come esseri viventi) e numeri dispari, mentre senza l’essere non ci sarebbe alcuna forma di sapere, che è sempre sapere qualcosa di qualcosa, ti kata tinos. Questa differenza e precedenza dell’essere rispetto al sapere rappresenta un apriori materiale più forte di qualunque apriori concettuale» (ivi: 380, nota 1).

Il paragrafo 3.1 affonda dunque le proprie radici nella metafisica classica, per la quale «il primo momento è l’ontologia, l’essere» (ivi: 186) e ha come logiche conseguenze la critica a ogni antropocentrismo e l’accettazione del limite ontologico e biologico dell’umano: «Possiamo benissimo pensare a un mondo senza umanità, ma non a una umanità senza mondo. E con questo il limite è immediatamente tracciato, con una perentorietà che non ammette repliche» (ivi: 17).

Segno, espressione e conferma del superamento del paradigma idealistico e dunque antropocentrico sono i numerosi accenni al morire, al limite, alla finitezza e all’imperfezione costitutiva della vita. «La sola cosa che conti è la morte» (ivi: XIII), «siamo polvere» (ivi: 391, nota 26).

Il coraggio di una filosofia sistematica e queste tre consapevolezze – il primato dell’ontologia, il rifiuto dell’antropocentrismo, la meditato mortis – dispiegano i loro effetti di comprensione del divenire nelle riflessioni sulla coappartenenza di tempo e materia e in generale sul rifiuto di ogni filosofia tesa a separare l’umano dal mondo, che sia la prospettiva di Rousseau o  quella dei postmoderni.

gehlen_einblickeLo snodo è rappresentato dall’antropologia di Arnold Gehlen, che vede nell’umano una carenza biologica che la nostra identità tecnologica si incarica di colmare. Questa tesi costituisce il fondamento più solido, per quanto in gran parte errato (come ha mostrato ad esempio Roberto Marchesini), di ciò che poi trasforma questo volume non in una ‘filosofia del mondo nuovo’, come vorrebbe essere, ma in una filosofia dei nuovi spettacoli, gli spettacoli delle piattaforme social.

Queste ultime sono per Ferraris parti di una ontologia della registrazione che trasforma i numeri in materia della memoria, sono piattaforme capaci di creare senza posa documenti – una delle due parole chiave del libro – e di «capitalizzare le informazioni raccolte dalle ricerche degli utenti» (ivi: 15). Lavoro di ricerca che sarebbe, appunto, un lavoro che i lavoratori non sanno di svolgere, che non viene retribuito ma che produce, secondo i paradigmi di Ricardo e di Marx, una quantità immensa di plusvalore che le piattaforme trasformano in ricchezza privata. La proposta di Ferraris è di indurre le piattaforme a socializzare tale plusvalore, anche perché, a causa dell’automazione da esse indotta, le altre forme del lavoro scompaiono l’una dopo l’altra. Questo sarebbe il problema. Le soluzioni proposte da Ferraris hanno il loro più solido referente nell’antropologia di Gehlen e nell’economia politica di Marx.

Da Gehlen deriva una definizione del capitale come «panoplia di supplementi, cioè l’insieme degli strumenti, ossia delle armi, di cui l’animale umano si è dotato – in tempi, modi e luoghi differenti – per supplire alle proprie mancanze» (ivi: 136). Da un’interpretazione di Marx deriva l’idea che «qualunque produzione di valore è lavoro», un lavoro che verrebbe oggi valorizzato e capitalizzato dalle piattaforme digitali, le quali fanno sì che «tutto questo enorme lavoro non si ved[a]. Tirarlo fuori è un compito essenziale per l’epoca contemporanea. Con questa semplice operazione potremmo dimostrare che la filosofia progressiva della storia è nel giusto, che l’umanità progredisce, e che non c’è ragione di cedere a un nichilismo inutile per cui crescerebbe solo lo sfruttamento» (ivi: 316). 

978880615275graUna «biopolitica progressista» 

Siamo arrivati al cuore politico di una proposta teoretica che appunto intende essere esplicitamente politica. La proposta di una «biopolitica progressista» (Ferraris 2021: 65) che rifiuta la dimensione ‘apocalittica’ delle tesi di Foucault, di Heidegger, di Adorno, di Marcuse e di ogni pensiero critico del Novecento, per accogliere e sviluppare invece le presunte componenti emancipatrici del digitale, delle piattaforme, del politicamente corretto e soprattutto del consumo, concetto e pratica nel quale tutto il discorso si addensa e che costituisce l’altra parola chiave del libro: 

«Documenti [i dati lasciati dai clienti della rete] che valgono molto più del denaro perché ci parlano non di ciò che il consumatore ha ma di ciò che è, delle sue credenze, delle sue debolezze, delle sue speranze, non come individuo bensì come parte di una classe virtuale, quella di tutti coloro che, nel mondo, gli assomigliano per qualche aspetto. […] Mandando a casa gli umani, inutili come produttori, e per rendere perfetta la distribuzione, deliziando gli umani che restano e resteranno per sempre consumatori, soddisfattissimi mentre aspettano la consegna di un bene che gli arriverà con una puntualità e a un prezzo che non avrebbero mai immaginato» (ivi: 61). 

Il consumo è concetto chiave anche perché Ferraris rifiuta qualunque riserva di carattere politico-libertario verso la pervasività del digitale, ribadendo invece di continuo che le macchine, le piattaforme, i social non sarebbero interessati a conoscere le nostre idee, concezioni politiche o visioni del mondo ma soltanto i bisogni del corpo, la vita organica che si trasforma in acquisti, come se vita organica e intelligenza non fossero la stessa cosa, dato che per l’animale l’una non esiste senza l’altra.

Alle obiezioni e alle riserve dei Francofortesi, di Heidegger e Anders, di Foucault – tutte descritte con totale e sincero disprezzo –, per non parlare di Guy Debord o Renato Curcio (il primo citato una sola volta, il secondo mai); alla ricchezza del pensare non omologato sulla misura dei vincitori del momento, Ferraris oppone alcune non convincenti strategie comunicative. Tra queste:

- la dicotomia per cui si dovrebbe scegliere tra il ritorno alla catena di montaggio della produzione novecentesca e il consumo digitale della produzione del XXI secolo, come se nel mezzo non ci fosse nulla. Ad esempio: «Nessuno rimpiangerebbe le nebbie d’antan, la sveglia all’alba, il freddo, le luci gialle del filobus e poi la ripetitività, la fatica e il frastuono dell’officina» (ivi: 70); e però l’alternativa a tutto questo è sempre più la disoccupazione e il precariato;

- la convinzione progressista per la quale rispetto alle sperequazioni e alle miserie del presente, ‘prima’ si stava in ogni caso peggio. Ad esempio: «Una umanità condizionata segretamente dai media e dalle élites, quasi che prima non lo fosse da chiese, partiti e quel che è peggio da amici e parenti» (ivi: 281);

- la definizione nobilitante dei centri commerciali e delle piattaforme digitali quali luoghi di aggregazione «in cui si incontrano tutti i ceti sociali» (ivi: 332), come accadeva ad esempio nelle cattedrali medioevali;

- l’idea ripetuta con forza nel IV capitolo (o ‘libro’, secondo il lessico preferito da Ferraris) che «la nostra sia l’epoca più vicina al comunismo realizzato di ogni precedente età del mondo» (ivi: 285) e questo perché «quella definita dalle piattaforme è una società senza classi, giacché vien meno l’identità lavorativa che permetteva di gerarchizzare una classe lavoratrice» (ivi: 286) e perché «potenzialmente, e in tempi brevi, tutte le prerogative dello Stato saranno assunte dalle piattaforme, e che gli unici Stati superstiti saranno quelli che le controllano» (ivi: 287).

Di questo dispositivo argomentativo fa parte la lode alla Cina, le cui capacità demografiche e di controllo sulla produzione di valore documediale (un miliardo di telefoni cellulari) consentiranno di diventare la nuova potenza egemone del XXI secolo.

Tutto questo si esprime nei concetti di Mobilitazione, di Internazionale dei consumatori, di Webfare.

- Mobilitazione dei navigatori della Rete, reclutati 24 ore su 24 e sette giorni alla settimana nella produzione e registrazione di documenti e dunque di valore.

- «Ciò che viene deplorato come globalizzazione è la realizzazione di una nuova internazionale, dei consumatori [corsivo mio] invece che dei lavoratori. Questa globalizzazione è un altro indizio di comunismo e ha avuto luogo non attraverso il generico trasporto di merci, bensì attraverso la rivoluzione documediale. […] E si osservi questo: l’internazionale del consumo ha tutte le carte in regola per divenire un’internazionale dell’educazione, delle idee e della solidarietà» (ivi: 287); un ottimismo che appare come minimo esagerato.

- Webfare, vale a dire il welfare digitale reso possibile, ad esempio, dal fatto che il «surplus prodotto, poniamo, dal lavoro sociale in rete di due professori che discutono di rivoluzione vada direttamente ai disoccupati e agli sfruttati» (ivi: 297). Più in generale, «se la mobilitazione è lavoro, va riconosciuta, meno nei termini di una farraginosa distribuzione diretta, che non con la creazione di un welfare attraverso la ridistribuzione dei proventi tratti dalla tassazione delle piattaforme» (ivi: 321), «si tratta cioè di avviare un New Deal che parta da una negoziazione tra capitale e lavoro, dove il lavoro sono i cittadini europei e il capitale le piattaforme» (ivi: 327).

Ci troviamo davanti a un imponente sforzo erudito volto a sostenere che gli umani sono dei dispositivi sociali (piattaforme) e semantici (documedialità). Ci muoviamo tra Pangloss e l’utopia, a sostegno di due pervasive tendenze del presente:

- la prima accetta pienamente di sostituire i diritti del lavoro (concetto e pratica da cui liberarsi) con i diritti civili: «La mia controproposta consiste nel chiedere che la filosofia torni non a mettersi dalla parte dei vincitori, ma ad assumere un atteggiamento che consideri almeno come possibile la vittoria dei diritti umani, non più in contrasto con il lavoro semplicemente perché quest’ultimo sarà scomparso, e sostituito da qualcosa di meglio e di più degno» (ivi: 281).

- la seconda è un’ampia apologia del politicamente corretto, per la quale «non stiamo decadendo, anzi progredendo, e proprio il confronto con gli eroi della teoria critica lo dimostra. Adorno poteva permettersi di disprezzare il jazz come musica da negri (lui si esprimeva proprio così). Horkheimer poteva compromettere la salute dei suoi uditori imponendo loro il fumo passivo dei suoi sigari. Marcuse poteva immaginare una liberazione sessuale che oggi lo esporrebbe a #MeToo. Questi loro atteggiamenti appaiono a noi, ora, inaccettabili» (ivi: 261).

81na5v9eogl-_ac_uf10001000_ql80_Commentando la Dichiarazione universale dei diritti umani, che nel 1948 sanciva il diritto di diffondere le proprie idee, Ferraris ritiene necessaria una postilla/condizione: «purché l’opinione che viene manifestata sia ragionevole e non lesiva dell’altrui dignità» (ivi: 335). Un’affermazione che mi sembra sorprendentemente ma significativamente vicina a quella di Thomas Molnar, cattolico ultratradizionalista, il quale a una domanda su «quali sarebbero lo statuto e il tipo di libertà concessi agli oppositori del cristianesimo» nella società da lui auspicata, risponde francamente che «vi sono interessi che non sono in concorrenza con altri, ma li schiacciano, in nome del pluralismo. E per essi non c’è posto in una società ben ordinata» [4].

Come tutte le utopie, anche quella di Maurizio Ferraris si chiude con una pulsione antilibertaria. Peccato, perché – al netto di alcuni attacchi ad personam (come quelli qui sopra citati) – le argomentazioni metafisiche a favore dell’ontologia, della materia e del tempo costituiscono delle indicazioni preziose e interamente condivisibili. 

71umrbqtzkl-_ac_uf10001000_ql80_Simulacri 

Rispetto all’apologia delle finzioni virtuali, la prospettiva di Jean Baudrillard dà sostegno alla difesa della presenza, mostrando anche la propria natura libertaria, assai più anarchica di qualunque ideologia progressista e politicamente corretta, il cui  umanitarismo è evidentemente gemello dell’oppressione, la cui volontà di delicatezza nasconde a stento la ferocia della realtà, poiché «ogni destino negativo dev’essere ripulito da un trucco ancora più osceno di quel che vuole nascondere» [5], in modo da confermare nella propria compiaciuta tranquillità interiore «tutti coloro che fanno abbronzare la loro coscienza tranquilla al sole della solidarietà» [6].

L’illusione del digitale rafforza la realtà del dominio poiché 

«politici e pubblicitari hanno compreso che la molla del governo democratico – forse addirittura l’essenza del politico? – consisteva nel considerare la stupidità generale come un fatto compiuto: “La vostra imbecillità, il vostro risentimento ci interessano!”. Dietro di ciò si profila un discorso ancora più subdolo: “I vostri diritti, la vostra miseria, la vostra libertà ci interessano!”. Si sono addestrati gli animi democratici a ingoiare tutti i rospi, gli scandali, il bluff, l’intossicazione, la miseria, e a riciclarli. Dietro l’interesse arrogante si profila sempre il volto vorace del vampiro» [7]. 

61kf7l-loul-_ac_uf10001000_ql80_Si profila il volto del dominio nella molteplicità dei suoi apparati di ogni risma, ai quali si aggiunge oramai e in modo pervasivo l’arroganza di un colonialismo culturale e militare che ripete i fasti di quello ottocentesco. Quanto più tuttavia la volontà imperiale dell’economia statunitense e dei suoi collaboratori in Europa si estende e invade, tanto più nei popoli invasi si genera «una specie d’alterità che non vuole essere compresa, una specie d’incompatibilità che non vuole essere negoziata. La frattura tra la nostra cultura dell’universale e le restanti singolarità s’inasprisce e si approfondisce. Il loro risentimento può essere impotente, ma, dal fondo del loro sterminio virtuale, una passione di rivincita infiltra e smembra il mondo occidentale, così come il fantasma degli esclusi comincia ad abitare e ad assillare le nostre società convenzionali» [8].

La società dello spettacolo è diventata l’«estasi della comunicazione» [9], che si è trasformata a sua volta nella pervasiva potenza di un virtuale il cui esito ultimo è la rimozione della presenza, la dissipatio della realtà. Di fronte a tale divenire, «salvare la presenza» è anche un programma politico. 

Dialoghi Mediterranei, n. 62, luglio 2023 
Note
[1] E. Mazzarella, Contro Metaverso. Salvare la presenza, Mimesis, Milano-Udine 2022: 141; i numeri di pagina delle successive citazioni da questo libro vengono indicati tra parentesi nel testo.
[2] «Tout le monde fait de l’ingénierie social sans le savoir, comme M. Jourdain avec sa prose», intervista a L. Cerise, Krisis, n. 55, Déconstruction?, avril 2023: 98-99.
[3] M. Ferraris, Documanità. Filosofia del mondo nuovo, Laterza, Bari-Roma 2021, nota 7: 395; i numeri di pagina delle successive citazioni da questo libro vengono indicati tra parentesi nel testo.
[4] A. de Benoist – T. Molnar, L’eclissi del sacro, (L’éclipse du sacré, La Table Ronde 1986), trad. e saggio introduttivo di G. Del Ninno, Edizioni Settecolori, Vibo Valentia, 1992: 79-80.
[5] J. Baudrillard, Il delitto perfetto. La televisione ha ucciso la realtà? (Le crime parfait, Éditions Galilée, Paris 1995), trad. di G. Piana, Raffaello Cortina Editore, Milano 1996: 143.
[6] Ivi: 137.
[7] Ivi: 145.
[8] Ivi: 152.
[9] Id., Simulacres et simulation, Galilée, Paris 1981: 119-129.

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Alberto Giovanni Biuso, professore ordinario di Filosofia teoretica nel Dipartimento di Scienze Umanistiche dell’Università di Catania, dove insegna Filosofia teoretica, Filosofia delle menti artificiali e Epistemologia. È collaboratore, redattore e membro del Comitato scientifico di numerose riviste italiane ed europee. È direttore scientifico della rivista Vita pensata. Tema privilegiato della sua ricerca è il tempo, in particolare la relazione tra temporalità e metafisica. Si occupa inoltre della mente come dispositivo semantico; della vitalità delle filosofie e delle religioni pagane; delle strutture ontologiche e dei fondamenti politici di Internet; della questione animale come luogo di superamento del paradigma umanistico. Il suo libro più recente è Chronos. Scritti di storia della filosofia (Mimesis, 2023).

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