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Pitrè, il mare e l’immaginario

  

Giuseppe Pitrè

Giuseppe Pitrè

di Antonino Cusumano [*]

In un lontano saggio del 1969 pubblicato su “Uomo&Cultura”, Alberto Maria Cirese, indagando sulla poesia lirico-monostrofica di tradizione orale, analizzava e leggeva il mare come segno polivalente, essendo il mare per sua natura spazio sottoposto a molteplici processi di risemantizzazione e plasmazione culturale. Addomesticare e padroneggiare quanto è nella sua liquida quintessenza mobile e instabile, risponde al costante sforzo degli uomini di gettare una rete di simboli per colonizzare, imbrigliare e mettere in forma la realtà sfuggente, vasta e profonda delle acque in perenne movimento. Sul mare rifluiscono umori letterari e tendenze artistiche, paure ancestrali e pulsioni visionarie, proiezioni romantiche e incursioni nel territorio della più libera trasfigurazione fantastica. Presunzione geocentrica e prospettiva antropocentrica hanno prevalentemente orientato lo sguardo di chi ha raccontato, rappresentato e illustrato il mare con un repertorio di segni riconducibile a categorie e tassonomie strutturate in una logica dicotomica a partire dalla terra ferma.

Antonino Buttitta (1995: 11 sgg.) ha scritto dell’ambiguità del mare, «crocevia di paradossi», «frontiera della paura e pur orizzonte della speranza», spazio che «divide e nello stesso tempo unisce». Nel gioco dialettico delle opposizioni, terra e mare si contrappongono e si fronteggiano come due mondi disgiunti e pure complementari nella loro irriducibile diversità, nella loro reciproca alterità. Nel regno di Glaukos sono confinate figure liminari e presenze oscure incarnate e generate  dall’immaginario degli uomini che abitano la terra. Da qui quel popolo di esseri strani e fantastici, di cui ha scritto con ampia documentazione etnografica Mari Savi-Lopez nelle sue Leggende del mare, pubblicate nel 1894. «Folletti e demoni, fiamme malefiche e mostri marini di aspetto pauroso, sirene affascinanti colle lunghe chiome d’alighe e di fili d’oro, trolli giganteschi, fantasmi di naufraghi, nani paurosi, misteriose divinità nordiche o mitiche figure orientali danzano sulle onde, salgono lungo i cordami delle navi, si aggirano sugli scogli o stanno in alto sugli alberi maestri, a terrore degli uomini che spesso portano in mare tutte le superstizioni delle loro terre natie, tutte le reminiscenze popolari dei miti antichi, tutti i ricordi che rimangono delle figure gentili o terribili apparse ai primi navigatori antichi, ed agli audaci marinai normanni del Medioevo, re del mare; ai pirati saraceni, ai monaci ardimentosi dell’Irlanda ed ai navigatori italiani dei secoli passati; ai pescatori americani, che per la prima volta sfidarono i pericoli degli oceani, ed ai marinai innamorati, che guardavano il mare pensando alle loro terre lontane».

Fin qui Savi-Lopez (1995: 34-35) che, pur nei limiti di un’opera di compilazione priva di riferimenti ai contesti sociali e culturali dei testi raccolti, ha avuto il merito di mettere insieme in un percorso narrativo temi e soggetti della cultura popolare legata al mare. Va precisato, infatti, che folkloristi e antropologi hanno sofferto di una sorta di etnocentrismo urbano e rurale, avendo dedicato gran parte della loro attenzione alle manifestazioni della vita tradizionale delle campagne e delle città e avendo trascurato gli studi e le ricerche sul mondo marinaro e sulla cultura dei pescatori. Stretto nel dualismo città-campagna, il mare è rimasto quasi del tutto estraneo o ai margini delle ricognizioni etnografiche, pur essendo paradossalmente il territorio del nostro Paese interessato in prevalenza da aree costiere. Perfino in un’isola come la Sicilia, dove le acque del mare aprono e chiudono gli orizzonti, lo sguardo degli studiosi è stato di fatto poco approfondito nella documentazione dei saperi, delle tecniche e dei diversi aspetti della letteratura orale e popolare delle comunità di pesca.

Più di mille chilometri di costa, «ma questa questa grande isola del Mediterraneo – ha scritto Leonardo Sciascia (1991: 229) – nel suo modo di essere, nella sua vita, sembra tutta rivolta all’interno, aggrappata agli altipiani e alle montagne, intenta a sottrarsi al mare e ad escluderlo dietro un sipario di alture o di mura, per darsi l’illusione quanto più è possibile completa che il mare non esista (se non come idea calata in metafora nelle messi di ogni anno), che la Sicilia non è un’isola (…). E sulle sue onde porta alle nostre spiagge invasori d’ogni parte e d’ogni razza. E porta, continuo flagello per secoli, i pirati algerini che devastano, depredano, rapiscono. Il mare è la perpetua insicurezza della Sicilia, l’infido destino; e perciò anche quando è intrinsecamente parte della sua realtà, vita e ricchezza quotidiana, il popolo raramente lo canta e lo assume in un proverbio, in un simbolo; e le rare volte sempre con un fondo di spavento più che di stupore». Nell’interrogarsi sul perché su duemila pagine di Usi, costumi, credenze e pregiudizi del popolo siciliano Giuseppe Pitrè ne avesse dedicato al mare appena dieci, Sciascia rispondeva che si trattava probabilmente «di un’oggettiva carenza o difficoltà di reperimento della materia folkloristica nei paesi di vita marinara» nonché «di un’attrazione che lo studioso, nato in una città di mare e figlio di marinaio, più sentiva verso il mondo della Sicilia interna, della Sicilia contadina».

 S. Stefano di Camastra, Collezione Di Benedetto

S. Stefano di Camastra, Collezione Di Benedetto

Non sappiamo se sia stata la effettiva mancanza di documenti folklorici o piuttosto l’interesse prevalente per la cultura contadina a orientare la ricerca di Pitrè. In verità, lacune e omissioni sulla letteratura demologica riferita al mare sono ampiamente confermate nello spoglio delle opere pubblicate almeno fino al 1916 e puntualmente elencate nella Bibliografia delle tradizioni popolari d’Italia curata dallo stesso Pitrè. Il quale era tuttavia nato nel quartiere palermitano di Borgo Vecchio abitato in gran parte da pescatori, lui stesso figlio di pescatore, padrone di barca il padre Salvatore e figlia di marinaio la madre, Maria Stabile. Nel 1860 il giovane Pitrè si arruolò volontario di marina con Garibaldi e il suo primo cimento di ricercatore lo esercitò collezionando proverbi e vocaboli marini appresi dalla madre e dall’ambiente e  tant’è che a soli ventun’anni mandò alle stampe nel 1863 un Saggio d’un vocabolario di marina italiano-siciliano.

Si tratta di un volumetto di poco più di 20 pagine, stampato a Firenze presso la tipografia Sulle Logge del Grano, allora sede della redazione del giornale Il Monitore Toscano. Il vocabolario, dall’italiano al siciliano, contiene le voci di una sola lettera, la P da Pacchebotto a Pontone  e, nonostante l’autore si fosse ripromesso di dare alle stampe l’intera opera in “miglior tempo”, non  riuscì nel suo intento, limitandosi a qualche notazione sparsa nei volumi Usi e costumi e La famiglia, la casa, la vita del popolo siciliano. Un vocabolario vero e proprio Pitrè non riuscirà a compilarlo, anche se nella monumentale impresa della Biblioteca delle tradizioni popolari siciliane ci sarà spazio e attenzione per gli aspetti linguistici della cultura folklorica. Tuttavia, il progetto di mettere insieme in “un lavoro speciale” (per usare le sue parole) le diverse voci che aveva raccolto nel tempo resterà sulla carta. Pitrè scriverà invece un ottimo studio, il più completo – ha annotato Antonino Buttitta (1996) – sui vocabolari siciliani da Scobar a Pasqualino, al Traina e al Mortillaro. In queste pagine pubblicate nel 1871, a distanza di appena otto anni dal Saggio d’un vocabolario di marina, sostanzialmente denuncia i difetti dei lessicografi del suo tempo che però ritroviamo nel suo Saggio. Ovvero il punto di vista compilativo in gran parte orientato a muovere la ricognizione delle voci a partire dall’italiano: trattandosi di fatto di dizionari italiano-siciliano, anche se sul frontespizio si legge Dizionario siciliano-italiano. «Il letterato, volere o non volere, pulisce sempre il dialetto», scrive Pitrè (1971: 70), il quale critica il «tradizionale italianismo de’ vocabolaristi siciliani» (74): da qui la sicilianizzazione di molti termini italiani e la tendenza a guardare alla parlata toscana quale modello di riferimento a cui ispirare la ricerca per il corrispettivo in siciliano.

Anche nel suo Saggio d’un vocabolario di marina, Pitrè cade nello stesso errore metodologico, coerentemente del resto con la dichiarazione, esplicitata nella prefazione, del percorso adottato dall’italiano al siciliano: «essendo mia intenzione – scrive –  di fare un libro che possa veramente giovare a coloro che esercitano l’arte marinaresca, ho dovuto cercare di raccogliere dalla bocca stessa dei marinari le voci proprie e di uso comune. Quindi alla parola italiana farò seguire la spiegazione, e qualche esempio tratto dai Classici (…). Ad ogni vocabolo italiano farò seguire il corrispondente siciliano, ciò che mi ha costato molte fatiche, e mi ha travagliato più che non potrei dire, per la buona ragione che nessun vocabolarista di quest’Isola volle giammai darsi pensiero di raccogliere le voci di tutte le arti e di tutti i mestieri, e di farne un vocabolario» (1863: 1-2). Pitrè segnala un oggettivo difetto che è proprio della cultura intellettuale del suo tempo e di cui tuttavia lo stesso folklorista non è esente. La verità è che «L’intellettuale ottocentesco – scrive Alberto Varvaro (1980: 538) – ignora il lavoro in quanto tale. Basti dire che lo stesso Pitrè descrive usi e costumi, credenze e pregiudizi con minuzia ben maggiore di quella che riserva alle procedure di lavoro. Egli lamenta che i vocabolari trascurino gran parte della lingua popolare, ma le integrazioni da lui messe insieme sfiorano soltanto il settore che ci interessa: anche per lui il popolo si individua per modi di pensare e di vivere, non per forme di produzione».

Palermo, Mercato del tonno, 1895 (foto Alinari)

Palermo, Mercato del tonno, 1895 (foto Alinari)

Che i vocabolari siano comunque parziali e incompleti in quanto codificazione linguistica «di quella parte del reale che l’autore recepisce o almeno di quella che egli reputa degna di inventariazione», è dato che trova conferma nelle opere dei lessicografi siciliani, se è vero, come scriveva Giuseppe Cusimano (1977: II) nella Prefazione alla ristampa del vocabolario di Perez del 1807, che «la reale dimensione storica, spaziale e sociale del dialetto è in quelle opere solo parzialmente riflessa». Così è anche nel piccolo Saggio di Pitrè, che intorno alla lettera P mette insieme vocaboli che hanno a che fare con la nomenclatura tecnica del lessico marinaresco dell’800 in gran parte mutuato dal Vocabolario di marina in tre lingue di Simone Stratico, edito nel 1813, un modello linguistico abbastanza lontano dalle parlate dei marinai siciliani. La raccolta lessicale di Pitrè riguarda soprattutto l’ambito semantico della navigazione, la tipologia delle imbarcazioni, le varie parti componenti degli scafi attinenti alla marineria velica, le gerarchie dei naviganti. Ma ad eccezione di alcuni lemmi relativi a precise strutture ed elementi costitutivi di barche (paranza, schifu, currituri, pagghiolu di sintina….), l’attendibilità delle voci dialettali attestate è quanto meno dubbia, essendo in gran parte plasmate sull’obiettivo di approssimare e uniformare il siciliano all’italiano, un obiettivo politico più che scientifico dal momento che nel contesto postunitario era volto a «servire al lustro del patrio idioma».

Pur con tutti limiti evidenziati nella compilazione del Saggio di un Vocabolario di Marina, limiti in gran parte riconducibili agli orientamenti culturali del suo tempo, Pitrè mostra fin dalla sua prima prova la consapevolezza della importanza della lingua quale parte essenziale del patrimonio folklorico muovendo il suo interesse verso la cultura popolare a partire dallo studio delle parole siciliane legate al mondo della marina. Così egli stesso scrive nel 1887 in una nota del volume Usi e costumi (455): «Nato sul mare in Palermo e figlio di marino, io dovrei qui dar luogo al folklore marittimo siciliano, la cui materia, presso che fanciullo, cominciai indirettamente ad apprezzare raccogliendo voci e modi di dire per un Vocabolario marinaresco siciliano, rimasto finora inedito (una sola lettera ne pubblicai nel 1863). Ma l’argomento è troppo largo perché io possa comprenderlo nella presente opera, invero grande di mole. Però rimandando ad un lavoro speciale tutto ciò che ho messo e potrò ancora mettere insieme, mi limito a pochi appunti di cose caratteristiche».

Anche se il Vocabolario di cui parla non vedrà mai la luce, l’apprendistato di Pitrè agli studi demologici fu nel segno del mare, sulla scorta del patrimonio lessicale della famiglia, ma continuò anche oltre dal momento che, diventato medico, fu impegnato ad esercitare la professione nella Kalsa, dove – come egli stesso scrive ne La vita a Palermo cento e più anni fa (1944, I: 24) – «se uomini, son pescatori; se donne, ricamatrici; e quando all’una ed all’altra occupazione non son più adatti, i vecchi rammendano reti, che servono pei loro figli; le vecchie fanno funicella di cerfuglione». Il mare, dunque, era presenza ineludibile nella vita quotidiana dello studioso palermitano, e forse proprio perché evidenza e permanenza abituale è rimasto quasi del tutto assente nelle sue ricognizioni della cultura materiale dei pescatori. Poco o nulla ha scritto sulle tecniche di pesca, sulle imbarcazioni, sugli usi e sulle pratiche lavorative a mare, e quanto è dato leggere intorno ai rituali connessi al varo delle barche e al pubblico incanto del pescato è ripreso dalle ricerche condotte da Raffaele Castelli, folklorista e suo corrispondente da Mazara. È appena il caso di precisare che l’ideologia dell’epoca faceva velo alla conoscenza degli aspetti materiali della cultura, per cui «l’immagine del mondo popolare consegnata alla storia dal Romanticismo»  ha scritto Antonino Buttitta (1980: 29) finiva con l’enfatizzare i tratti e i momenti appartenenti alla sfera “spirituale”, mentre taceva o lasciava in ombra quelli riconducibili alla dimensione “materiale”.

Palermo, Cortile Zito, primi 900, collezione Museo Pitrè

Palermo, Cortile Zito, primi 900, collezione Museo Pitrè

Il mare, la cui empirica realtà dell’economia e del lavoro è rimasta pressoché fuori dalla osservazione degli etnografi del tempo, non è tuttavia assente nell’orizzonte simbolico della cultura folklorica, essendo attestata la sua rappresentazione nell’ampio repertorio narrativo che Pitrè ha raccolto nei quattro volumi di Fiabe, novelle e racconti popolari siciliani. Protagonista delle narrazioni è quella Agatuzza  Messia, eletta dall’autore a «novellatrice-modello», che nel suggestivo linguaggio di parole e mimica riesce a far diventare «concrete le cose astratte, corporee le soprasensibili, vive e parlanti quelle che non ebbero mai vita o l’ebbero solo una volta» (Pitrè 1875, I: XX). Agatuzza che vide nascere Pitrè e lo tenne tra le braccia, è vissuta in larga parte nel quartiere marinaro del Borgo. Così lo studioso, tra l’altro, la descrive: «La Messia non sa leggere, ma la Messia sa tante cose che le sa nessuno, e le ripete con una proprietà di lingua che è piacere sentirla. (…) Se il racconto cade sopra un bastimento che dee viaggiare, ella ti mette fuori, senza accorgesene o senza parere, frasi e voci marinaresche che solo i marinai o chi ha a che fare con gente di mare conosce» (idem: XVIII-XIX).

La narrativa di tradizione orale che non distingue i generi convenzionali e comprende anche miti e leggende, rinvia a forme diverse di un unico immaginario sociale, che cercheremo di individuare e descrivere attraverso un primo sommario e approssimativo rilevamento dei materiali testuali e dei contenuti. L’obiettivo è quello di capire quali idee e quali immagini sono associate al mare, quali relazioni concettuali richiama, quali dimensioni semantiche e culturali presuppone. Abbiamo proceduto preliminarmente a verificare le occorrenze del lessema grazie ad un rapido controllo digitale. Abbiamo registrato il vocabolo “mare” circa 150 volte su più di duemila pagine di fiabe di magia e racconti storici, agiografici o di fondazione.

Il mare è legato alle partenze degli eroi o protagonisti, agli approdi perigliosi su scogli e a traversate travagliate, dal momento che evoca saette, lampi, tuoni, «timpesta, cavadduna d’acqua, battaria di nfernu, e s’agghiutti li varchi e li bastimenti come na pinnula» si legge in una fiaba che narra dei sortilegi di un mago (Lu magu Virgillu, II: 13). Il mare nei racconti è l’orizzonte dei commerci, delle mircanzie; «jiri di fora» sono soliti dire i marinai, riferisce Pitré, per indicare la pratica dei traffici e della ricerca degli affari varcando i confini oltre la terraferma, nell’altrove crocevia di spazi da attraversare per conoscere, per negoziare, per cercare fortuna, per vedere «mari e munnu tutti nsemmula», afferma il protagonista di una storia, identificando l’immensità dell’uno con la vastità del mondo.

In quanto prepara un percorso, un viaggio, un allontanamento e un ritorno, fondamentali funzioni proppiane, il mare è esso stesso metafora del narrare, della morfologia della trama, agente e referente dell’esperienza umana del dare forma al racconto, essendo sempre e comunque un limen, una soglia, una frontiera, luogo delle avventure, delle prove di iniziazione e delle sfide impossibili come quella di cercare per desiderio del re un capello d’oro sopra un albero in mezzo al mare (Lu cavaddu nfatatu, I: 298). Ovvero spazio delle improvvise epifanie, delle truvatura, come lo sono tradizionalmente montagne e grotte nelle leggende plutoniche. Ma dal mare viene pure il bambino trovato dentro una cassetta di ori e monili (Grigoliu Papa, III: 33), e dal mare arrivano le ricchezze inattese, inspiegabili, miracolose nella cornice di una visionaria rappresentazione. Orditi narrativi avvicenti che disegnano un proscenio di incantesimi e di gesta ardimentose, di stupefacenti imprese, inverosimili palazzi di madreperla e fantastici regni e fantasiosi regnanti. Così il mare è salvezza per la povera figlia del re cui era stato predetto un triste destino. Allontanandosi dalla terraferma, la barca provvidenziale a cui affida la sua sorte la porta in un’isola ricca e feconda che prenderà nome di Sicilia. Non c’è chi non legga in questa storia di fondazione antecedenti mitici della letteratura mediterranea.

 Sciacca, fine sec. XIX, collezione La Duca

Sciacca, fine sec. XIX, collezione La Duca

Nella narrativa popolare il mare è anche, in tutta evidenza, proiezione figurativa e simbolica di tutto quel che si oppone in qualche modo alla terra. Così tra le onde e le forti correnti si rendono possibili gli eventi irrealizzabili, si sovverte l’ordine dato, prendono vita rocambolesche apparizioni e straordinarie metamorfosi. Il riuzzu si traveste da marinaio che vende pesci per strappare una vasata alla fanciulla (La grasta di basilicò, I: 35), i pesci escono dal mare e salgono le montagne (La panza chi parra, I: 68), le chiavi perdute si ritrovano in bocca ai pesci, dal mare un pescatore che soffre la mancanza di un figlio trova nella rete un pesce che mangiato dalla moglie lo rese padre felice di due gemelli. Un altro povero marinaio viene sottratto al suicidio da un grosso pesce rosso che lo salva trascinandolo sulla schiena fin sopra uno scoglio. Ciò che è gettato in mare – perfino uomini o bambini dentro sacchi – per essere perduto o eliminato, il mare restituisce in vita, converte in altro destino e concorre ad una etica soluzione, una sorta di riscatto cosmogonico.

Ma nella topografia dell’immaginario che il mare occupa nelle storie raccolte da Pitrè prevale senza dubbio il meraviglioso, l’elemento che inquieta, seduce e spaventa, il mostruoso e il misterioso, tutto quel che vive e abita sul limitare dell’umano, tra il mito dell’altrove che attrae e la paura dell’alterità che turba e respinge. Per la doppiezza della sua stessa natura fisica, per la sua duplice dimensione  di superficie e di fondale, di emerso e di sommerso, di visibile e di invisibile, il mare ha – in obiecto e in intellectu – uno stato ibrido, uno statuto ossimorico. A questa ambiguità strutturale rinviano le figure che vi dimorano, creature di confine, di contaminazione, di mediazione tra il noto e l’ignoto, tra il sopra e il sotto, tra l’umano e il non umano. Invenzioni liminari, incarnazioni e trasfigurazioni dell’eteroclito, dell’anomalo, del diverso, compendiano nel loro corpo l’immagine simbolica dell’alterità, il sincretismo di cultura e natura attraverso la commistione di uomo e animale. Sono ondine, tritoni, pesci parlanti, uomini-pesce, sirene, qualcosa di più di animali, qualcosa di meno che uomini. Sono custodi della frontiera tra la terra e il mare, tra i vivi e i morti, tra eros e thanatos, tra caos e logos. Nella concordia oppositorum e nel continuum della materia data dall’acqua di per sé eraclitea, fluida e mobile, queste figure ancipiti e polimorfe vivono e si legittimano. Per il fatto che sfuggono alle tassonomie della specie e alle categorie di genere, ponendosi al di là e al di fuori dell’empirico e dell’ esperibile, ai confini dei sensi e del senso, assumono la funzione di simboli, di archetipi dell’immaginario, di interpreti e operatori strategici nella struttura del racconto e nel  linguaggio del mito.

Queste arcaiche immagini del pensiero umano costituiscono metafora dell’arcano e dell’enigmatico, del meraviglioso e del minaccioso, del seducente e del terrificante, e per ciò stesso percorrono tutta la letteratura occidentale, la narrativa popolare e orale che trova in Sicilia, nella sua insularità mediterranea, l’humus ideale e il luogo particolarmente fecondo. Laddove sembra abbia accoglienza e ospitalità l’utopia, là è la proiezione figurativa del mito dell’altrove, il contesto privilegiato di un mare densamente popolato da un ampio bestiario di esseri che giungono a noi dal mondo dei mirabilia dell’antichità greca. «Esseri mitici che salgono e scendono dal cielo», nell’Isola abitata dagli dèi di cui ha scritto Antonino Buttitta, ma forse potremmo aggiungere che scendono e risalgono dalle profondità del mare, saltando fuori dai flutti e confondendosi tra le onde e le spume. Così è per le Sirene, così è per Colapesce, figure che hanno generato uno straordinario numero di leggende e racconti.

 Mazara, foto F. Maraini, 1952

Mazara, foto F. Maraini, 1952

Che siano o no tutti figli di Poseidone i protagonisti di questi molteplici organismi narrativi nati e germinati su sponde diverse e disposti su un asse temporale di lunga durata, che siano varianti, riverberi, scintille, schegge, eredità diverse di una medesima memoria culturale, resta vero che queste storie, attestate  in contesti di società marinare e di pesca, segnalano l’antica, collettiva e perenne percezione del mare come luogo di alterità radicale, un altrove oscuro e minaccioso da addomesticare attraverso un mito e un rito, un orizzonte di senso, una sintassi sacra che converta e risolva sul piano simbolico le dicotomie inconciliabili della vita.

Figli del mare, dunque, ma anche della terra, presenze umane e numinose che nello stato liminare e ambivalente della loro natura interpretano emblematicamente il rischio mortale e il fascino vitale dell’oltrepassamento del limite, della violazione del tabù, il problematico rapporto che intratteniamo con quel che di inquietante e di ignoto, di seduttivo e di attrattivo il mare, in quanto luogo del non luogo, privo di un centro e di una geometria, significa e rappresenta. Ieri come oggi, se è vero che quella «piccola fenditura della crosta terrestre» che è il Mediterraneo, secondo la bella definizione di Fernand Braudel, conosce le drammatiche esperienze dell’attraversamento, dei naufragi e dei rocamboleschi approdi di quella umanità che consegna il proprio destino e le proprie speranze al mare, dopo aver percorso deserti e scavalcato muri e fili spinati. Che sia  frontiera di speranza, via di fuga, passaggio estremo oltre la morte verso un’altra vita possibile, oppure spazio delle paure e delle tensioni proiettate verso lo straniero che tenta di arrivare, verso il rifugiato che chiede asilo, verso l’altro da noi che guardiamo con sospetto, il mare resta comunque – ancor più nel tempo della modernità liquida – linea d’ombra dell’immaginario, abitato da nuove sirene e nuovi colapesci, metafore di promesse e di sfide, di tragici inganni e di epiche imprese. Gli uomini e le donne che oggi giungono faticosamente sulle nostre rive, stretti come carne da macello in gommoni o sgangherate imbarcazioni di fortuna, non sono reincarnazione dei minacciosi leviatani evocati dalle storie orali raccolte da Pitrè, ma sono piuttosto gli agili acrobati del mondo contemporaneo, i veri eroi dei tempi moderni, destinati a salvare e rinsanguare l’esausto ed estenuato vecchio continente definitivamente ripiegato nella sua inarrestabile china demografica. A guardar bene nella morfologia della storia dentro cui siamo immersi, i migranti, profughi o clandestini, sono i protagonisti non solo di nuove narrazioni ma anche di un nuovo modo di narrare, antropologicamente fondato su un positivo decentramento dello sguardo, su un radicale rovesciamento della prospettiva: non più orientata dalla terra al mare ma dal mare alla terra.

Dialoghi Mediterranei, n. 20, luglio 2016
[*] Questo testo è una versione ridotta della relazione tenuta dall’autore in occasione di un convegno scientifico svoltosi a Caltanissetta su “ Giuseppe Pitrè  e la tradizione popolare siciliana ” (20-21 maggio 2016).
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Antonino Cusumano, ha insegnato nel corso di laurea in Beni Demoetnoantropologici presso l’Università degli Studi di Palermo. La sua pubblicazione, Il ritorno infelice, edita da Sellerio nel 1976, rappresenta la prima indagine condotta in Sicilia sull’immigrazione straniera. Sullo stesso argomento ha scritto un rapporto edito dal Cresm nel 2000, Cittadini senza cittadinanza, nonché numerosi altri saggi e articoli su riviste specializzate e volumi collettanei. Ha dedicato particolare attenzione anche ai temi dell’arte popolare, della cultura materiale e della museografia.

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