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Per una rilettura del mito di Ulisse

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Ulisse, Museo archeologico di Sperlonga

di Maria Immacolata Macioti

Vorrei trattare qui di un unico viaggio di ritorno, un caso scelto come emblematico rispetto ai difficili viaggi di rientro in patria, nel luogo di origine. Partirò quindi dal mitico rientro all’isola natìa dell’eroe greco Odisseo, divenuto poi Ulisse nella trasmigrazione di questo corpus di storie leggendarie a Roma. Molto noto, questo viaggio, grazie all’Iliade per quanto riguarda i tempi precedenti, grazie all’Odissea con riguardo proprio a questo avventuroso percorso verso l’isola di Itaca di quello che è ormai un noto eroe greco. Da allora ad oggi, inoltre, il suo viaggio di ritorno è stato notoriamente, ampiamente rivisitato. Anche da importanti nomi della letteratura, come Joyce.

Oi nostoi, i ritorni. Odisseo-Ulisse

Un viaggio lungo 20 anni, quello che Ulisse, il greco Odisseo, dovrà fare per giungere da Ilio o Troia a Itaca. Una meta voluta, attesa, anticipata, perseguita con tenacia, come ci dicono tutti coloro che di Ulisse si sono interessati. Un viaggio che ha luogo tra ostacoli esterni e incertezze notevoli: cosa si troverà all’arrivo? Chi tarda il viaggio? In primo luogo, il dio Nettuno…   Chi favorisce invece il ritorno di Ulisse? Pallade Atena. Un dio, una dea: forze paritarie, si direbbe. Gli ostacoli? Essenzialmente, femminili. Ma non solo. Vediamo, a partire dalle origini del nostro eroe.

Nasce, Odisseo, da Laerte e Anticlea. Tra gli antenati da parte maschile c’è, forse, lo stesso Zeus. Dal lato materno, secondo alcune tradizioni, Ermes (un bisnonno come Ermes spiegherebbe la capacità di inganno, le astuzie di Odisseo-Ulisse) o – e di questo accennano i tragici – Sisifo.

Nasce comunque a Itaca, nel mar Ionio. Sul Monte Nerito, sembra, in una giornata di pioggia, come ricorda il suo nome [1]. Secondo altre interpretazioni, sarebbe stato Sisifo, odioso a molti, a dargli questo nome che richiama appunto questa caratteristica, l’odiosità [2]. In questa tradizione, Anticlea avrebbe partorito in un villaggio della Beozia, durante il viaggio verso Itaca intrapreso con Laerte. Di qui il nome di Alalcomene dato poi da Odisseo a un villaggio di Itaca: a ricordo della propria nascita.

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Rubens, Concilio degli dèi, 1602

Prima di Ilio (Troia)

Sappiamo da Omero della partecipazione di Odisseo a una caccia al cinghiale sul Parnaso: verrà ferito a un ginocchio; gli resterà una indelebile cicatrice, un segno che anni dopo farà sì che venga riconosciuto, individuato. Sappiamo di viaggi per conto di Laerte, di un incontro, a Lacedemone, con Ifito: è lui che gli dona un celebre arco, che anni e anni dopo lo scaltro Ulisse utilizzerà contro i Proci. Ormai adulto, il nostro eroe assume il titolo reale ed eredita i beni del padre; soprattutto, quindi, mandrie.

Ben presto Odisseo mostra capacità di adattamento e buon senso. Prova, in un primo momento, a candidarsi come marito di Elena, figlia di Tindaro. Ma ben presto si rende conto che i candidati sono parecchi, e in genere più ricchi di quanto non lo sia lui. Sposta quindi le sue mire su Penelope, una cugina di Elena, figlia di Icario. E con l’aiuto del mancato suocero Tindaro ne ottiene la mano. Come mai Tindaro lo aiuta in questa trattativa? Perché a sua volta Odisseo lo aveva aiutato a sfoltire e scegliere tra i pretendenti della figlia: tutti avrebbero dovuto infatti impegnarsi con giuramento a rispettare la scelta fatta da Elena. Non solo: avrebbero dovuto giurare di aiutare il fortunato prescelto a tenersi la moglie, in caso qualcuno avesse cercato di rapirla: un fatto non da escludere, essendo lei una nota, rara bellezza. Tindaro fa giurare i pretendenti e aiuta il giovane Odisseo ad ottenere la mano di Penelope. O forse Penelope sarebbe stata il premio vinto grazie a una gara di corsa. Certo si è che i due si sposano e nasce un bambino, Telemaco.

Poi, tutto sembra precipitare: Paride infatti ha rapito Elena, Menelao chiede agli ex pretendenti di Elena aiuto contro Paride e i suoi. Invano il giovane padre Odisseo cerca di sottrarsi: finge la pazzia, ma non può che fermarsi allorché davanti all’aratro, mentre semina sale, un certo Palamede gli mette il piccolo Telemaco. Odisseo non può che fermarsi e la finzione della pazzia risulta quindi tale. Dovrà partire, non può più esimersi. Partirà, sembra, affiancato da un consigliere inviatogli dalla madre.

Ed eccolo che accompagna Menelao a Delfi: non si può partire senza avere consultato l‘oracolo. Forse si reca anche una prima volta a Tria con Menelao, con Palamede, per cercare di sistemare pacificamente le cose. Ma dovranno ritirarsi in fretta. Ed ecco che Odisseo Ulisse cerca di far sì che la guerra abbia un buon fine: gli oracoli sono giunti, lui intende far fronte alle richieste. Cerca quindi, in primo luogo, Achille, che sembra scomparso. E per trovarlo – Teti, la madre di Achille lo aveva allontanato, cercando di distoglierlo da una guerra dove, lo sa, lui morirà – si travestirà: offrirà merce in vendita. Achille non resiste, sembra, al tintinnìo delle armi: sarà lo stesso eroe a voler partire con coloro che erano venuti alla sua ricerca.

Altre narrazioni ci dicono di un viaggio di Odisseo a Cipro, presso Cinira, sempre come ambasciatore degli Atrìdi. Un uomo quindi, efficiente, capace, curioso. Inventivo. Astuto. Basti pensare a come riesce in breve tempo a far sì che Achille si sciolga dalla situazione di salvezza che la madre gli aveva tessuto intorno. A come ha saputo diventare indispensabile agli Atrìdi.

Quali, in questa fase, i temi emergenti?  Il viaggio fatto nella speranza delle nozze con Elena, in primo luogo; l’accettazione della sconfitta, il tentativo di rendersi prezioso agli occhi del mancato suocero, con il suggerimento di un giuramento vincolante tutti i pretendenti; il tentativo poi di evitare il viaggio per la guerra. Ancora, un viaggio come tentativo per giungere a una pace concordata; e ancora, il viaggio di ricerca: ricerca dell’eroe dei greci Achille, in primis. E poi di alleati possibili per Menelao.  Molteplici viaggi, quindi. Molteplici significati del viaggio.

Lui, Odisseo, ha già rivelato importanti tratti caratteriali: giovane marito, tenero padre, farebbe il possibile per non partire. Il possibile, ma non l’impossibile. Accetta la propria sconfitta, quando gli mettono il piccolo Telemaco davanti all’aratro. Così come aveva accettato Penelope in luogo di Elena: è una persona di buon senso, capace di adattarsi. Da questo momento si impegnerà perché il viaggio verso la città lontana dove ora vive Elena, moglie di Menelao, vada nel migliore dei modi: e darà prova di grande ingegno nell’ottemperare alle richieste dell’oracolo, nel trovare Achille. Nell’indurlo a rivelarsi, nonostante le richieste, le preghiere di Teti.

Il viaggio di andata non deve aver presentato grossi problemi: i greci giungono dopo il tempo di navigazione necessario. Si sistemano. Un viaggio, questo, privo apparentemente di storia. Si ricordano semmai i preparativi; si ricorderà certamente il ritorno: per coloro che ce la faranno a ritornare. 

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Giandomenico Tiepolo, Processione del cavallo di Troia, 1773

Una volta ad Ilio

Una volta che l’assedio ha inizio, gli sforzi di tutti si concentrano sulla conquista della città che, come ben ricordiamo, resiste. Resiste alle sovrabbondanti forze greche per ben dieci lunghi, pesanti anni. Cadrà poi proprio grazie ad Ulisse, un Ulisse dal multiforme ingegno, grazie al grande ligneo cavallo da lui approntato e fatto entrare nella città nemica. Un cavallo il cui capace ventre è pieno, in realtà, di greci in armi.

Il lungo ritorno

Il viaggio di ritorno si rivela da subito più difficile del previsto. Agamennone e Menelao partono in date diverse; Ulisse segue inizialmente Menelao, senonché a Tenedo i due condottieri hanno un diverbio abbastanza forte. Tanto che Ulisse preferirà tornare indietro e decidere di seguire Agamennone. Ed ecco la seconda partenza da Troia, dietro alla flotta di Agamennone: Ulisse è il solo re greco che lo segua. Ci si mette di mezzo però il tempo: una grande tempesta si scatena, separa i condottieri. Ulisse si ritrova ad approdare in Tracia. Si tratta del paese dei Ciconi: Ulisse assale e conquista la città di Ismaro. Gli abitanti vengono uccisi. Se ne salva uno solo, Marone, per sua fortuna sacerdote di Apollo (Ulisse deve essersi ricordato quel che aveva fatto il dio in difesa di un suo sacerdote). Il re greco ripartirà con dodici orci di un buon vino che utilizzerà poi nel paese dei Ciclopi, e con sei uomini in meno per ciascuna nave: se il suo sarà un viaggio lungo e difficile, non parliamo di quel che lo stesso viaggio è stato per il suo equipaggio!

Veleggiano verso sud e tutto sembra procedere bene, già si avvista il Capo Maleo, quand’ecco che sopraggiunge un forte vento che sospinge altrove le navi. Due giorni ancora e i greci approderanno nel paese dei Lotofagi. Dove, lo ricordiamo bene, si mangia un buonissimo frutto detto loto. Finalmente l’equipaggio se ne può stare tranquillo, tutti apprezzano il cibo e il riposo. Ma non l’incontentabile, irrequieto Ulisse: che spingerà gli uomini in mare, a forza. Abbandonano così una terra amica: forse, la Tripolitania.

Le navi risalgono verso nord, incontrano un’isola. Un’isola piena di capre: finalmente del buon cibo a portata di mano, un cibo non rischioso. Ma la tappa successiva è il paese dei Ciclopi – forse, la Sicilia – dove Ulisse va avanti, in esplorazione, con dodici uomini. Ulisse, sempre prudente, ha con sé vari otri di vino, il vino che gli era stato regalato: potrà essere utile come dono propiziatorio. Esplorano il territorio, entrano in una caverna. Vi trovano formaggi e latte. Gli uomini suggeriscono di prendere questo cibo e fuggire in fretta. Ma Ulisse preferisce attendere: e il proprietario della caverna rientra. Si tratta di Polifemo, un ciclope. Ben contento di trovare del buon cibo fresco: mangerà i marinai scegliendone due per volta.  Ulisse, il sempre astuto Ulisse, gli offre il vino, e il gigante, non abituato alla bevanda alcolica, lo beve con gusto, finché si addormenta ubriaco. È il momento giusto perché Ulisse intervenga: prende un palo passato al fuoco, lo ficca nell’unico occhio del gigante. Che urla, chiama al soccorso. Accorrono in vari, si informano: cosa gli accade? Chi lo attacca? E il gigante risponde: «Nessuno», ripetendo il nome che il suo astuto aggressore gli aveva comunicato [3]. Nessuno? Se nessuno lo sta attaccando, non serve andare ad aiutarlo, si rassicurano i mancati salvatori del Ciclope. E se ne vanno. Ulisse è salvo – ma non i marinai che erano stati sgranocchiati dal Ciclope. Non solo: Ulisse non lo sa, ma il Ciclope è figlio di Poseidone, dio del mare: che non gradisce affatto quanto occorso alla sua prole. Che cercherà di vendicarsi sul suo aggressore.

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Gruppo scultoreo, Accecamento di Polifemo, Museo archeologico di Sperlonga

Ma Ulisse e i suoi – o meglio, Ulisse e i superstiti – proseguono il viaggio e raggiungono l’isola di Eolo, il dio dei venti. Un mese, resteranno in Eolia, ospiti del padrone dell’isola. Poi giunge il momento di ripartire: Eolo consegna ad Ulisse un otre chiuso, al cui interno vi sono tutti i venti meno l’unico che dovrebbe spirare e portarli dritti a casa. A questo punto gli uomini dell’equipaggio prendono l’iniziativa di aprire l’otre sperando forse di trovarci dell’oro – certo a loro da tutta questa lunga avventura non ne era giunto molto – o del vino: anche questa, un’idea allettante. Ma all’interno dell’otre, come ben sappiamo, non c’è oro, non c’è vino. Ci sono venti di tutti i tipi che si scatenano. Le navi sono ormai in balìa dei venti, delle acque, delle onde sempre più alte. Riescono a tornare, fortunosamente, da Eolo. Che però stavolta non si farà commuovere dalla richiesta di un ulteriore vento favorevole: è evidente che gli dèi – leggi Poseidone – non sono favorevoli al ritorno di Ulisse. Lui Eolo a questo punto non può fare altro.

E il viaggio riprende. Certo, con meno navi, con meno uomini.  Con minori certezze e speranze. Ed ecco il paese dei Lestrigoni  – forse, la costa vicino a quelle che oggi sono Formia e Gaeta. Stavolta l’astuto Ulisse pensa sia meglio mandare alcuni dei suoi uomini in esplorazione. Ma anche stavolta le cose volgono rapidamente al peggio: gli uomini vedono la figlia del re ma non fanno in tempo a rallegrarsene che sopraggiunge il sovrano che, come prima mossa, mangia uno dei marinai. Gli altri fuggono verso il mare, inseguiti dai Lestrigoni che ne fanno strage. Chi si salva, in questo sfacelo? Ulisse, che taglia prontamente il cavo e abbandona l’ancora. La sua nave fugge: unica e sola superstite. Ulisse rimane quindi con un’unica nave, con pochi uomini, che possiamo immaginare terribilmente spaventati. Restii rispetto a ulteriori avventure.

La nave continua il suo percorso verso il nord e giunge all’isola di Ea, dove vive la maga Circe – il Circeo di oggi. Chi è Circe? Una temibile maga figlia, sembra, del Sole e di Perseide, a sua volta figlia di Oceano o, in altre versioni, di Ecate: il che introdurrebbe da subito una nota di timore, in chi avesse la ventura di incontrarla. Passeranno mesi, forse anni, prima di una ulteriore partenza di Ulisse. Perché, cosa era accaduto nel mezzo?

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Hubert Maurer, Ulisse e Circe, 1785

Da più parti ci sono giunti racconti: metà dell’equipaggio scende a terra, va in esplorazione. Incontra Circe, che invita gli uomini a un banchetto: tutti contenti per la buona accoglienza, si siedono, mangiano e bevono. Solo uno, il capo spedizione, Euriloco, si tiene da parte, non tocca cibo. E con orrore vede i compagni trasformati in animali, ognuno a seconda delle proprie prevalenti tendenze. Orripilato, Euriloco corre ad avvertire Ulisse. Il quale erra nel bosco chiedendosi come fare quando, miracolo, giunge il dio Ermes – forse, un suo antenato – che gli porge una magica piantina detta moli. Aggiunta a bevande date da Circe, ne vanificherà i malefici. E ciò puntualmente accade. La bacchetta della maga non ha effetti su Ulisse, che la costringe a ridare forma umana ai suoi uomini e anche ai prigionieri precedenti – meno male, stavolta Ulisse si mostra generoso. O forse pensa alla sua flotta decimata, al fabbisogno di braccia? In ogni caso tutto sembra andare a posto. Anche se, certo un po’ di tempo lo perderanno ancora, poiché Ulisse dovrà consolare la maga della perdita subìta.

A seconda delle fonti, quando Ulisse lascia Ea, lascia dietro di sé forse uno, forse due o forse anche tre figli… Uno: si tratterebbe di Telegono, futuro fondatore del Tuscolo. Due: forse vi sarebbe stata anche una figlia, Cassifone. Un’altra variante parla di un altro figlio, Latino da cui poi i Latini. E gli eventuali tre figli? Romo, Anziate e Ardeate, da cui Roma, Anzio e Ardea. Impossibile saperne di più, anche perché Circe ha avuto storie non solo con Ulisse ma anche con il re latino Pico, con il dio marino Glauco, per non parlare dello stesso Giove, il greco Zeus, ben disponibile, sempre che Giunone-Era non fosse nei pressi. Dall’unione tra Circe e Zeus sarebbe nato Fauno.

Ulisse riparte, dopo un altro proficuo, inedito, incredibile viaggio: Circe l’aveva inviato a chiedere vaticini a Tiresia sul proprio rientro. Tiresia però è ormai tra i defunti: quindi Ulisse scende nell’Ade, uno dei pochissimi umani cui questo è permesso, cui soprattutto sarà consentita la riemersione. E Tiresia lo accontenta: predice che tornerà a Itaca. Ma tornerà da solo – c’era da aspettarselo. Tornerà su una nave straniera. Dovrà vendicarsi dei pretendenti. E potrà poi, finalmente, godersi una tranquilla vecchiaia? No, assolutamente! Dovrà ripartire, solo, con un remo sulle spalle, dovrà vagare alla ricerca di un popolo che non conosce la navigazione. Lì giunto, farà un sacrificio a Poseidone.

Chi sa, finirà così la faida con il dio, costata la vita di tanti uomini? Non è dato saperlo. Secondo Tiresia, Ulisse poi morirà in tarda età, lontano dal mare, felice. Un finale un po’ incongruo, conoscendo il condottiero greco. Forse Tiresia si era sbagliato o forse voleva indorare ad Ulisse la sua vera fine, chi sa? Quel che sappiamo è che dopo brevi incontri e saluti – pure con l’eroe Achille, che qui sembra un altro, che rimpiange i suoi giorni in terra né Ulisse sembra sentirsi colpevole per la fine prematura di colui che aveva indotto ad andare in guerra – Ulisse riemerge dall’Ade: anche in questo, piuttosto eccezionale, perché mentre la discesa è facile, l’ascesa, la sortita non lo sono affatto. Pochissimi, quelli che ci sono riusciti. Comunque, protetto da Circe, Ulisse sopravvive e a lei riporta quanto gli è stato detto. E lei si congeda da lui dopo averne favorito la partenza, dopo avergli dato preziosi consigli.

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Leon Auguste Belly, Ulisse e le Sirene, XIX sec.

Preziosi, perché i pericoli sono, ancora, tanti. I naviganti dovranno infatti affrontare le Rocce Vaganti. Dovranno poi passare lo stretto tra Scilla e Cariddi, a rischio di finire in mare e di essere divorati, di scomparire nel mare. E in effetti un po’ di marinai faranno proprio questa fine. Poi, come gli dèi vogliono, ecco l’isola di Trinacria, dove pascolano bianchi buoi che appartengono al Sole. Ma con la fame, come è noto, non si ragiona: i marinai uccidono i buoi e se li mangiano. Il Sole, poco comprensivo, chiede vendetta al padre degli dèi. Ed ecco che lo schema si ripete: i greci si sono da poco rimessi in mare che si scatena una tempesta. Le onde salgono, assaltano, sballottano la nave. Un fulmine colpisce l’albero. La gente muore. Chi si salverà? Il solo Ulisse, aggrappato al pennone spezzato, sballottato per vari giorni e notti. In pessime condizioni, ma lui giungerà nell’isola di Calipso, nell’isola di Ogigia.

Siamo, probabilmente, in terra oggi marocchina, a Ceuta: ancora oggi, è difficile giungervi, per i tanti che aspirerebbero a passare in terra spagnola. All’epoca Ulisse sarebbe stato accolto dalla ninfa – forse, una figlia di Atlante e di Pleione; o del Sole e di Perseide, il che ne farebbe una sorella di Circe – che evidentemente apprezza questo dono degli dèi.  Volentieri condivide con lui giorni e notti. Ci sarà stato pure, in lui, il pensiero della moglie lontana, del figlio cresciuto senza il padre: ma si tratta, in caso, di un pensiero evidentemente non esclusivo. Gli anni passano. Forse, nascono uno o più figli – servirebbe oggi, in Italia, uno come Ulisse, dato il calo delle nascite.

A un certo punto, giunge a Calipso uno sgradito messaggio: è Ermes che glielo comunica, Ermes il messaggero degli dei e in particolare di Zeus: deve lasciare andare via Ulisse. Come mai, questo messaggio di Zeus? Ha implorato il suo intervento Atena. Ulisse non è abbandonato dagli dèi amici. Calipso si dispera – pare si fosse innamorata del crudele Ulisse – ma non può opporsi agli ordini del re degli dèi. Ulisse partirà. Partirà su una zattera, con cibi e bevande.

Una versione consolidata, questa di Calipso che con dolore, a malincuore, si piega agli ordini di Zeus. Ulisse, si dice, in tutti quegli anni, in tante traversìe non aveva mai dimenticato Penelope, l’isola di Itaca, il figlio Telemaco.

Difficile crederlo, per noi che conosciamo la sua passata scaltrezza, che lo conosciamo come un uomo dalle molte risorse che ha saputo sempre cavarsela, anche di fronte a figure ben più temibili che non una ninfa gentile e innamorata. Ulisse costretto a rimanere per anni con Circe, per anni con Calipso? Forse bisognerebbe rivedere questa versione che vuole le due donne colpevoli di sequestro di persona. Credo si possa ipotizzare che si tratti di versioni anti-femminili, che assegnano un ruolo negativo alla maga, alla ninfa. Che ci danno di Ulisse una versione poco credibile: come, lui che era sopravvissuto a un destino avverso per anni e anni, che era stato determinante nello smascheramento di Achille, tanto da trascinarlo in guerra nonostante tutti gli accorgimenti materni  – e la madre era una ninfa – lui che era stato l’ideatore del cavallo e che aveva saputo farlo accettare in Troia, portando alla perdizione la città, lui noto per la sua ingegnosità e audacia non sarebbe stato in grado di fuggire ancora una volta da due donne che avevano imparato ad apprezzarlo, ad amarlo? Forse si era fermato tanto a lungo con loro perché ci si trovava bene.

Comunque ora Ulisse solca il mare sulla sua zattera. Ma Poseidone non dorme, vede colui che gli ha accecato il figlio, scatena l’ennesima tempesta. E di nuovo Ulisse è sballottato in mare, la zattera non regge. Con difficoltà giungerà, nudo e prostrato, all’Isola dei Feaci (forse, Corfù).

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J. Alfred Marioton, Ulisse e Nausica,1888

E chi lo salva, una volta ancora? Chi lo soccorre? Una giovane donna, Nausicaa figlia del re dei Feaci, che lo aiuta e ristora, che gli fornisce vesti e lo indirizza alla reggia. Che, anche lei, se ne innamora e vorrebbe sposarlo: ma Ulisse a questo punto sembra preferire il ritorno alla sua isola, al suo piccolo regno.  Alcinoo re dei Feaci e sua moglie Arete, pur dispiaciuti, acconsentono ad aiutarlo. Ulisse si imbarca quindi su una loro bella, solida nave e, finalmente tranquillo, si addormenta.

Al risveglio si trova già in Itaca, circondato da molti doni. E la nave? La nave di Alcinoo sta tornando indietro quando ecco che Poseidone – che doveva essersi distratto per un momento – vede che il greco gli è sfuggito, che la nave che lo ha portato in patria sta rientrando. Furente, il dio del mare se la prende con gli innocenti marinai – avevano solo eseguito quanto il loro re aveva comandato – e la nave viene trasformata in pietra. Né questo gli basta: la città dei Feaci verrà a sua volta circondata da una montagna: mai più sarà un porto per dei fuggitivi. La bella, accogliente città marinara è finita. Scomparsa.

Si conclude così il lungo viaggio di rientro di Ulisse, un viaggio durato venti anni.  Un viaggio che ci insegna, a mio avviso, a temere la compagnia degli uomini dal multiforme ingegno, molto scaltri, odiosi e fortunati: perché le loro sfortune sono sempre, in realtà, pronte ad abbattersi sugli altri. Muoiono i suoi uomini, tutti, dal primo all’ultimo. Lui no, lui torna a casa illeso, con molti doni, ricco di ricordi, di avventure. Ha persino ascoltato il canto delle Sirene, unico tra i mortali che l’abbia fatto e sia sopravvissuto. Anzi, quella è stata una delle poche volte in cui i suoi uomini hanno avuto la soddisfazione di legarlo e poi di stringere i nodi. Per il resto, le loro orecchie erano tappate, su suggerimento di Circe, e il loro lavoro era quello di remare velocemente e allontanarsi da lì. Comunque per loro non ci sarà ritorno.

Ulisse è tornato a casa. Se ne accorgeranno i Proci. Ne avrà gioia il giovane Telemaco, cresciuto nel mito del padre lontano. Se ne rallegrerà Penelope, che potrà mettere fine all’incubo delle minacciate nozze forzate, della spoliazione dei beni aviti spettanti a Telemaco. Una Penelope che riavrà accanto il suo sposo. Ma sarà una gioia breve, ché Ulisse ripartirà, e nulla varrà a trattenerlo. Ripartirà per un viaggio, stavolta, di ricerca e di avventura; e non farà più ritorno. Perché forzerà le Colonne d’Ercole.

Ma torniamo al viaggio di ritorno ad Itaca. Ulisse lascia dietro di sé, nel corso del suo viaggio di rientro ad Itaca, notevoli disastri: tutti i suoi compagni di viaggio, morti, chi affogati chi mangiati dal Ciclope. Lascia dietro di sé una Circe addolorata, una Calipso desolata e in lacrime, una Nausicaa delusa nei suoi sogni adolescenziali. Lascia dietro di sé in forti difficoltà la città che gli ha dato, in ultimo, rifugio, una città il cui re perde la sua nave pietrificata, vede sparire il porto che caratterizzava il suo regno, che permetteva molteplici contatti commerciali e quindi benessere. Ora no, ora intorno ci sono solo montagne. Quello che attende il re dei Feaci è l’isolamento. Probabilmente, la povertà, la perdita di benessere e prestigio.

Che insegnamenti si possono trarre dalla longeva leggenda dell’eroe greco Odisseo-Ulisse?  Che fare, se dovesse capitarci di incontrare oggi un novello Ulisse? Possibilmente, direi, sarebbe il caso di seguirne le avventure da lontano, escludendo da subito un proprio personale coinvolgimento.

Dialoghi Mediterranei, n. 44, luglio 2020
Note
[1] In quest’ottica, il suo nome sarebbe un frammento della frase: «Zeus pioveva sulla strada»
[2] V. la voce Ulisse in Pierre Grimal, Dizionario di mitologia greca e romana, Paideia Editrice, Brescia 1987 (1979). Odisseo, un nome che ricorda l’odiosità, sono odioso.
[3] Udeis, nessuno, in greco non molto lontano semanticamente da Odusseus.

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Maria Immacolata Macioti, già professore ordinario di Sociologia dei processi culturali, ha insegnato nella facoltà di Scienze politiche, sociologia, comunicazione della Sapienza di Roma. Ha diretto il master Immigrati e rifugiati e ha coordinato per vari anni il Dottorato in Teoria e ricerca sociale. È stata vicepresidente dell’Ateneo Federato delle Scienze Umane, delle Arti e dell’Ambiente. È coordinatrice scientifica della rivista “La critica sociologica” e autrice di numerosissime pubblicazioni. Tra le più recenti si segnalano: Il fascino del carisma. Alla ricerca di una spiritualità perduta (2009); L’esperienza migratoria. Immigrati e rifugiati in Italia (con E. Pugliese, nuova edizione 2010); L’Armenia, gli Armeni cento anni dopo (2015), Miti e magie delle erbe (2019).

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