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Per una colonna sonora del Mediterraneo

copertinadi Simone Casalini

C’è la sonorità moderna dell’oud interpretato da Anouar Brahem e Rabih Abou-Khalil. E quella ibrida e sperimentale di Dhafer Youssef e Kamilya Jubran che disegna nuovi itinerari di senso. C’è il rock della Casbah di Rachid Taha e Kasbah Rockers e il blues del deserto dei Tinariwen – che dialoga con le armonie tradizionali Tuareg – dei Tamikrest dove la strumentazione rock e blues si fonde con djembe e percussioni. E che dire delle variazioni contaminanti di Enzo Avitabile, delle rielaborazioni di Pino Daniele o del sound molteplice degli Almamegretta che miscelano trip hop, dub, reggae, tradizione napoletana e osservano con consapevolezza la sponda dell’altro continente, parte di un noi da riscrivere e dai confini effimeri, artificiali.

Se indaghiamo i generi dell’arte musicale, il raï e il raggae, il ma’luf e il rap, il rebetiko (greco-turco-anatolico) e il flamenco, il fado, il blues e poi la canzone napoletana «ci ritroviamo in una storia mutevole delle forme e delle innovazioni musicali tracciate contemporaneamente attraverso memorie, temporalità e affettività diverse». Mappe sonore che mettono in tensione gli accordi, creando nuove sinergie strumentali con discendenze culturali disparate e sommerse, esito di molteplici ibridazioni.

La musica può diventare racconto storico se solo ci si mette in ascolto. Se si esce dalla superficie dei suoni, immergendosi nella loro profondità per recuperarne le origini e le intersezioni. L’epilogo del viaggio non può che essere un’inattesa cartografia sonora (e storica) che sospende quelle esistenti, restituendo alla sua complessità e alle sue differenze il Mediterraneo. «Un’infinità di tracce senza…inventario» con le parole di Gramsci, un’infinita serie di storie minori e subalterne che premono sulla narrazione egemone aprendola alla contraddizione.

Iain Chambers disegna un itinerario colto e originale nel suo denso spartito Mediterraneo Blues, ripubblicato nel 2020 con un nuovo capitolo dalla casa editrice Tamu di Napoli, che si propone di aggiungere un ulteriore tassello nel processo di ridefinizione del Mediterraneo come spazio molteplice e di interferenze, sottraendolo alla ricostruzione filologica europea che lo ha annesso con il colonialismo. Se nell’opera Le molte voci del Mediterraneo (Raffaello Cortina) il teorico postcoloniale, già direttore del Centro studi postcoloniali e di genere dell’Università l’Orientale di Napoli, agiva sul piano storico-culturale per mappare le tappe dell’annessione del Mediterraneo all’Europa e far riemergere la sua eterogeneità e se il recente La questione mediterranea (con Marta Cariello, Mondadori, 2019) insiste sulle espressioni subalterne e silenziate come elementi costitutivi del ventre geopolitico in questione, in Mediterraneo blues Chambers prende in mano le trame che vibrano dagli strumenti per catapultare nella Storia i rimandi delle strade e degli spiazzi, della casbah e del mare, che si tramutano in inclinazioni popolari. E del resto, «ciò ci permette di considerare come le storie molteplici del Mediterraneo siano sospese e veicolate nei suoni».

questioneRiprendendo la polemica anti-storicista di Benjamin, che attraversa in diagonale tutto il pensiero postcoloniale, Chambers costruisce un’altra idea di «temporalità storica»; «(…) il presente non è meramente la conclusione inevitabile e causale del passato. Porre l’accento sullo stato con-temporaneo del suono, in cui presente, passato e possibili futuri sono mescolati insieme, suggerisce che i suoni eccedono la linearità irredimibile del “progresso”. Se il suono consiste nel rappresentare qualcosa – persino un “momento” precedente nel tempo – esso è soprattutto l’atto di ricordare quel passato nel presente e dunque mette in questione, e potenzialmente ridefinisce, quest’ultimo e i suoi possibili futuri» scrive Chambers. E quindi «proporre una molteplicità di storie contro l’ordine omogeneo della Storia significa disfare le premesse lineari del progresso che crede di aver già catturato il futuro».

I suoni infrangono la linearità del tempo, accompagnano nuove traiettorie e soprattutto rompono il fortino storico-concettuale di un Mediterraneo europeo. «Il blues, il jazz, l’r&b, il soul, il funk, il raggae, il rap e le loro discendenze hanno costantemente attraversato, creolizzato e destabilizzato le coordinate occidentali», rimarca l’antropologo che propone «il ricordare e il ritornello musicale come una forza radicale e dirompente». Il mondo, ascoltato nei suoi suoni e stili, rivela una serie di connessioni che uniscono luoghi e culture e che definiscono le sonorità metropolitane, esplodendole in plurime direzioni contro gli arrangiamenti musicali egemonici. «Ciò che qui emerge – precisa l’autore – è la sottile risistemazione del capitale culturale quando gli assiomi familiari, inevitabilmente legati alla presunta invariabilità di località e tradizione, sono resi instabili dal movimento culturale del transito mondiale. Ciò vale non soltanto per le tradizioni altrui del cosiddetto mondo non-occidentale e non-moderno, ma anche e sempre più per le tradizioni dell’Occidente stesso».

Se il pentagramma si è riempito di note eterogenee e difformi che indicano un progetto di Storia alternativo, polisemico, la rappresentazione del Mediterraneo è tornata concettualmente in questione con l’apparizione del moderno migrante. Le rotte coloniali sono ripercorse a ritroso, dall’Africa all’Europa, da un “ospite indesiderato” che annuncia nuovi processi planetari. E che inquieta le pagine storiche e la cultura dell’egemonia, come si è fissata negli ultimi secoli. Scrive Chambers che «il migrante spinge l’Europa e l’Occidente verso la soglia di una modernità che supera se stessa». La sua presenza ha rideterminato il Mediterraneo stesso che, nelle paure europee, ha assunto progressivamente le sembianze di un confine e di un muro presidiato militarmente, e che ha tracciato un nuovo discrimine tra legalità e illegalità, cambiando le regole in corso d’opera. Eppure questo è solo un aspetto, un tentativo di autorappresentazione. Perché «l’essenza liquida del mare può fornire criteri ontologici con i quali revisionare le nostre teorie radicate nella terraferma», il mare è storia (Walcott) e in quanto tale spinge al ripensamento delle categorie di tempo e spazio. È, attingendo dal portaconcetti foucaultiano, un contro-sito dell’eterotopia della modernità.

27573f0bc870c35072c6c0bb535c2f07_w_h_mw600_mh900_cs_cx_cyIl linguaggio che descrive il mondo è sempre suscettibile all’appropriazione da parte di mostri, schiavi, neri, donne e migranti – dagli esclusi che enunciano e pronunciano questioni trascurate, inaspettate, destituite e non autorizzate. Oggi, il Mediterraneo mitico è brutalmente vernacolarizzato nei viaggi pericolosi di uomini, donne e bambini che migrano attraverso le sue acque: Calibano ritorna come immigrato illegale, e l’isola di Prospero, a metà strada tra Napoli e Tunisi nella Tempesta di Shakespeare, diviene la Lampedusa di oggi. Questo spazio ambiguo, eterotopico, in apparenza ingovernabile, è ciò che l’implacabile conservatorismo di Carl Schmitt ha cercato di descrivere in Terra e mare, nel 1942. Con la sua comprensione tagliente dell’ordine economico, politico e legale del colonialismo e dell’imperialismo europei, Schmitt anticipò la dimensione planetaria dei processi storici della globalizzazione. Nell’esaminare i campi di forza del potere terrestre e del potere marino nettamente in contrasto nella formazione del mondo moderno, egli ha sostenuto in maniera incisiva che il viaggio per mare e le traversate oceaniche hanno condotto a una comprensione radicalmente nuova dello spazio planetario. Il nomos di Schmitt e la tradizione dello ius publicum Europaeum, secondo il quale non vi è legge senza uno status terrestre, considerano il mare un luogo tendenzialmente senza legge: sede di forze insubordinate e interruzione potenziale della narrazione europea.

Il migrante, con il suo bagaglio storico e culturale, ci riconduce anche ad un altro tema liminare, o meglio ad un altro crinale divisivo. È quello tra Nord e Sud del mondo dove nel primo campo il progresso è un cinematografo sempre in azione che produce “modernità” e “futuro” mentre il Sud, come ricorda Dipesh Chakrabarty, rimane un posto inadeguato segnato da mancanze e assenze. Edward Said – osserva l’autore – ci ricorda tuttavia che questo doppio binario non è reale, ma una geografia del potere che ha ricevuto la sua alimentazione dal colonialismo e dalle relazioni impari che sono state fissate in tutti i tempi. «Dopotutto, la democrazia e la cittadinanza che rivendichiamo in Occidente dipendono pienamente – sia nelle strutture economiche che nei tessuti culturali – dalla subordinazione e dalla esclusione dei corpi e delle storie di coloro che abitavano il mondo coloniale e che ora vivono nella postcolonia» annota Chambers.

La libertà dell’Occidente si è diramata lungo la “non-libertà” (schiavismo, colonialismo, genocidi) degli altri popoli e culture, determinando un cortocircuito sul piano giuridico, l’aporia dello stato di diritto occidentale che rivela «solo i poteri arbitrari e unilaterali di una volontà sovrana di origine europea sul pianeta». Ma appunto, tornando all’ascolto di un’ipotetica colonna sonora del mondo o sezionando con la sguardo le città dell’Occidente, si possono osservare processi costituenti alternativi: «Le diaspore caraibiche, africane e asiatiche che fanno rete in Europa sottolineano ulteriormente che altre versioni della vita pubblica e della modernità sono all’opera». Le incarnano, in particolare, le tante espressioni musicali di italiane e italiani di discendenza africana o araba (Amir Issaa, Mahmood, Tommy Kuti, Karima 2G e Djarah Kan) che raccontano un’altra società.

9788883537011_0_0_626_75L’ultima distorsione rappresentativa l’Occidente l’ha generata sulle primavere arabe. In particolare, Chambers registra un tentativo di disconoscimento della natura rivoluzionaria dei movimenti che hanno, con registri differenti, interessato Tunisia, Egitto, Algeria, Marocco e Libano. Un modo per conservare l’egemonia concettuale occidentale con il risultato che «la colonizzazione si è raddoppiata: sia in termini del verdetto occidentale sul fallimento della primavera araba, sia nel continuare a fornire un punto di riferimento storico e politico apparentemente unico: quello occidentale». Le ribellioni per le strade e le piazze non hanno investito solo i despoti poi deposti (Mubarak in Egitto), ammainati (Bouteflika in Algeria) o costretti alla fuga (Ben Ali in Tunisia), ma avevano nel mirino anche le politiche occidentali e le manifestazione del potere planetario (Fondo monetario internazionale e Banca mondiale) che impongono le loro riforme liberiste – in cambio di sostegni economico-finanziari – qui come altrove. In tutto ciò Chambers scorge anche «una congiuntura caratterizzata dalla continua guerra coloniale (Palestina, Iraq, Afghanistan, Libia, Siria, Mali…) che cerca di sostenere il dominio globale del neoliberismo come discorso pubblico» che si propone, attraverso istituzioni e think thank di produrre il «senso comune politico».

Chambers invita allora a riequilibrare l’osservazione della retrospettiva e della prospettiva sul mondo: «Dobbiamo superare la divisione coloniale del mondo che ha preso in considerazione solo l’Europa in Africa e mai il ruolo costitutivo dell’Africa in Europa». Le intersezioni, le interferenze e le ibridazioni diventano crocevia essenziale della costituzione di una nuova rappresentazione.

E sono iconograficamente condensate nelle opere di Yinka Shonibare MBE (membro dell’impero britannico) che ha immerso i velieri imperiali nei drappi dell’africanità, cambiando completamente il significato del passato e la narrazione del presente. Ed è in queste interferenze, che sollecitano nuove culture e sfondano i perimetri delle identità, che Chambers si muove nei suoi itinerari politico-intellettuali per restituire al Mediterraneo la sua verità storica e contemporanea. Uno sforzo che il pensatore postcoloniale colloca a più livelli e a cui, con questo testo, attribuisce ora una colonna sonora, aperta e mutevole come si addice alla complessità del Mediterraneo. 

Dialoghi Mediterranei, n. 49, maggio 2021
Riferimenti bobliografici
Walter Benjamin, Angelus Novus, Einaudi, Torino, 1995.
Iain Chambers, Le molti voci del Mediterraneo, Raffaello Cortina, Milano, 2007.
Iain Chambers, Mediterraneo Blues, Tamu, Napoli, 2020.
Marta Cariello, Iain Chambers, La questione mediterranea, Mondadori, Milano, 2019.
Dipesh Chakrabarty, Provincializzare l’Europa, Meltemi, Milano, 2016.
Michel Foucault, Utopie Eterotopie, Cronopio, Napoli, 2006.
Paul Gilroy, The Black Atlantic, Meltemi, Milano, 2019.
Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, Einaudi, Torino, 2014.
Edward Said, Covering Islam. Come i media e gli esperti determinano la nostra visione del mondo, Transeuropa, Massa, 2012.
Carl Schmitt, Terra e mare. Una riflessione sulla storia del mondo, Adelphi, Milano, 2002.
Derek Walcott, Mappa del nuovo mondo, Adelphi, Milano, 1992.

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Simone Casalini, giornalista professionista, è caporedattore del Corriere del Trentino-Corriere della Sera e collabora con alcune riviste di politica internazionale (Eastwest e Dialoghi mediterranei), curando in particolare l’evoluzione sociopolitica della Tunisia e il tema delle migrazioni. È anche docente a contratto all’università di Trento. Si è laureato in Scienze politiche all’Università di Urbino. Ha pubblicato Intervista al Novecento (Egon, 2010) in cui attraverso la voce di otto intellettuali – tra i quali Sergio Fabbrini, Toni Negri, Franco Rella e Gian Enrico Rusconi – ha analizzato l’eredità del secolo breve e Lo spazio ibrido. Culture, frontiere e società in transizione (Meltemi, 2019). È coautore del libro collettivo La Trento che vorrei (Helvetia, 2019) e del documentario sulla primavera araba tunisina: Tunisia, nove anni dopo. La rivoluzione sospesa (https://vimeo.com/395279730; 2020, con Roberto Ceccarelli).

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