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Oriente e Occidente come retropensiero. Rivisitando Siena

incontri-fra-oriente-e-occidentedi Franca Bellucci 

Primavera e Pasqua precoci, quest’anno, hanno fatto accavallare i diversi appuntamenti dedicati al mio gruppo di familiari e intimi. Ho dunque proceduto a semplificare nel diario gli impegni, riducendoli nel numero e nelle implicazioni. Ciononostante, con disappunto, ho constatato che la semplificazione non era abbastanza efficace, che non guadagnavo tempo come desideravo. Ho infine convenuto: non avveniva solo per limiti di agilità, ma c’era un rumore di fondo, nella tensione dovuta alle guerre vicine, che frenava lo scorrimento dei punti segnati. Quel rumore è tutt’oggi il sottofondo: anche se nei giornali i corrispondenti riferiscono, lo scenario è un mero schermo, un artificio. Esso sorvola su ogni quesito che la vita ha insegnato fondamentale, il che corrode gli apprendimenti di civiltà e socievolezza desunti dalla vita, dall’esperienza, dallo studio. Il significato stesso della festa, che è una riflessione sul mondo, dava risalto all’artificio dell’informativa.

Al di là dei brevi comunicati restavano le “perdite” di militari e civili: le richieste dei circoli sulla scena ucraina, gli incidenti mortali occorsi ai civili gazawi. In particolare, la rappresaglia nel territorio di Gaza dopo l’orrendo massacro che le milizie di Hamas operarono il 7 ottobre dello scorso anno nel sud del Paese, era senza fine e senza limiti, così come acquisiva evidenza, negli accampamenti creati per gli sfollati, il disagio totale, quanto a rifornimenti e cure. La tragedia umana.

Tanto più, dunque, ho ravvisato che la festa, per il suo senso di presidio, doveva esserci. Essendo mia incombenza, ho proceduto a semplificare i miei appuntamenti. Non volevo dare rilievo a quanto poteva distrarmi dall’intimità: il primo posto riguardava il desiderio di ritrovare familiari e tradizioni, come se, nell’esperienza dell’intimità, potessi meglio ritrovare il filo dell’umanità. Intanto, era da sospendere ogni argomento di distrazione: al di là della festa, nel ritorno della confusa quotidianità, c’era spazio per il gusto personale. Magari per un’escursione con cui ritemprarmi: in una situazione che fosse insieme contenuta e intensa. Non avevo considerato che l’intimità a sua volta dà impulso all’esperienza, in un contagio di reciprocità. Anche nello spazio residuale che lasciavo ai contatti di routine la postura cambiava.

Con questo proposito, ho anche scorso rapidamente, senza dare rilievo, agli appuntamenti da evidenziare nella posta. Subito accantonata, dunque l’occasione teatrale in una città lontana di cui avvertiva, nella mailing list giuntami dalla Associazione storica di cui faccio parte, una intellettuale indipendente, ma non di rado pronta all’interlocuzione. Inevitabilmente però mi richiamava memorie. Giornalista di importanti quotidiani, con proprie rubriche, in quanto attiva sul tema dell’agency femminile espone con un suo peculiare punto di vista: partecipa incontri random in dialettica con l’Associazione, il cui metodo però è diverso, fondato sui documenti e sul contesto. Le associazioni dei ricordi, inevitabilmente, presero il sopravvento. In altri momenti, ricordai, l’incursione aveva provocato dibattiti accesi tra le associate. Focalizzai, forse due anni fa, un circuito di interventi, intorno alla presentazione, da parte della giornalista, di una promettente giovane economista intervistata: impegnata, nella vita e nella ricerca, sulla condizione femminile, allora invitava a allargare l’ottica, consolidando rapporti con ricercatrici di altri Paesi. «La giovane economista citava forse l’India?». Ricordavo di aver accantonato un appunto, nella mia rubrica “Pagine sospese”. Sì, nella cartella corrispondente l’appunto c’era, con il nome della giovane economista proposta all’attenzione. “Giuliana Freschi”, avevo scritto, e a una rapida verifica i riscontri c’erano stati. L’appunto residuale sembrerebbe frammento di quella intervista: 

«Lavorare ha mai rappresentato un processo di emancipazione femminile? Vorrei poter rispondere a queste domande. Una mia collega ad Oxford studia la storia delle donne nelle miniere indiane tra gli anni Venti e Quaranta. Quando ha iniziato a frequentare gli archivi in India alla ricerca di fonti che testimoniassero il passaggio di minatrici – quasi sempre analfabete – è stata molto scoraggiata. Scoraggiata da archivisti e accademici che le dicevano che non avrebbe mai trovato nulla, che gli archivi non parlano di donne. Lei, invece, ha trovato. Ha trovato indagini parlamentari del governo coloniale, report dell’ispettore capo delle miniere in India, testimonianze fotografiche, canzoni. Gli archivi nascondono, ma scavando si ricostruisce». 

Mi riaffiorò l’excursus cui avevo dato seguito. Donne indiane nelle miniere? Era, quella, la regione indiana estesa, anteriore alla suddivisione in Stati e comunità attuali, beninteso. Avevo un po’ cercato con gli abituali motori di ricerca, senza trovare riscontri di quelle figure, e avevo accantonato: non volevo procedere in fraintendimenti. La lettura ritrovata, invece, mi ha turbato: delle minatrici, mi riaffiorava, non avevo trovato, in articoli che classificavano la regione indiana come eminentemente agricola. Non avevo trovato affatto l’argomento proposto. Ma mi ero affacciata su scenari apocalittici, negli anni dei conflitti mondiali, dove i piani dei conduttori delle guerre erano del tutto indifferenti alle condizioni di vita delle masse, se non per le flessioni e i contagi che potevano incidere su di loro. Nell’angoscia dell’attualità constatavo come ricorrono argomenti gravi, fuori della portata media. Argomenti insondabili, eppure motivatamente conservati nel “rumore di fondo” della mente.

«Oriente e Occidente»: questo era l’inquadramento in cui la studiosa collocava il tema delle ricerche in cooperazione. Ne coglievo l’attualità, nelle cronache del momento, nelle tensioni che si evidenziavano all’ONU. Le due parole, riflettevo, sono ora avulse dalla prima matrice culturale, riferita a uno spazio di breve raggio, da organizzare secondo l’osservazione del sole. Oggi ha successo la parola “globalizzazione”: ma è in corso una pluralità di tensioni, per me insondabile, che comunque tende a risemantizzare queste parole.

Un nuovo appunto, pur nella fretta, era ora necessario: con la minuscola, intanto, come “oriente” e “occidente”.  Nel proposito di adempiere all’accudimento della piccola cerchia, non avevo ripreso ricerche sull’argomento. Ma dal “rumore di fondo” era scattato un turbamento del tutto attuale. Celebrata la festa, la ripresa delle attività ha avviato tutti alle proprie strade. Venuto il tempo dell’escursione desiderata, ho deciso per Siena, nel “capodanno senese”.

Siena, santa Maria della Scala, Ss. Annunziata, altare

Siena, santa Maria della Scala, Ss. Annunziata, altare

Quest’anno la data è caduto l’8 aprile, anziché l’abituale 25 marzo, il giorno cioè che, con l’Annunciazione, è vissuto come rinascita dell’“umanità”. Le feste discese dalle antiche tradizioni hanno loro date – deve esserci chi ha competenza e autorità su questo –, così da non incrociare le feste generali. È un uso che fu lungo e esteso, questo, di ordinare il tempo a partire da questa data: gli storici medievisti sanno calcolarlo.

Il “rumore di fondo”, l’attuale incertezza sull’evoluzione del riferimento “oriente – occidente”, ha condizionato la scelta della breve iniziativa. La meta è stata, a Siena, uno spazio, che ancora non avevo visitato, la Chiesa della Santissima Annunziata entro il complesso Santa Maria della Scala, in particolare per osservare, nell’abside, un’opera a tema evangelico, segnalato come Matteo Borchia sul valido portale «OpenEdition»: in Nuove riflessioni sul rapporto tra Sebastiano Conca e il Portogallo

Più che l’interesse specificamente artistico, mi ha stimolato lo stato d’animo soggettivo: nelle pagine di facile reperibilità le notizie mi sono apparse di taglio diverso, così che risultano profili tra loro estranei per l’autore, vissuto tra il 1680 e il 1764. Nell’articolo di wikipedia egli risulta un provinciale, vissuto in uno spazio esclusivamente italiano. Per converso, gli studiosi d’arte disegnano un profilo europeo: Mario Epifani, Direttore di istituzioni artistiche, ne studia committenze in Spagna e Francia, Matteo Borchia, stesso profilo di Epifani, lo studia in Portogallo. Il pittore aveva anche fondato una rinomata scuola di nudo, influenzando artisti tra XVIII e XIX secolo. «Quasi anticipando la cultura neoclassica su cui doveva aver meditato il giovane Napoleone, quando si formava – mi ero detta – e, chissà, forse un dialogo di culture nazionali, che invece Napoleone aveva trasformato in scontro». Ma era appropriato inserire Napoleone nella riflessione sul piano dell’arte? Avrei forse dovuto sostituire un richiamo al Neoclassicismo. Ma mi intrigavo scivolando sulla mia incompetenza d’arte, mentre il pensiero transitava sulla liberazione della Grecia, che, programmata nel riassetto diplomatico europeo post-Napoleone, questa volta vedendo l’alleanza Francia – Inghilterra, aveva subito sostituito al Neoclassicismo la corrente detta “Orientalismo”. Il che mi riportava all’oggi, alla denuncia – disvelamento di Edward Said nel saggio del 1978, riguardo all’arbitrarietà e doppiezza dello sguardo con cui le potenze operatrici e vincitrici nelle guerre mondiali guardavano il mondo, di fatto con mira colonialista.  

bec_capa_30-small480Avevo raccolto rapidi appunti. In particolare mi aveva interessato uno studio di Matteo Borchia sul valido portale «OpenEdition»: in Nuove riflessioni sul rapporto tra Sebastiano Conca e il Portogallo, il critico riferisce di opere su committenza del re Giovanni V a Lisbona, andate distrutte nel catastrofico terremoto del 1755. La visibilità perduta è motivo sufficiente per descrivere come provinciale un artista internazionale? Quel terremoto, accompagnato dal maremoto, fu un evento catastrofico, per Lisbona, per l’impero portoghese e non solo: molti intellettuali, a partire da Voltaire e da Kant, cambiarono la prospettiva della loro interpretazione del mondo. Si cita largamente la capriola filosofica: ma dell’“impero portoghese”, non c’è nulla da dire? È pur subentrato quello inglese: un automatismo? Senza implicazioni di condizioni di vita, di presìdi di civiltà, di disposizioni sulle comunità umane? Davvero vige il minimalismo nello studio della storia, tanto più quanto più si allarga la distanza da chi inserisce la lettura tra i diversivi edonistici del suo quotidiano, che ha altrove il baricentro.

Erano balenate, improvvise, facendo leva su nomi portoghesi-siciliani che ora ricordavo, schegge di ricordi da una visita a Lisbona, tanti anni prima: Loreto, Alcantara, presso Lisbona, come Oreto, Alcantara in Sicilia. Quale tracciato storico aveva la combinazione? «Davvero vivo in tempi oscuri», mi ero detta, echeggiando Bertolt Brecht. E dunque, sì: bene aprire una fase di sospensione sul tema “oriente – occidente”: anche riprendendo le peregrinazioni culturali, come mera testimonianza, nella consapevolezza delle forze in declino. Tanto più ricordare quell’evento rileva – e è questo che io stessa avverto – come sia artificioso pensare alla storia come a uno scorrimento regolare del tempo, e azzardato coprire con una narrazione rassicurante l’ignoranza sulla varietà del mondo.

piscina probatica, Parti.

La cappella della piscina probatica, Part.

La visita, nel capodanno senese, è stata una valida scelta. La cappella della Piscina Probatica – episodio tratto dal Vangelo di Giovanni (Gv 5, 1-17), secondo il quale la piscina era situata alle porte di Gerusalemme – è interna al grande complesso del Santa Maria della Scala, esteso su sette livelli, sfruttando lo scoscendimento naturale del poggio su cui Siena è costruita. L’edificio fu costruito come sosta e cura dei pellegrini dal XII secolo, e è stato l’ospedale di Siena fino agli anni sessanta del secolo scorso. L’aspetto austero non impedisce all’interno varietà di architetture e ricchezza di opere, con una forte impronta d’arte, definitasi in particolare dalla fine del XIII secolo al Pre-rinascimento del XV, arricchitasi anche successivamente di ulteriori, ben calibrate opere.

È addirittura scenografia di opere d’arte, internamente, la chiesa della Santissima Annunziata, e in particolare il catino absidale che dispiega l’affresco del Conca. L’altare in marmo fu situato dietro al Cristo risorto in bronzo, che il Vecchietta, ispiratosi alla scultura di Donatello, aveva realizzato a fine Quattrocento. Dialoga con il bronzo, tramite il fascio di luce direzionato, l’affresco del catino absidale, eseguito negli anni Trenta del Settecento. La Piscina Probatica, nell’illusione prospettica, sembra avvolgere il Cristo in bronzo, antistante e quasi ombra per la figura luminosa affrescata che, con il gesto largo, enfatizzato dallo spazio intorno, opera il miracolo sul paralitico, contrapposto a distanza al gruppo dei supplicanti. 

“Oriente – occidente” era formula che pure mi era risuonata, mentre osservavo l’impostazione scenica dell’affresco. Predominava, però, l’“occidente”, in continuità con quel Rinascimento italiano che nelle forme rinascimentali delle arti figurative aveva consegnato il sapere archeologico alla cifra artistica della Fabbrica di San Pietro, nella perfetta fusione delle angosce: la memoria di Michelangelo infatti era saldata all’opera di Conca, secondo gli opuscoli.

Mi aveva poi accompagnato, quella formula, ritornando alla grande piazza senese, sulla sommità del colle, che si prospetta tra i due grandi complessi, il Duomo da una parte, e dall’altra l’esteso monumento, già ospedale, del Santa Maria della Scala, con una suggestione personale ora profonda. Nella scenografia creata dai due monumenti, consideravo, ogni elemento decorativo, è in realtà paragrafo di un inno corale a Maria, una dimostrazione di fervore lunghissimo nel tempo. 

Reinterpretavo però la formula, con un accento evidente su “occidente”, comunque in una sintesi che a Siena è venuta da molto lontano: implica infatti il rapporto antico e saldo con Roma, in tutte le accezioni storiche che il nome evoca. Il fulcro nel pellegrinaggio, qui salda esperienza, apre due bracci, quello verso occidente, fino a Saint Malo, quello a oriente, fino a Gerusalemme, la città-meta del pellegrinaggio stesso: che per Siena, però, ha sempre avuto l’equivalente perfetto in Roma. Riguardavo la designazione, nonché rappresentazione, della “scala”. Essa può essersi fusa anche con simboli precristiani, se il tracciato della “Via Romea Francigena”, che originò l’albergo di sosta e cura dei pellegrini, risale al Tardo Antico: un testo che deve aver accolto interpretazioni umane e cosmiche diverse, eppure reinterpretate in continuità, con reindirizzi. La scala coincideva certo con la speranza, e il successo della speranza per gli “umani miti e fidenti” – i pauperes, nel latino che fu del circolo di Mecenate, di Tibullo come di Orazio prima che dei Padri della Chiesa: da cui, dopo, i “pellegrini” –, combaciando infine con la riflessione interpretativa e artistica condotta dai responsabili dell’Opera, esperti di Sacre Scritture.

È comunque, questa scala rastremata, il particolare segno senese. Interpretato come operatività civile efficace, questo segno dà forte impronta a luoghi diversi della Toscana, superando ogni campanilismo, ogni rancore: si veda via della Scala, in Firenze, che nel tempo ha conservato strutture di aiuto per i fanciulli, ora ospitando l’Istituto Penale per Minori Gian Paolo Meucci; o si veda la località La Scala, alle falde della città di San Miniato, pure anticamente ospedale e ora presidio diurno per la salute mentale di adolescenti.

Santa Maria della Scala, Madonna di Misericordia, di Domenico di Bartolo

Santa Maria della Scala, Madonna di Misericordia, di Domenico di Bartolo

La “scala” emblema dell’ospedale senese ha evocato, nei passaggi di civiltà secolari, un richiamo di aiuto tenace alla vita. Che si integrasse nel culto cristiano, dopo averlo anticipato, identificandosi con “Maria”, è una particolarità di questo luogo, che, a fine XIII secolo, si segnalò in una pagina di nuova religiosità, con un’arte, la cui forza dà suggestioni ancora oggi. Ancora i visitatori qui percepiscono Maria come intenso soggetto, specifico nella congerie delle tradizioni bibliche: è la risorsa riconosciuta da chi è nella sofferenza, avvertita come partecipe. Maria, meta attesa dalla profezia per introdurre nella via umana il Salvatore, è diventata un segno distintivo del Nuovo Testamento, una differenza rispetto alla ricezione biblica ebraica. In particolare nella devozione che condusse al progetto del colle senese essa era la vegliante, non solo sul riscatto dalla “caduta del peccato originale”, ma sulla sollecitudine verso gli altri, sulla disponibilità a considerarsi in reciprocità, sulla necessità, insomma, di relazioni umane che sfidano gli ostacoli: che poi il Cristo avrebbe sigillato con la dottrina e la morte.

9788883478260_0_500_0_0Al tempo in cui si definì la progettazione, la meditazione su Maria ne potenziò il culto, in particolare proponendo l’iconografia di patrona delle opere di misericordia, una relazione a cui richiama la studiosa d’arte Marilena Caciorgna (2015: 23-30),  che si propagò in modo abbastanza esteso nell’Italia: la collettività cittadina assunse rilievo, organizzata in arti, raffigurandosi come pluralità di soggetti protetti dal manto della Madonna. È in questi stessi anni che Dante, attraverso la visione di San Bernardo, cantava la presenza attiva, soccorritrice, della “Vergine Madre”, misericordiosa e generosa, la cui “benignità” molte volte «al dimandar precorre» (Dante, Commedia, Paradiso, XXXIII, 18).  Del rinnovamento erano stati segno e parte il formarsi degli ordini mendicanti, ma una meditazione ampia, religiosa e civile insieme, si diffondeva anche, e in profondità, nella popolazione attiva delle città comunali.

Entro queste considerazioni, allora, rilevavo anche l’importante differenza: la centralità della donna presso alcuni grandi intellettuali di fine XIII secolo – di cui erano testimonianza le citazioni che mi affioravano – mi risultavano segmentate. Le donne erano pressoché assenti nella Piscina Probatica di Conca: edificio che era strumento per pastori, la pittura rappresentava una umanità al maschile, a prescindere da ombre di donne sfumate dietro al paralitico, come sue assistenti. Del resto il Cristo risorto del Vecchietta, non completandosi con le donne del Noli me tangere, episodio che introduce profondamente le donne nel Nuovo Testamento, ricorda piuttosto il Gesù verticale tipico del “Battesimo nel Giordano”. Era, il bistrattato pittore Sebastiano Conca, testimone del Neoclassicismo o abbracciava piuttosto un Illuminismo che rifondava il Diritto sulla relazione asimmetrica uomo-donna?

La temperie diffusa di rinnovamento cultuale e culturale, che aveva preso l’avvio alla fine del XIII secolo, era sfumata in un percorso complesso ma riconoscibile, nell’Umanesimo e nel Rinascimento: essendo forse Caterina di Siena, con Brigida di Svezia che pure si erano incontrate a Roma a fine XIV secolo, e con Christine de Pizan e Giovanna d’Arco, nella “Francia” – nome e stato allora in formazione – nel XV secolo, le ultime grandi figure della cultura fiorita a fine XIII secolo. Nella Siena fervente e operosa di quella temperie la forza innovatrice del momento culturale induce a cogliere come la coerenza dei complessi in affaccio sulla piazza, in cui si alleano architettura e decorazione, rinsaldasse la convinzione dei pellegrini, di sentirsi accompagnati, nella meditazione sulla vicenda, sul mistero anzi, del Cristo attraversato dalla “cultura misericorde”.

Siena, Museo delle Tavolette di biccherna

Siena, Museo delle Tavolette di Biccherna

La società senese è stata buona interprete di entrambi i progetti: avendo il pellegrinaggio come tema il cammino verso Gerusalemme, Roma, in quanto figura di quel luogo, è qui interpretata come meta, ovvero come tappa, per poi indirizzarsi a uno dei porti verso l’Oriente. Gli archivi di Siena hanno tracce precise di questa doppia possibilità offerta ai pellegrini, conservando anche il riferimento all’Oriente: se da una parte la principale magistratura di Siena, attestata dal XII al XVIII secolo, è la “Biccherna”, parola che adatta Blachernai, uno dei palazzi imperiali di Costantinopoli destinato al tesoro imperiale, dall’altra ricordiamo il papa senese Pio II, cioè Enea Silvio Piccolomini, che fu colto dalla morte, nel 1464, mentre bandiva la crociata che avrebbe dovuto recuperare Costantinopoli, appena divenuta conquista e capitale dei Turchi.

L’evento giustificò di avvertire uno strappo, una frontiera nelle relazioni dell’ambito mediterraneo, enfatizzando nelle parole “oriente” e “occidente” un’opposizione culturale, uscendo dall’ambito meramente astronomico riferito al percorso diurno del sole, su cui si basa lo scorrere dei giorni e degli anni. Le due parole hanno fissato significati invalsi nella storia culturale o della mentalità, via via, a seconda delle circostanze, caricandosi di nuovi spunti polemici, comunque con un pretenzioso intento di fornire dati caratterizzanti rispetto a collettività, di dubbia identificazione e consistenza. Pure già sopra ho scritto “Oriente” con la maiuscola, come fosse il sostantivo adatto a un preciso territorio: in riferimento a un tempo precedente, essendo in vigore l’imperatore residente a Costantinopoli, affiancato per l’aspetto religioso dal patriarca. Questo modello continuava la riforma dell’imperatore Costantino, dopo il 324: è lo stesso che tiene presente ancora oggi il Regno Unito, il cui vertice è un sovrano che anche è capo religioso, entro la chiesa, o piuttosto la cultura, anglicana. 

La parte occidentale del Mediterraneo praticava una separazione importante tra autorità religiosa, rappresentata dal papa, e l’autorità civile, non altrettanto fissa: già tendenzialmente autonoma, dal tempo della Scuola di diritto bolognese dell’XI-XII secolo, ma anche soggetta a tensioni e patteggiamenti. Nel tempo che è testimoniato a Siena, riferendosi all’allestimento del cantiere della cattedrale, era notevole lo sviluppo dei commerci entro l’organizzazione dei “comuni”, con una buona rete di studi giuridici e religiosi: era comunque una realtà parcellizzata, con frequenti episodi bellici tra territori contigui.

Siena, Complesso monumentale Duomo e Santa Maria della Scala

Siena, Complesso monumentale Duomo e Santa Maria della Scala

Conviene, per definire sia il contenuto, sia la forma opportuna ricorrendo ai due termini imprestati dall’astronomia, seguire l’articolo dell’Enciclopedia Treccani: è assegnata la minuscola, “scisma d’oriente”, alla separazione religiosa operata nel 1054 da Michele Cerulario. Stessa forma anche per lo “scisma d’occidente”, che dal 1378 al 1417 registrò la spaccatura interna al papato, con due comunità cardinalizie, fino alla ricomposizione con papa Martino V, ovvero Oddone Colonna. Invece è assegnata la maiuscola a “Oriente” per la distinzione avvenuta dopo la morte di Teodosio (395) e durata sino alla deposizione di Romolo Augustolo (476). Nell’articolo si avverte però che, per segnalare l’insieme di popoli, delle culture, in epoche che abbiano avvertito o avvertano due civiltà in opposizione, pur contigue, è opportuno ricorrere alla maiuscola. Dunque il significato varia, «secondo le diverse epoche storiche».  

Il territorio dell’Oriente era una struttura che si era ridotta nel tempo: l’avevano indebolita gli urti con le formazioni musulmane dal VII secolo, poi le spedizioni in armi, o crociate, tra XI e XIII secolo, dei cristiani d’occidente, che avevano fatto assalti diretti e provocato smembramenti, in quella esperienza variegata di potentati armati che sintetizziamo come “Impero latino d’Oriente”, tra il 1204 e il 1261. Intanto era percorso da nuovi fermenti anche l’“Occidente”, con la maiuscola: a tale spazio si potrebbe estendere l’allegoria della «nave sanza nocchiero in gran tempesta», che Dante riferisce all’Italia. Pure, se il poeta e diplomatico biasimava le faziosità con cui veniva esercitato il potere laico, fu instancabile l’impegno culturale: e è consono interpretare questa attività come prospettiva che egli assegnava a lingua e cultura, per la partecipazione collettiva e morale.

Egli fu auctor nel dare dignità di lingua al “volgare”, idealmente normato a partire dalle varietà dei parlari. L’uso del latino continuò a caratterizzare alcuni ambiti colti, in particolare quello del Diritto e dello studio teologico. L’“Occidente” era insomma un circuito di territori variamente condotti e organizzati, come erano di scarsa sicurezza le rotte dei mari, con mobilità marcata di esiti. Se osserviamo gli spazi in cui Boccaccio ambienta le sue novelle, non mancano riconoscimenti incrociati tra esperienze culturali diverse: viene subito a mente il “Garbo”, la regione verso la quale la principessa Alatiel (Decameron, II 7), movendosi dall’Egitto, per altro con agguati di ogni tipo, naviga per sposare il re di quel dominio. La parola vale per “occidente”, nell’arabo noto allo scrittore: oggi “Maghreb”, in una designazione un po’ modificata ma riconoscibile.

Simbolo, Santa Maria della Scala

Simbolo, Santa Maria della Scala

“Occidente”: rifletto come facilmente, pensando e designando lo spazio, mi adatto a raggi piccoli, attribuendo senso in relazione a un’esperienza personale, limitata. Per questo mi è venuto spontaneo, dedicandomi alle incombenze familiari del tempo pasquale, sospendere le considerazioni sul trattamento riserbato alle popolazioni dell’area indiana, sapendomi priva di riferimenti e di esperienza. Ma sospendere, lasciare un argomento impregiudicato, vale anche uscire da ogni attesa, in particolare, di benevolenza. Constato come, negli anni attuali in cui i disaccordi volgono subito in conflitti distruttivi, “Occidente”, come “Oriente” – e vale ricordare Said – sono diventate parole in bilico. Caricatesi rapidamente di tensioni e contraddizioni, non è detto che possano appellarsi a consuetudini. Come conferma l’esperienza dei conflitti, l’informazione e la decisione sono appannaggio di chi ha la potenza relativa, mentre le popolazioni sono esautorate. Senza informazione, è avventura pronunciarsi su un termine, sulla sua prospettiva.

Il tema dei confini, saldato alla storia umana, non è così esplorato come sarebbe desiderabile: è infatti collegato allo spazio, alle risorse, alle strategie in atto per sopravvivere, quindi all’alimentazione ma anche all’approvvigionamento, alla concorrenza e al dominio delle risorse, in ordine all’informativa anche scientifica. La delimitazione dello spazio per gruppi umani implica socievolezza, codici, legami, parole, cadenze; inoltre tempi, forse ossessioni, certo ritmi. Una ricerca accurata dovrebbe sapere molto di ambiente, di risorse, perfino di contagi: essere pluridisciplinare. Non è così che ci si dedica alla “storia”, come disciplina attuale. È frequente, invece, che l’ultimo significato, grato al potentato di turno, sostituisca la ricerca, e quindi la storia. Mi pare valida la riflessione sulla “delimitazione”, nel lemma latino “limes”, proposta dall’Enciclopedia Treccani. Ne è autore lo storico e archeologo austriaco Wilhelm Kubitschek (vissuto tra il 1858 e il 1936), che mostra competenza sicura, nell’ambito antico, sul territorio romanizzato nei diversi periodi, ma anche sui confini come intesi e tracciati nella sua epoca: 

«Il limes – dice lo storico – non è una linea ideale indicata da pochi termini posti a distanza fra loro, o nei punti di transito, come normalmente si segna oggi un confine fra Stato e Stato, ma è essenzialmente un’opera di difesa, la quale può essere costituita da uno o più elementi di fortificazione (muro, fossa, castelli, ecc.; e ognuno di questi elementi può essere continuo o limitato ai soli punti strategicamente più delicati), ma di cui elemento principale e fondamentale rimane sempre la strada». 

Negli ultimi decenni, dopo l’abbattimento del muro di Berlino nel 1989, era invalsa, se non una uniformità di intenti, certo una esperienza di contatti che stava dando una coesione apprezzabile, nonché una dimestichezza profonda su tutti gli ambiti disciplinari. Intanto l’affermarsi della lingua inglese, nonché la continuità della circolazione artistica, hanno saldato i cittadini europei anche con la cultura statunitense, divenuta estremamente dinamica. Ma già, in pochi anni, l’incontro nuovo e felice si è incrinato: in pratica, da quando nel 2001 a New York furono abbattute le “Torri Gemelle”. L’ampiezza dei fronti di guerra attuali scuote programmaticamente i confini precedenti, mirando a nuove relazioni non meno che a nuove territorialità. Si desidera certo la pacificazione: ma i tavoli delle trattative saranno indetti proprio sul tema dei confini, di più, sui modi della stabile difesa. I calcoli sono molteplici. Senza contare che anche il caso ha il suo peso. 

Dialoghi Mediterranei, n. 67, maggio 2024 
Riferimenti bibliografici
Caciorgna, Marilena, in Donatello, Mater gratiae Mater misericordiae, Opera Metropolitana- sillabe, Siena, 2015:. 23-30
Epifani, Mario, Sebastiano Conca e i francesi: sintonie e sguardi reciproci, in Sfida al Barocco1680-1750, a cura di Michela di Macco, Giuseppe Dardanello, Chiara Gauna, Genova, Sagep Editori, 2020: 151 – 158 
Sitografia
<https://www.treccani.it/vocabolario/occidente/>
<https://it.wikipedia.org/wiki/Sebastiano_Conca>
Borchia, Matteo, Nuove riflessioni sul rapporto tra Sebastiano Conca e il Portogallo, <https://books.openedition.org/cidehus/20369?lang=it>
Kubitschek, Joseph Wilhelm, < https://www.treccani.it/enciclopedia/limes_(Enciclopedia-Italiana)>
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Franca Bellucci, laureata in Lettere e in Storia, è dottore di ricerca in Filologia. Fra le pubblicazioni di ambito storico, si segnalano Donne e ceti fra romanticismo toscano e italiano (Pisa, 2008); La Grecia plurale del Risorgimento (1821 – 1915) (Pisa, 2012), nonché i numerosi articoli editi su riviste specializzate. Ha anche pubblicato raccolte di poesia: Bildungsroman. Professione insegnante (2002); Sodalizi. Axion to astikon. Due opere (2007); Libertà conferma estrema (2011).

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