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Narrare dei morti del Mediterraneo. Per una rielaborazione della memoria pubblica

9788823023352_0_536_0_75di Annamaria Clemente

È il settembre del 2015 ed una foto corre impazzita da un social all’altro, da un tweet all’altro. La fotografia destabilizza, è perturbante, suscita dolore e sdegno, è l’immagine di un bimbo dal volto rotondo, le guance paffute, indossa una maglietta rossa e un paio di pantaloncini blu, ha le scarpe, è disteso carponi sulla spiaggia e mentre lo osserviamo comprendiamo che quei piccoli piedini, quasi pronti per svegliarsi non si muoveranno mai. Il bimbo si chiama Alan, Alan Kurdi, un nome penetrato nella nostra memoria attraverso quella foto e che con sé porta tutto un intrico emozionale difficile da dipanare.

La foto di Alan, del piccolo migrante curdo, così come la sua storia non solo farà il giro del web diventando fatto pubblico, ma verrà urgentemente rielaborata in forma artistica attraverso varie opere d’arte che adageranno il suo corpicino su un letto, come a voler normalizzare una situazione che normale non è, e al contempo sedare un dolore troppo difficile da accogliere. Si mobiliterà la politica: la Germania aprirà i propri rigidi confini accogliendo alcune migliaia di rifugiati bloccati in Ungheria mentre in Inghilterra il cancelliere Cameron annuncerà che saranno accolti quattromila rifugiati ogni anno. I leader europei organizzano un piano per distribuire tra i vari Paesi centoventimila dei migranti giunti in Italia e Grecia.

«L’onda di commozione scatenata dalla visione di quel corpo bambino morto portò alcuni Paesi europei ad aprire corridoi umanitari per i profughi della Siria» scrive Marelli. Ma, come l’infrangersi di un’onda sulla battigia, il mare, l’acqua salata si ritrae: la Germania arretra e disattende le promesse di accoglienza, mentre la Gran Bretagna, uscendo dall’Europa, delega alla Turchia il compito di chiudere la rotta balcanica, naufragano i propositi, si inabissano le promesse, tutto torna al risucchio del mare. Nell’immobile quiete dei fondali marini riposano silenti migliaia di storie migranti, a farle riemergere è Pamela Marelli nel suo libro Archivi dell’acqua salata. Stragi di migranti e culture pubbliche (Futura, Roma, 2021), storica che si occupa da anni di migrazione e intercultura, grazie all’esperienza decennale di operatrice di uffici per persone straniere e attivista di un’associazione antirazzista.

Il libro tenta di ricostruire i naufragi di migranti dagli anni Novanta al 2020, una ricostruzione ambiziosa che interroga la memoria pubblica attraverso le testate giornalistiche, le testimonianze di chi è sopravvissuto, ma non solo. Obiettivo di Marelli è quello di esaminare come tali eventi vengano inscritti nella memoria pubblica, come vengano percepiti dai soggetti e come si costruisca l’immaginario collettivo. La ricerca prende il via da vari stimoli: dalle scuole estive organizzate dalla Società Italiana Letterate e dall’Associazione Il Giardino dei Ciliegi di Firenze, esperienze collegate dal fil rouge degli Archivi dei sentimenti e delle culture pubbliche, il cui scopo da parte delle ideatrici, Clotilde Barbarulli e Liana Borghi, era quello di affrontare il tema degli affetti a partire dalle emozioni traumatiche ed indagare, nel rapporto tra memoria e discorso culturale, le modalità con cui il ricordo di determinati eventi si inserisce nello spazio pubblico.

Come evidenzia infatti la Barbarulli la scrittura giornalistica è essenzialmente una scrittura frammentata, legata alla necessità dell’evento. Un flusso continuo in cui si susseguono le informazioni e che spesso proprio per la natura fluida dei supporti e dei mezzi di cui si avvale, da una parte, e per le politiche messe in atto dai vari governi dall’altra, hanno il potere di veicolare fortemente il sentire comune ostacolando la selezione, l’isolamento del fatto, occultando ciò che è dentro l’evento, non permettendo di focalizzare gli uomini e le donne protagonisti di tali tragedie, descrivendo «una umanità ormai negata dalle parole e dalla prassi della politica istituzionale» (Barbarulli 2011: 34). Tali storie «contro-narrazioni, scenari inquietanti» necessitano di essere ascoltate per porre domande alle rappresentazioni e alle retoriche imposte dal mondo del potere.

 È in questa prospettiva che necessitiamo di quello che viene definito l’Archivio salato del mare, un luogo che:

«[…] sembra porre un limite alla scrittura della Storia, perché offre lo spazio bianco del non-narrabile, diventa luogo della dis-archiviazione, per riprendere un concetto di Sossi. Narrare dei morti nel Mediterraneo vuol dire cercare di afferrare donne e uomini in apparenza privi di storia e fermarli in un luogo dove un sapere dis-archiviante generalizzato scrive solo numeri e cifre, prende impronte inventando forme per espellere, respingere, deportare. […] A un potere che si serve solo di una scrittura per così dire segnaletica, in sintonia con il proprio compito di vigilanza globale sino a decretare la fine dell’archivio nella registrazione delle morti, però rispondono storie non “archiviabili” ma che si ribellano alla impossibilità di una storia tradizionale. Si potrà avere una storia così di fratture e discontinuità, attimi di racconto captati e ascoltati in altre lingue: strategie di resistenza e di esistenza di fronte a un potere che non archivia più le tracce del sé ma che vuole solo rintracciare» (Barbarulli 2011:36).

Legata da questo vincolo Pamela Marelli inizia così la sua attività di archivista, raccogliendo per anni documenti, informazioni, articoli di giornale, dati, notizie, immagini e racconti di superstiti, organizzando il suo personale Archivio dell’acqua salata. In prima istanza è interessante osservare, come suggerisce Sarah Peruccio, l’impiego del sostantivo ‘archivio’. Nel linguaggio comune la parola dalla duplice accezione, identifica da una parte un complesso di documenti interrelati attraverso un vincolo originario, necessario e determinato, ma l’archivio è anche il luogo fisico dove tali documenti vengono conservati, il luogo dove dimora la memoria di cui i documenti sono traccia e testimonianza. Archiviare è quindi depositare, accantonare e in senso figurato anche dimenticare, ma: «Archiviare in questo caso non significa dimenticare bensì il suo contrario. Nominare i protagonisti (più spesso uomini che donne) e le protagoniste di storie dimenticate dalla storia è il primo atto per permettere loro di esistere» (Perruccio, 2022).

Se è vero che la parola ha potenza creatrice e si inizia a esistere nel momento in cui si nomina, quello di Pamela Marelli, attraverso il racconto, diventa un nobile impegno teso a restituire l’umanità negata ma anche un forte gesto politico utile a osservare e denunciare la società contemporanea: «Costruire un archivio è un gesto politico, che si esplicita nella scelta di contenuti da inserirvi, degli eventi di cui dare conto, nel modo in cui raccontarli. Indagare le modalità con cui nelle culture pubbliche si rappresentano i naufragi di migranti significa analizzare da un particolare punto di osservazione la società contemporanea, riflettendo sui meccanismi che formano la collettività, il senso di appartenenza e di esclusione, le narrazioni condivise e quelle conflittuali.

9788857533070_0_500_0_75La memoria è una complessa questione sociale e politica. Ciò che si sceglie di ricordare collettivamente ha a che fare con la rappresentazione e l’interpretazione del modo in cui ci si percepisce come soggetto plurale, il quale costituisce una comunità, una società, la nazione. La memoria culturale ha a che vedere con la gestione del potere. Cosa si sceglie di ricordare? Cosa di dimenticare? Quali eventi si commemorano? Quali fatti storici diventano feste nazionali? Per quali avvenimenti si costruiscono monumenti? Le esperienze individuali e collettive che interagendo creano la memoria culturale sono segnate da disparità di potere, da gerarchie determinate da importanti fattori tra loro diversamente intersecati quali il genere, la classe, il colore, l’orientamento sessuale, la religione.

Costruire un archivio a partire dai viaggi delle persone migranti significa – scrive Marelli – anche indagare il concetto di nazionalità, il colonialismo, le varie forme di razzismo». Gli archivi si aprono ricordando l’omicidio di Jerry Essan Masslo, fuggito dal regime dell’apartheid sudafricano, non certo primo atto di razzismo violento nei confronti dei migranti ma che doverosamente deve essere evidenziato come momento cruciale per l’Italia grazie alla prima manifestazione nazionale antirazzista il cui merito è quello di aver accelerato i tempi per l’approvazione di una legge organica sul fenomeno migrazione. Sono gli anni della caduta del muro di Berlino, dell’entusiasmo contro la fine del comunismo e della generosa ospitalità offerta gratuitamente a quei popoli che fuggivano dai regimi dittatoriali, gli anni della fuga albanese dal governo di Ramiz Alia e dal grande arrivo in Italia di stranieri.

Marelli nell’excursus storico sulla questione albanese ben sottolinea il mutamento di visione della figura del migrante, da oggetto di curiosità, protetto con fare paternalistico, atteggiamento disceso dal passato coloniale, si passa ad una visione pietistica ed accogliente dell’altro per approdare infine ad una postura che vede il migrante oggetto da rimuovere, respingere, annullare. Un mutamento di senso che trova il suo compimento nell’episodio della nave Vlora approdata in Puglia nell’agosto del 1991. Ricordato come il primo respingimento coatto di massa, ventimila sono le persone che dal porto di Valona arrivano sulle coste pugliesi. Evidenzia Marelli:

«Le immagini di gente lacera, arrampicata persino sui pennoni, non intenerirono più il cuore degli italiani, furono portati tutti nello stadio della Vittoria di Bari, al quale di “vittorioso” è rimasto solo il nome, essendosi trasformato in un simbolo di vergogna per l’Italia, e lasciati in condizioni disumane: nella memoria di tutti rimane l’immagine di uno stadio divenuto ghetto per indesiderabili. Un ruolo fondamentale hanno avuto anche i media che hanno iniziato un’opera di stigmatizzazione degli albanesi arrivati con quest’ultima ondata»(Mehillaj 2010: cap.1.3).

Un cambiamento istantaneo originatosi dalla mancata contestualizzazione del fenomeno e che ad oggi non trova nei manuali di storia pagine dedicate all’analisi delle vicende dell’immigrazione albanese.

9788807172199_quarta-jpg-444x698_q100_upscaleLa narrazione continua con due naufragi: quello della Katëer i Rades, avvenuto nel marzo del 1997, definito come una strage di Stato, tragico episodio ricostruito grazie all’inchiesta reportage Il naufragio di Alessandro Leogrande, e quello della F174 ricordato come il naufragio fantasma, caratterizzato da narrazioni dissonanti, giochi di contrasti nella scena mediatica, fino a quando un giornalista, Giovanni Maria Bellu, inizia a interessarsi della vicenda del naufragio di Portopalo grazie ad una carta di identità di un giovane tamil ritrovata da un pescatore del luogo.

Marelli dedica particolare attenzione al modo in cui i media hanno narrato gli episodi, così come si sofferma sui silenzi, sui vuoti delle trame, al modo in cui i giornalisti manipolano le informazioni, esponendone i fatti o lasciando cadere un velo, analizza minuziosamente le retoriche e le strategie discorsive utilizzate nel proporre di volta in volta scenari di accoglienza o esclusione. Preponderante nell’analisi è quindi la presenza dei media, il modo in cui essi utilizzano trasversalmente il potere informativo esercitando, nella costruzione della memoria pubblica, determinate posizioni politiche e divulgandone socialmente il ricordo. «I media, in sostanza, hanno un ruolo centrale in relazione alla memoria e alla sua funzione sociale: essi sono sia strumenti del ricordo sia costruttori e diffusori di simboli e interpretazioni legati al rapporto stesso» (Moroni, 2018). Se infatti la memoria è essenzialmente una facoltà umana è altresì vero che è memoria anche il processo sociale soggiacente ai singoli, un processo che mentre sostanzia le informazioni mnemoniche individuali costruisce anche un altro tipo di memoria, quella che definiamo memoria collettiva, un insieme di rappresentazioni del passato trasmesse e apprese attraverso le interazioni tra i membri di un gruppo. Quindi, non solo ricordiamo sempre in relazione a strutture sociomnemoniche convenzionali, quali le categorie di spazio, tempo e luogo, ma ricordiamo anche grazie ad uno schema di riferimento sovrastrutturale organizzato da un gruppo che ratifica e organizza il ricordo.

I media nella veste di narratori di storie concorrono a costruire quadri di riferimento condivisi, immettono nel circuito delle realtà determinati eventi e opinioni, suggerendo griglie interpretative che orientano e condizionano lo sguardo e il giudizio in relazione a eventi sia passati che attuali ma anche futuri. Dedicare ampio spazio al ruolo dei media come costruttori di senso è un forte gesto politico per riflettere sui modi con cui la società si autorappresenta e si confronta con il fenomeno migratorio, ma il tentativo di Pamela Marelli acquista particolare rilievo nel momento in cui evidenzia i vuoti, le manipolazioni e le omissioni nella trama del ricordo: è infatti in ciò che viene espulso, rifiutato, taciuto, nascosto che bisogna osservare, capire, comprendere, per colmare le lacune narrative e consentire una giusta elaborazione dei dati. Scrive Jedlowski a proposito dell’elaborazione: 

«L’elaborazione è una modalità particolare del lavoro mnestico: al funzionamento spontaneo dei meccanismi della dimenticanza – che tendono a scartare dalla coscienza ciò che è problematico o inquietante – ed anche ai meccanismi deliberati dalla volontà politica – che tende a dar forma alla memoria comune al servizio della costituzione di cosiddette “buone identità” – essa costituisce il confronto consapevole col negativo in un processo che coincide con una assunzione di responsabilità nei confronti della propria storia […]. Tale assunzione comporta tanto il tentativo di comprendere la genesi degli avvenimenti cui si riferisce, quanto quello di utilizzare questa comprensione come patrimonio per orientarsi nel futuro. Più che un riconoscimento cognitivo del passato, l’elaborazione è un confronto esperienziale» (Jedlowski, 2020-2021: 4). 

Ma come confrontarsi con il non narrato, con storie che mentre forniscono dettagli sulle dinamiche esterne dell’evento ne adombrano paradossalmente i protagonisti? «Ma l’elaborazione non si dà esclusivamente come lavoro mnestico dei singoli. Perché si possa elaborare il passato deve essere possibile narrarlo, e a questo riguardo la legittimità o meno che forniscono i discorsi pubblici è cruciale. Ciò che la collettività non riconosce resta silente. È un problema che si pone per tutti i passati che in un modo o nell’altro possono dirsi traumatici» (Jedlowski, 2020-2021: 5). Nel taglio operato dai discorsi pubblici Pamela Marelli ricuce i lembi attraverso tipologie narrative ben lontane dalle asettiche informazioni di cronaca, narrazioni che per loro natura sollecitano i meccanismi empatici e consentono così di avvicinare l’altro. È la narrazione dei sentimenti a raccontare attraverso la voce degli spettacoli, delle opere teatrali, dei libri, delle fotografie, delle opere d’arte, contrappesi che integrano ciò che manca e stimolano quell’elaborazione necessaria alla presa di coscienza, a fissare nella memoria eventi che, al contrario, la mera documentazione giornalistica, con i suoi numeri e le sue statistiche, tende sempre più ad assuefare e a far scivolare nell’oblio. 

«A livello politico i morti migranti ancor’oggi contano meno di altri morti, ma a livello culturale e sociale è insorta la necessità di costruire un immaginario collettivo attento alla dignità e al valore di ogni singola vita umana, creatosi grazie a numerosi libri, film, installazioni, mostre, monumenti. Fare ciò significa inoltre dare ai parenti sopravvissuti uno strumento di rielaborazione psicologica del lutto ma anche un modo per far valere alcuni diritti, di aver riconosciuto, per esempio, un risarcimento o una sorta di pensione di reversibilità» (Panighetti, 2022). 

s-l500Emblematiche in questo senso sono le pagine dedicate alla nave fantasma. La storica riesce a guidarci nella ricostruzione dell’evento grazie alle coraggiose indagini di Giovanni Maria Bellu, l’unico in Italia che si impegnò attivamente per chiarire l’enigma del naufragio avvenuto nella notte di Natale del 1996 nel canale di Sicilia dove morirono 283 persone. La Marelli racconta del disinteresse delle istituzioni in carica, del clamoroso silenzio della stampa italiana, delle insistenti richieste del Senato pakistano, del coraggio dei familiari nel richiedere per anni la verità, narra del ruolo attivo delle ambasciate e delle comunità presenti nel territorio italiano, di come il Manifesto sia stato l’unico quotidiano ad interessarsi alla vicenda e di come i nomi dei dispersi vennero resi noti solo grazie all’intervento della comunità pakistana della Stazione Termini che attendeva i loro cari: fu da loro stilata prontamente una lista attraverso una rete di solidarietà che dai singoli arrivò sino al quotidiano. Al di là dell’avvincente cronistoria che segue tutte le fasi a partire dal riconoscimento del naufragio – dato che per molti il fatto non avvenne in mancanza di prove tangibili quali il relitto della nave ed i cadaveri –  fino alla storia fallimentare del processo,  ciò che resta dalla lettura è il proliferare di opere artistiche, di documentari, installazioni, monumenti ed anche un sito web dedicato al naufragio, atti di ribellione contro il silenzio, per rompere il muro dell’indifferenza e restituire decoro umano a quei corpi in fondo al mare, attraverso l’incisione profonda che solo il linguaggio dei sentimenti, dell’empatia, della compassione ha la capacità di scrivere nella memoria collettiva. 

Punto di riferimento è sempre la narrazione di Bellu, forse proprio perché è grazie alla sua caparbietà che la storia è riuscita ad emergere dagli abissi: dal suo libro la Rai decise di fare una trasposizione filmica, I Fantasmi di Porto Palo, che nel 2001 riuscì ad ottenere uno share di visione altissimo: 

«Impressiona constatare – scrive Marelli – come la narrazione di Bellu, amplificata dalla fiction Rai, abbia oscurato gli altri racconti costituendosi di fatto nell’immaginario collettivo come la verità sulla tragedia. È mancata, anche nelle numerose trasmissioni in cui si è parlato della fiction, l’analisi del contesto socio-politico, ribadendo non solo l’importanza che gli esseri umani possano muoversi liberamente ma indicare le leggi che impediscono ciò avvenga, gli interessi legati alla migrazione clandestina. Chissà se, ciononostante, la produzione della Rai è stata utile per sensibilizzare maggiormente rispetto ai flussi migratori odierni, dando un contributo alla diffusione, nelle culture pubbliche, dell’evitabilità delle stragi di migranti».   

9788891740991_0_536_0_75Se la produzione Rai è stata utile perché ha permesso di divulgare a varie fasce d’utenza, anche quelle difficilmente raggiungibili dai trattati sociologici o politici, la storia della F174, Pamela Marelli continuando nel suo percorso passa ad analizzare altre ondate migratorie, utilizzando sempre il medesimo doppio registro, alternante cronaca e arte. Sono gli anni duemila caratterizzati dai flussi provenienti dall’Africa, dagli harraga, i bruciatori di frontiera. Qui al contrario delle migrazioni precedenti e della scarsa preparazione da parte dei governi nella gestione dei flussi siamo invitati ad osservare la partecipazione da parte delle istituzioni nel celebrare funerali pubblici per le vittime del mare, un coinvolgimento superficiale che non troverà eco per le stragi future, effimera attenzione, conseguenza della tacita rimozione del passato coloniale e ancora una volta della mancata rielaborazione del passato. E ancora una volta per la Marelli «utili sono quelle espressioni artistiche che divulgano il recupero della memoria non lasciando il compito ai soli saggi storici che sono poco letti dalla popolazione».

Il suo sguardo si rivolge ai romanzi della letteratura postcoloniale: Igiaba Scego, Cristina Alì Farah, Gabriella Ghermandi, scrittrici di seconda generazione provenienti dai territori delle ex colonie, che hanno il grande merito di decolonizzare il pensiero, di contrastare ed integrare alla rappresentazione storica ufficiale autorappresentazioni differenti, avviando interessanti processi di negoziazione e rielaborazione della memoria storica. Nel frattempo a fronte della politica dei respingimenti, con la creazione dei CIE, di Frontex, Mare Nostrum, la chiusura dei porti, troviamo anche interessanti attenzioni sul corpo dei migranti, sulle differenze di genere, sul recupero di quei cadaveri naufragati negli abissi grazie al lavoro eminentemente scientifico ma anche profondamente civile del laboratorio di antropologia e di odontologia forense dell’Università di Milano. 

Gli Archivi dell’acqua salata sono un compendio necessario, un’opera generosa,  un sapere enciclopedico, un casellario ricco di note a margine che, rinviando puntualmente ad ogni fonte, articolo, documentario, film, raccolta fotografica citata, hanno il potere di ricordare, nel senso di ri/cor/dare di ridare al cuore, alla memoria pubblica quelle narrazioni dimenticate, consentendo una giusta elaborazione, che potrebbe e dovrebbe indurre a generare una coscienza autocritica finalmente capace di impedire che queste tragedie possano ripetersi.        

Dialoghi Mediterranei, n. 56, luglio 2022 
Riferimenti bibliografici 
Barbarulli C., Archivi del mare salato. Intervento alla scuola di Dvino del 26 giugno 2011, consultabile al sito: https://www.yumpu.com/it/document/view/15037833/scarica-pdf-scuola-e-laboratorio-di-cultura-delle-donne 
Bellu G. M, I fantasmi di Porto Palo, Mondadori Milano 2004 
Cattaneo C., D’Amico M., I diritti annegati. I morti senza nome del Mediterraneo, FrancoAngeli Milano 2016 
Jedlowski P., Intenzioni di memoria. Sfera pubblica e memoria autocritica, Mimesis, Milano 2016 
Jedlowski P., Sulla Memoria storica, 2020-2021, materiale didattico consultabile al sito: https://scienzepolitiche.unical.it/bacheca/archivio/materiale/26/Studi%20culturali%202020-21/Dispensa%20n.%202/Sulla%20memoria%20storica.pdf           
Leogrande A., Il naufragio. Morte nel Mediterraneo, Feltrinelli Milano 2011 
Marelli P., Archivi dell’acqua salata. Stragi di migranti e culture pubbliche, Futuro edizioni Roma 2021 
Mehillaj Orkida (2010), L’immigrazione albanese in Italia: profili sociologici e politiche di controllo http://www.altrodiritto.unifi.it/ricerche/migranti/mehillaj/index.htm, cit. in Marelli P., 2021: 27
Moroni C., Costruire la memoria. Un legame complesso tra mass media e rappresentazioni sociali, 17 Agosto 2018, articolo consultabile al sito: https://www.lottavo.it/2018/08/costruire-la-memoria-un-legame-complesso-tra-mass-media-e-rappresentazioni-sociali/. 
Panighetti I., La “parentela vitale” necessaria per salvare persone nel Mediterraneo, 26 gennaio 2022, intervista a a Pamela Marelli, articolo consultabile al sito: https://breccia.news/2022/01/26/la-parentela-vitale-necessaria-per-salvare-persone-nel-mediterraneo  
Perruccio S., Gli Archivi dell’acqua salata e noi, 30 marzo 2020, articolo consultabile al sito: https://www.letteratemagazine.it/2022/03/30/gli-archivi-dellacqua-salata-e-noi/ 

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Annamaria Clemente, laureata in Beni Demoetnoantropologici presso l’Università degli Studi di Palermo, è interessata ai legami e alle reciproche influenze tra la disciplina antropologica e il campo letterario. Si occupa in particolare di seguire autori, tendenze e stili della letteratura delle migrazioni. Su questo tema ha scritto saggi e numerose recensioni.

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