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Napul’è … percorsi di etnoantropologia partenopea

Naepolis, di Matthaus Merian il Vecchio, 1640

Neapolis, di Matthaus Merian il Vecchio, 1640

di Annalisa Di Nuzzo

incipit

Ipertrofica, esplosiva, sconcia e moralista, violenta e accogliente, lazzara e giacobina, città d’arte e patria del più becero folklore, tutto è stato detto e scritto su Napoli. Questa breve guida antropologica ed etnografia si propone di essere il filo di Arianna con il quale attraversare il labirinto più affascinante e paradossale che una città possa offrire, in cui convive, in un caos ordinato, tutto e il contrario di tutto. Un ritratto, sicuramente incompleto, di una delle civiltà mediterranee più affascinanti: la città che da circa tremila anni continua a rimettere in gioco collaudati meccanismi culturali e simbolici, ricontestualizzando vecchio e nuovo, tra tensioni metropolitane e antichi vissuti della tradizione colta e popolare.

Fuori dagli stereotipi, dentro il ventre della città

Napoli è una città che ha la struttura di un romanzo; le strade sono piene di storie che chiedono di essere trascritte. Quello di Napoli può essere solo un romanzo barocco e surrealista, incompiuto, irrisolto, contradditorio, dove gli eccessi della religione cattolica convivono con la bestemmia [1], se è vero che, oltre a porsi come un’opera a cielo aperto, Napoli è forse, insieme a Tangeri e Barcellona, una città mediterranea ed europea allo stesso tempo, la cui nascita testimonia quanto il Mediterraneo sia il frutto delle contaminazioni di uomini, di rotte, di luoghi di partenza e di miti di fondazione, che soddisfino il bisogno di radicamento e la necessità di incontrare l’alterità. A partire da questa definizione, si snoda il nostro labirinto che non può non partire dal nome o dai nomi che hanno caratterizzato nel tempo questo territorio. Napoli si potrebbe definire la città dai tre nomi ed è da questi tre nomi che si apre il nostro viaggio.      

Napoli nell'epoca della prima colonizzazione greca

Napoli nell’epoca della prima colonizzazione greca

Partenope e la fondazione della città: seduzione, vita, morte

Neapolis, la città nuova, in realtà sa già di antico ed è stata rifondata più volte; dunque ha già acquistato la sua dimensione eterna più antica di Roma, sorella di altre città mediterranee. Nelle sue diverse vite è stata Partenope e il suo nome ci riporta al suo mito di fondazione, al suo essere città femmina, con il suo ventre cavo che racconta di sé stessa, che scopre le sue radici e le espone con pudicizia e sfrontatezza, come nei palazzi seicenteschi che attraversano il suo centro storico nei quali la città del “sopra”, apollinea e splendente, e la città del “sotto”, dionisiaca e misteriosa, si coniugano. Napoli non dimentica mai chi è e chi è stata, nonché quanto sia diversa nelle sue profonde contraddizioni. Si espone e si offre, si nasconde e si nega: la maternità vince sulla malìa a causa dello scacco seduttivo subito dalla sirena Partenope che non riuscirà a irretire Ulisse e che per questo si lascerà morire sulle coste che prenderanno il suo nome.

La città vive infinite vite ed è stata fondata più volte: da Partenope a Palepolis, quindi a Neapolis. È una città ipertrofica anche nei miti di fondazione, che nel giro di due secoli si stratificano e si sincretizzano fondendo i diversi corpi e paesaggi urbani in una indiscussa unità.

I miti di fondazione danno vita al bisogno simbolico rituale di plasmare il rapporto tra territorio natura/cultura. Il “grande arcipelago mediterraneo” [2], come lo definisce Cacciari, rende esplicito il ruolo del Mediterraneo nella dialettica che si instaura nell’incontro tra comunità. Le migrazioni da Oriente ad Occidente rendono esplicita la complessità della cultura mediterranea di cui Napoli è portatrice.

«Uno spazio mobile e cangiante del coordinarsi e del coabitare che è dialettica potente di una dimensione di pòlemos e dià-logos per costruire la complessa armonia europea che nasce da questo mare/lago. Uno spazio in cui le singolarità s’appartengono l’una all’altra in un impeto che obbliga ciascuna a trascendersi, navigando verso l’altra in una memoria millenaria stratificata, dinamica che non smette di costruirsi e ricostruirsi» [3].

Ripercorrere le rotte di queste interconnessioni tra passato e presente per riannodare i fili e ricostruire i percorsi geo-simbolici, diventa utile ai fini della comprensione di ciò che siamo e dar conto, così, della vita di una città come Napoli. Non esiste un centro in questo spazio/mare fatto di coste, di isole e approdi, ma una continua relazione densa di incontri e scontri, antiche e nuove talassocrazie, che attraversano i tempi. «Se c’è ancora la possibilità di pensare al futuro del Mediterraneo bisogna necessariamente guardare al passato, una rete tessuta nei millenni che abbiamo alle spalle» [4], e che ha un nodo fortemente significativo in Partenope, Palepolis e Neapolis.

Nel riprendere le fila degli spostamenti attraverso il Mediterraneo, non si può fare a meno del proficuo rapporto, ormai sedimentato, tra antropologia e storia. Ai fini del mio discorso ho privilegiato alcuni aspetti della “grande colonizzazione” che determinò l’ellenizzazione del Mediterraneo. Se il Mediterraneo ha vissuto da sempre scontri e incontri di culture, la migrazione greca, in quel suo andamento bidirezionale tra coste occidentali e orientali, ha determinato un’osmosi tra “Oriente” e “Occidente”, che finì con l’essere integrata nell’identità ellenica. Questa identità ha stabilito un baricentro originale e complesso del Mediterraneo, lasciato in eredità alle altre successive culture che avrebbero continuato a ridefinirlo.

Furono i Greci del V sec. a coniare il termine di “talassocrazia” quando parlavano del passato minoico. Tucidide [5] ne parla a proposito del controllo sul Mediterraneo, che era già stato solcato e conosciuto dai micenei e di quel potere che si era espresso dal punto di vista politico, militare, culturale. Quegli stessi Greci avevano già elaborato un immaginario dell’Occidente che risaliva a molti secoli addietro, prima della cosiddetta grande colonizzazione/migrazione e delle fondazioni di città nella zona che sarebbe divenuta la Magna Grecia. Prima delle colonie, l’idea che i Greci avevano dell’Occidente era avvolta in un alone di leggenda. La memoria dei traffici dell’età micenea, la conoscenza delle rotte e dei territori attraverso i racconti dei mercanti e dei primi esploratori delle coste del Mediterraneo occidentale, insieme al potere evocativo dei paesaggi, ispirarono storie mitiche.

Il mito – si pensi per esempio a tutta la geografia dell’Odissea omerica – contribuiva a spiegare la scoperta delle terre dell’Occidente e il loro inserimento nell’immaginario e nel mondo culturale dei Greci, i quali, per rappresentarsi una realtà prima sconosciuta e darle una collocazione nella loro visione ordinata del mondo, attribuivano origini greche alle popolazioni indigene in un meccanismo atavico di assimilazione dell’estraneo, delineandone origini comuni. È questo uno dei primi processi di creolizzazione/acculturazione mediterranea che viene definito “ellenizzazione”, termine che gli storici usano con molta cautela, ma che rende chiaro come il Mediterraneo sia luogo di incessante sintesi di culture. Diverse sono state le componenti di quest’ondata migratoria che ha cambiato per sempre il Mediterraneo e che restano costanti per ogni spostamento: le condizioni del paese di partenza, l’atteggiamento psicologico, le diverse esigenze economiche, il costituirsi delle aree di colonizzazione come entità macro-territoriali al confronto di questa o quella polis, i rapporti con l’ambiente e le comunità locali, i rapporti con la madrepatria. Nell’immaginario greco il paesaggio consueto da ricercare era costituito da porti naturali, coste frastagliate ricche di ulivi, di viti e di possibili aree per allevare greggi e bestiame: tutto quello che un turista ideale insegue ancora oggi come impronta “autentica” del Mediterraneo. Definiti profughi, fuggitivi, invasori provenienti dall’Oriente, questi migranti arricchiranno invece l’Occidente; e, pur restando indipendenti, daranno prova di solidarietà di natura culturale, economica, politica.

Tale ellenizzazione non fu certo solo solidarietà, comunismo politico con relativa condivisione delle terre, giacché nel contempo ci furono vicende contrassegnate da aggressività, guerre violente, deportazioni, riduzione in schiavitù, uccisioni di massa, come accadde ai siracusani e a una parte dei sicilioti. Tuttavia, questi percorsi migratori e le fondazioni di città resero possibile, attraverso gli incontri con le popolazioni già residenti, sincretismi religiosi e plasmazioni di culti, i quali hanno definito abitudini, credenze, modalità di gestione politica, attitudine al confronto e trasmissione dei saperi. Si è diffusa, così, una cultura dell’accoglienza che considera sacro l’ospite, cerca un nomos condiviso e fonda un logos, con i princìpi che sono ancora oggi riconosciuti in tutte le culture occidentali. Si sono costruite città, impianti urbani e definizioni di spazi sacri e profani che sono tutt’ora parte del paesaggio mediterraneo. Questi migranti, erroneamente assimilati a colonizzatori, partivano coniugando necessità di fuggire da persecuzioni e dalle asperità del territorio con il desiderio di nuove possibilità di felicità, insieme al piacere di compiere una sorta di prova iniziatica e di rito di passaggio che ha sedimentato l’archetipo simbolico del viaggio. Partivano in maniera spesso ordinata e lucida, recando con loro non solo elementi della propria vita materiale e simbolica, ma anche piante e coltivazioni; soprattutto, mantenevano un legame con la madrepatria non di natura politico-istituzionale, ma culturale.

Queste migrazioni e le rotte che ne definivano i percorsi da seguire ricevevano necessariamente l’imprimatur divino attraverso l’oracolo di Delfi, a cui ci si rivolgeva prima di ogni partenza. Di questi incontri/scontri tra diverse civiltà sono intrisi tutti i luoghi del Mediterraneo, ma in questo specifico percorso bisogna cercare di comprendere più a fondo cosa accade a partire dalla cosiddetta prima migrazione greca su queste coste, in questi luoghi abitati da donne e uomini, da divinità e ritualità diverse, e tuttavia contraddistinti da strutture antropologiche dell’immaginario condivisibili. In particolare, come ci si appropriava dei luoghi, come si fondavano le città e come si dava vita a nuove coesistenze culturali, oltre che politiche ed economiche.

«Nell’antichità l’idea che ogni cosa avesse, oltre a quello proprio anche un “altro” significato era così radicata e diffusa da essere accettata come ovvia. Nel caso specifico della pianta urbana, il suo conformarsi a uno schema ideale era vincolato a un cerimoniale complesso, le cui parole e i cui atti costituivano appunto il modello concettuale. La fondazione era commemorata in festività periodiche e consacrata permanentemente in certi monumenti, che con la loro presenza fisica fissavano il rituale al suolo e alla forma materiale della strada e degli edifici» [6].

Il bisogno di identificare la propria familiarità in elementi di un paesaggio nuovo che, tuttavia, possa essere funzionale a bisogni e abitudini, conduce alla scelta del territorio ideale per dare spazio e nuova vita alla comunità. «La scelta del sito – scrive Fustel de Coulanges – «era un fatto molto importante, da cui dipendeva il destino del popolo ed era sempre rimessa alla decisione degli dèi» [7], o in ogni caso di una divinità che sanciva la scelta in maniera definitiva, non più discutibile.

Sirena

Incisione di Sirena con fiori e motti

Sirene, fascinazioni, suicidi

Nel caso di Partenope, la dialettica vita-morte diventa il fondamento dell’identità della città, insieme a eros e seduzione. Una divinità, seppure minore, una sirena, si suicida e il suo corpo monstrum diventa tutt’uno con il territorio, si fa territorio. Al di là delle diverse versioni del mito di fondazione, di cui racconteremo a breve, c’è un elemento che attraversa tutte le varie declinazioni del racconto: la morte di Partenope che simboleggia la partenza, lo strappo che si determina quando si lascia un territorio, e dunque il tributo a ciò che nel linguaggio della cultura popolare viene sintetizzato con “il partire è un po’ morire”, una morte simbolica che prelude alla ri-nascita, alla fondazione, e che si concretizza nella ricerca di un luogo nuovo. La sirena Partenope non accettò mai il rifiuto di colui che voleva sedurre e, per il dolore, si gettò dalla roccia più alta. Le onde portarono il suo corpo fino al golfo di Napoli, precisamente sull’isolotto di Megaride, che secondo studi recenti è individuabile nell’isolotto di Nisida, più che in quello dove sorge attualmente Castel dell’Ovo. Qui, il corpo di Partenope, secondo il racconto, si dissolse, prendendo la forma della città di Napoli: la sua testa è la collina di Capodimonte e la sua coda si posa lungo la collina di Posillipo. Era necessario che la fondazione di una nuova città, di un nuovo popolo implicasse anche la nascita di una nuova religione che di quel popolo sarà propria, una riorganizzazione dell’ordine divino non meno che di quello umano. Chi ambisca a tanto deve sottoporsi al maggior sacrificio che gli è possibile, il sacrificio di sé stesso. Ossia morire per fondare o rifondare. Era l’assunto da cui partivano i Greci d’Oriente, che, in maniera ragionata e sistematica, si allontanavano dalle loro terre con tutti gli abitanti della parte migliore delle città, che lasciavano le loro terre in vista di ulteriori migliori collocazioni. Quelle che genericamente definiamo, con termine improprio, “colonizzazioni”, furono probabilmente migrazioni greche in Occidente, che furono diverse e attraversarono alcuni secoli.

Ma quale era l’immaginario che accompagnava il loro viaggio caratterizzato dal rischio, dal fascino dell’imprevisto e dello sconosciuto? Nei fatti si concretizzò attraverso diverse strategie e la soluzione fu affrontata secondo una doppia modalità: conquista, ma, soprattutto, relazione e confronto con le comunità cosiddette italiche. Il risultato fu un’assimilazione/integrazione culturale decisa che, tuttavia, integrò elementi preesistenti. La stessa nascita della città di Partenope e del mito di Partenope ne è un valido esempio. Le coste campane erano considerate terre di Sirene, parte di quella geografia mitica che era in relazione con quanto raccontato e vissuto dai navigatori e dai marinai provenienti dall’Oriente nel solcare quelle acque. È l’idea mitica che avevano ad Oriente di un Occidente misterioso, strabiliante e inquietante, attributi che in seguito verranno considerati tipici dell’Oriente stesso.

L’universo omerico aveva ampia collocazione in Occidente; lì erano localizzate molte delle avventure epiche di Ulisse e i viaggi di altri eroi reduci da Troia, come Diomede, Filottete e Nestore. Basti pensare all’episodio dell’Odissea che racconta la visita di Ulisse al dio dei venti, Eolo, da cui deriva il nome dell’arcipelago siciliano delle Eolie. La pericolosità dello Stretto di Messina per i naviganti dette origine al mito di Scilla e Cariddi, le due creature mostruose posizionate alle sue estremità. Il nome delle Isole dei Ciclopi, nella costa orientale della Sicilia, richiama l’episodio nel quale Polifemo, accecato, lancia le enormi pietre contro Ulisse. Il mito contribuiva a spiegare così la scoperta delle terre dell’Occidente e il loro inserimento nell’immaginario e nel mondo culturale dei Greci, che attribuivano origini greche alle popolazioni indigene. Ad esempio, Esiodo, nella Teogonia, fa discendere i capi dei Tirreni (gli Etruschi), Latino e Agrio, dagli amori di Circe e Ulisse, mentre altre tradizioni ascrivevano un’origine arcade ai più antichi abitanti del Lazio, come il re Evandro dell’Eneide, e a popoli italici, tra cui gli Enotri e gli Iapigi.

Ma chi furono i primi esploratori greci e quali città fondarono? Le più antiche di esse furono fondate da gruppi provenienti dalla città di Eretria e dalla Calcide nell’Eubea che inviarono gruppi prima nell’isola di Pithecusa (Ischia), e poi sulla costa che le sta di fronte, a Cuma, certamente prendendo conoscenza anche della costa orientale della Sicilia e dello Stretto. L’area del golfo di Napoli, con le isole antistanti e i campi Flegrei, era abitata da popolazioni dell’Età del Bronzo e poi del Ferro, per le quali le fonti greche usano i nomi di Ausoni e Opici, incerte se identificarle o distinguerle tra loro, ma che non vanno comunque confuse – come talvolta accade – con le più tardi genti Osche, le quali verranno a impadronirsi dei centri coloniali greci e di quelli etruschi. Gli abitanti dell’Età del Bronzo erano stati in contatto, certamente, con i navigatori micenei spintisi al di là delle Eolie fino alle isole (Vivara specialmente) e alla costa del golfo [8]. In quelle terre erano comunque presenti culti ctoni e della vegetazione. «

«La Grecia è stata il teatro di una profonda mutazione, intellettuale e spirituale, che ha segnato il corso della storia dell’uomo in Occidente, e della quale è probabilmente più facile per noi definire la natura e valutarne le conseguenze in quanto la nostra cultura affonda ancora le sue radici nella tradizione classica» [9].

I documenti restano tuttora «abbastanza vicini [nel tempo] da far sì che li sentiamo meno estranei e che ci consentano di coglierne meglio i significati che non se si trattasse della Cina, dell’India, dell’Africa o dell’America precolombiana»[10]. A voler dunque andare a ritroso, il mito di Partenope permane attraverso le epoche, risultando di enorme rilevanza per ogni partenopeo.

Racconta Matilde Serao:

«Parthenope non è morta, Parthenope non ha tomba. Ella vive, splendida giovane e bella, da cinquemila anni; corre sui poggi, sulla spiaggia. È lei che rende la nostra città ebbra di luce e folle di colori, è lei che fa brillare le stelle nelle notti serene; […] quando vediamo comparire un’ombra bianca allacciata ad un’altra ombra, è lei col suo amante; quando sentiamo nell’aria un suono di parole innamorate è la sua voce che le pronunzia; quando un rumore di baci indistinto, sommesso, ci fa trasalire, sono i baci suoi; quando un fruscio di abiti ci fa fremere è il suo peplo che striscia sull’arena, è lei che fa contorcere di passione, languire ed impallidire d’amore la città. Parthenope, la vergine, la donna, non muore, non muore, non ha tomba, è immortale … è l’amore» [11].

md31375742057Tante sono le versioni che riguardano la nascita e la fondazione della città partenopea, ma quello che è certo è che Napoli è femmina, e non lo è solo nella sua accezione grammaticale. Lo è soprattutto nell’anima, nei sentimenti che ne fanno un centro vivo, pulsante, sensibile e sensitivo, misterioso e allo stesso tempo in mostra da sempre agli occhi di tutti in virtù della sua incredibile bellezza. Secondo una versione meno leggendaria, Partenope sarebbe stata invece una splendida fanciulla, figlia del condottiero greco Eumelo Falevo, partito alla volta della costa campana per fondarvi una colonia; ma una tempesta colpì la nave, provocando la morte della giovane, in tributo alla quale fu dato il nome alla nascente città. C’è una geografia mitica delle sirene di Magna Grecia; se ne definiscono tradizionalmente tre: Partenope, Licosa e Ligeia.

I miti sono tanti e diversi tra loro, ma una cosa che accomuna tutte le varianti è che Napoli è stata fondata con amore e per amore. Quindi, si può affermare con sicurezza che l’amore e la passione sono il fondamento della città. Una miscela di amore e di disobbedienza, di autonomia e di colpe da espiare definisce fin dal nome questo coacervo di contraddizioni che armonicamente si coniugano. C’è prima di tutto un accostamento della parthenos (vergine) alla radice ops- (ope) che farebbe riferimento alla voce, al canto. Si viene così a stabilire un rapporto tra la parthenia, la “verginità”, la voce ammaliatrice e lo statuto delle sirene, vergini che in altre narrazioni dei racconti mitici hanno rifiutato il matrimonio (motivo di assertività e di indipendenza dell’elemento femminile nella società napoletana), ragione per cui sono state punite da Afrodite e da Hera, che ha fatto perdere loro le ali, trasformandole in rocce bianche, e da Demetra per non aver difeso Kore, di cui erano compagne, al momento del rapimento da parte di Hades.

La morte della Sirena, tema spesso ricorrente nei racconti mitici che le vedono protagoniste, è qualcosa di più che un mero sopravvivere nell’eponimia: è un rinascere come sposa e madre. Questo fa Parthenope, donando il proprio nome non a un’isola, ma a una città che la assume come divinità garante della sua esistenza: culti ctoni e pre-olimpici che segnano la religiosità della città. È alla Sirena che tocca assicurare la fertilità della terra e il felice esito della produttività agricola, in particolare della cerealicultura, rendendo inestricabile il rapporto tra gli elementi: tra mare e terra, tra cielo e mare. Si uniscono dunque tratti da altri culti, come quello di Demetra e di Afrodite. A voler scorrere le varianti dei miti di fondazione, questi elementi restano costanti così come le sincretizzazioni con altre figure leggendarie e rituali pre-greci. Il repertorio più diffuso, da tal punto di vista, è quello omerico legato al viaggio di Odisseo. Partenope era una sirena che viveva tra le rocce in mezzo al mare. Un giorno, la nave di Ulisse arrivò proprio nel luogo abitato dalle Sirene. Il mito racconta che Partenope cercò di sedurre l’eroe col suo bellissimo canto, ma non riuscì nel suo intento. La prosecuzione ideale del racconto omerico si ritrova nella voce della profetessa Cassandra, riportato da Licofrone, nel suo poema intitolato Alessandra [12]. L’autore racconta della profezia che preannuncia la morte delle Sirene attraverso il Katapontismòs, un salto in mare da una rupe. Ma c’è una ulteriore e profonda ambivalenza nel suicidio di Partenope, che riguarda aspetti atavici e antichissimi nella definizione della Sirena.

Si ripropone il rapporto Oriente/Occidente tramite la mediazione greca, per cui le sirene sono originariamente creature mostruose e spaventose, inizialmente vendicatrici e seduttrici, che occupano passaggi insidiosi per i naviganti. Sono demoni meridiani che presidiano e si manifestano nelle ore più calde, le ore intorno a mezzogiorno, quando costoro si impossessano degli umani. Momenti particolarmente difficili per i marinai, durante i quali spesso non c’è vento e la navigazione è faticosa e spossante, a causa dell’uso obbligato dei remi. Erano creature umane e animali dotate di ali ereditate da archetipi mitici del Vicino Oriente siro-anatolico e portate in Occidente dalla migrazione ellenica. Culti lunari erano presenti a Neapolis in relazione all’Iside egiziana. Napoli e l’Egitto sono sempre stati molto uniti da un profondo legame, sin dai tempi dell’antichità, quando mercanti e coloni provenienti dall’Egitto si stanziarono con abitazioni e botteghe nel centro storico della città dove eressero anche un monumento in onore del dio Nilo, un’entità fluviale che occupa ancora oggi uno slargo nei decumani noto come piazzetta Nilo. I culti egiziaci, di cui i più famosi erano quelli dedicati a Iside, paradossalmente erano anche più segreti e venivano celebrati solo dagli adepti. Tuttavia, essi hanno lasciato un segno tangibile nella cultura napoletana: lo si può riconoscere nel ferro di cavallo che spesso accompagna il corno per i riti scaramantici e apotropaici. Il ferro di cavallo, infatti, non è altro che l’icona ottenuta dalle corna di Iside, dall’immagine arcaica che indica il ventre materno e dalla mezza luna, simboli della fertilità della donna: atavici legami con l’astro che sono ancora presenti nell’immaginario romantico e popolare della città.

Le sirene erano divinità legate al sole, il cui nome deriva probabilmente dal greco serios cioè “bruciante”, “ardente”, oltre ad essere divinità delle acque sulle quali agivano nelle ore più calde, alla luce abbagliante del sole, “demoni meridiani” connessi alla sfera dei culti solari. In quanto compagne di Proserpina, erano pertanto sia divinità della luce, ma anche degli Inferi, e come tali collocate dall’immaginario mitologico nella zona del Tirreno fin dalla punta della Campanella, dove esisteva un tempio a loro dedicato nella zona della penisola sorrentina, prospiciente all’entrata agli Inferi (lago d’Averno), verso cui spingevano i malcapitati, consolandone al tempo stesso con il loro canto il momento del trapasso. 

Ma non è tutto: nel contatto con le terre di Esperia (l’Italia era identificata come terra del tramonto), fin dall’età del Bronzo e dell’espansione micenea, è possibile che, all’arrivo delle migrazioni greche, insediamenti umani preistorici avessero già abitudini e comportamenti, per così dire, omogenei alla visione della natura e degli elementi che risultano essere il sostrato profondo delle culture del bacino del Mediterraneo. In quei luoghi che diventarono la Magna Grecia, i Greci ebbero rapporti e consuetudini nonché forme d’arte e produzioni di utensili e visioni della natura. È a tale contatto a cui probabilmente si può ascrivere l’aspetto più crudele e spaventoso delle sirene e il loro essere considerate mostri antropofagici. Questi insediamenti primordiali, infatti, ben diversi da quelli che i Greci incontrarono a Cuma, dovevano avere abitudini e rituali cannibali ed essere abituati a nutrirsi di midollo osseo, come lasciano pensare alcuni frammenti di ossa umane miste a quelle di maiale e di pecora.

Sulle coste intorno al territorio di quella che sarà Partenope, è verosimile supporre che le “Sirene” dei primi navigatori di quel tratto di mare fossero le donne di quei gruppi che gli uomini mandavano sulla spiaggia perché adescassero i marinai con i loro canti.  Molte sono le grotte della zona che possono essere custodi dei resti di queste “Sirene antropofaghe” che forse hanno determinato la nascita di racconti mitici dei marinai sulla pericolosità dei luoghi e sulle tecniche di adescamento femminili. In particolare, il canto. Che genere di canti fossero, fin dal mondo preistorico, quelli delle Sirene, è difficile dire, ma non impossibile immaginarlo. Possiamo essere certi che donne non ancora conformate a un’organizzazione familiare rigidamente patriarcale fossero forti, dedite alle armi e a un uso sistematico della violenza e della difesa [13]; non potevano perciò  modulare melodie delicate, per cui i loro canti potevano essere solo i prototipi di certi lamenti antichissimi che hanno attraversato i millenni. Essi forse danno ragione a una napoletanità che vive anche di musica celebrata in tutto il mondo. Del resto, come qualche studioso ha ipotizzato [14], l’accostamento della parthenos (vergine) alla radice ops- si riferirebbe alla voce, al canto che contraddistingue la città fin nei millenni successivi.

Amore e morte, eros e thanatos, e le forti passioni, sia devastanti che propositive, sono il fondamento della città. I primi templi tardo-greci dedicati a Partenope sorgevano sull’acropoli di Sant’Aniello a Caponapoli, il cui culto si tramandò fino in epoca romana. Noti e ben documentati erano i riti segreti praticati nelle cavità sotterranee di Napoli, dove si svolgevano antichi rituali esoterici dedicati alla fecondità marina, in memoria della sirena Partenope. Riti che si accompagnano a quelli fallici e dionisiaci presenti a Pompei e custoditi gelosamente, in gran segreto, dagli antichi officianti maestri. Con Partenope si venerò in epoca pagana la donna, o per meglio dire la prima essenza femminile a Napoli, che alimentò la sacralità muliebre prima dell’avvento di quella maschile, anche in epoche successive. In età cristiana il culto di Partenope si fuse con i culti mariani, in quanto la Partenope Vergine fu assimilata alla Madonna in un luogo sacro a Napoli: la Chiesa della Madonna di Piedigrotta, costruita sui resti di un’antica grotta dove si officiavano i rituali che propiziavano la fecondità e l’abbondanza attraverso l’uso di riti fallici di natura orgiastica, dedicati al Dio Priapo. Altre tradizioni ricollegano Parthenope al rituale di passaggio tra la vita e la morte. Ovidio racconta che le sirene non furono solo dei mostri, ma che in principio erano delle ancelle di Persefone, dea degli inferi, e che, in seguito al suo rapimento da parte di Plutone, ottennero il permesso di cercarla nelle profondità della terra, cioè nella “ctonia” e che da qui furono ricacciate in mare con l’ordine di ricevere i naviganti sfortunati, di incantarli con melodie irresistibili e di introdurli presso di lei. Divinità femminili che hanno come costante il compito di accompagnatrici nel passaggio tra vita e morte, inclini ad adoperare sempre il canto dolce e drammatico al fine di sostenere la difficoltà dell’attraversamento. Resta inteso, e su questo c’è un accordo totale, che Partenope è la più antica tra le sirene nominate, e il golfo di Napoli la sua indiscussa localizzazione; inoltre, solo nella Penisola sorrentina (Sorrento, area costiera limitrofa a Napoli) è accertata l’esistenza di un santuario in cui viene praticato il culto collettivo delle Sirene, che la rendono loro terra d’elezione, laddove ognuna delle sirene, come per esempio Licosa e Ligeia, è oggetto di venerazione individuale nel luogo in cui è approdato il suo corpo.

Donna Marianna

Donna Marianna

Individuare il sepolcro di Partenope è stato, fin dall’antichità, una costante, così da dare fondamento e solidità rituale al culto della sirena/divinità e all’identità della città. Molte sono state nel tempo le ipotesi, ma non si sa dove possa essere la sua tomba (vera o leggendaria che sia); studiosi e archeologi hanno creduto di localizzarla sulla collina di Sant’Aniello a Caponapoli, sotto le fondamenta della chiesa di Santa Lucia, costruita sul tempio dedicato a Partenope, o sull’isolotto che alcuni definivano di Megaride, nel sotterraneo di Castel dell’Ovo. Secondo altri la tomba della sirena era situata nei pressi della foce di uno dei rami fluviali del Sebeto, l’antico corso d’acqua che bagnava Neapolis. Ma il culto della sirena continua, nonostante non ci sia una tomba per venerarla, e attraversa il tempo tra donne e madonne. Si sono susseguiti nel tempo simboli e statue che ne attestano la devozione e la presenza. La Sirena diventa “A Capa e Napule”, detta la Marianna, testa di una statua che rappresentava, secondo la tradizione, la sirena Partenope, o più probabilmente Cibele o Afrodite di età classica, oggi conservata a Palazzo San Giacomo sede del Comune. I napoletani hanno avuto nel tempo con lei un rapporto affettivo e contraddittorio. Sfogavano su di lei tutti i malumori di un popolo oppresso; poi, tornata la calma, rimediavano ai danni riportati: durante la rivolta di Masaniello del luglio 1647, per esempio, nel periodo dei Viceré spagnoli, le venne rotto il naso. Un altro serio pericolo lo corse all’epoca della Repubblica Partenopea del 1799, stato satellite della Francia, invisa al popolo fedele a Casa Borbone, il quale la identificò con la “Marianna”, simbolo della Repubblica Francese, un nome che le rimane tutt’ora; ma a salvarla fu quell’atavico e misterioso senso di rispetto da sempre tributatole, che la faceva ritenere sacra.

Attraverso i millenni la città cambia nome e viene rifondata. Intorno al 530 a.C. iniziò una fase di declino di Parthenope, dovuta al sopravvenuto predominio commerciale e militare degli Etruschi nell’area; ma la rinascita della città giunse dopo il 474 a.C. quando le colonie della Magna Grecia, sconfitti gli Etruschi in mare, riaffermarono la loro egemonia sull’Italia meridionale. A questo punto, i greci di Cuma poterono ripopolare il vecchio borgo, che assunse il nome di Palepolis (città vecchia), mentre a pochi chilometri di distanza, verso Est, veniva fondata Neapolis (città nuova), un centro più grande, fortificato e dotato di un ampio porto.

L’attuale nome della città fu creato il 21 dicembre del 475 a.C., secondo una tradizione che ha poco fondamento storico. Inizialmente la polis era ridotta a un piccolo conglomerato urbano. Solo in un secondo momento i Cumani, per ragioni difensive, estesero il territorio fino all’attuale Centro Storico, dove tutt’oggi a Piazza Bellini sono ancora visibili i resti delle mura antiche. La nuova città fu chiamata quindi Neapolis, per distinguerla dall’originaria Partenope, ribattezzata poi con il nome Palepolis. Si tratta di una data simbolica, scelta perché coincide con il solstizio d’inverno, in quanto gli antichi erano soliti porre la prima pietra di una città in concomitanza con importanti fenomeni astrali. Circa 2491 anni fa, dunque, nasceva Napoli. 

Dialoghi Mediterranei, n. 67, maggio 2024
[*] Per gentile concessione dell’Editore, si pubblicano in anteprima le prime pagine del volume Napul’è: percorsi di etnoantropologia partenopea, di Annalisa Di Nuzzo, in corso di stampa presso i tipi di Il Nuovo Melangolo.
Note
[1] Tahar Ben Jelloun in Dadapolis. Caleidoscopio napoletano, a cura di Fabrizia Ramondino e Andreas Friedrich Müller, Einaudi, Torino, 1992: 14.
[2] M. Cacciari, L’Arcipelago, Adelphi, Milano, 1997.
[3] Ivi: 21.
[4] M. Augé, J. P. Colleyn, L’antropologia del mondo contemporaneo, Elèuthera, Milano, 2006: 68.
[5] Cfr. Tucidide, Storie, (a cura di Emilio Piccolo) Senecio, Napoli, 2009.
[6] D. Giampaola, E. Greco, Napoli prima di Napoli. Mito e fondazioni della città di Partenope, Salerno editrice, Roma, 2022: 21.
[7] N. D. Fustel de Coulanges, La città antica, Sansoni, Firenze, 1972: 25.
[8] M. I. Finley, E. Lepore, Le colonie degli antichi e dei moderni, Donzelli editore, Roma, 2000: 44-45.
[9] J.-P. Vernant, I miei maestri, la mia ricerca, in J.-P. Vernant – A. Schiavone, Ai confini della storia, Einaudi, Torino 1993: 22.
[10] Ivi: 23.
[11] M. Serao, Leggende napoletane, Perino, Roma, 1895: 22.
[12] Calcidese Licofrone, Alessandra, (a cura di) V. Gigante Lanzara, Rizzoli, Milano, 2000.
[13] N. Douglas, La terra della Sirene, Milano, Leonardo, 1991: 217
[14] A. Mele, “Le sirene nel Tirreno”, in Oebalus. Studi sulla Campania nell’Antichità, 11, 2016: 259-322.

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Annalisa Di Nuzzo, docente di Antropologia culturale, insegna Geografia delle lingue e delle migrazioni al Suor Orsola Benincasa; già professore a contratto di Antropologia culturale presso DISUFF Università di Salerno, e membro del Laboratorio antropologico per la comunicazione interculturale della stessa università fino al 2020- Ha conseguito il PhD in Antropologia culturale, processi migratori e diritti umani.  È membro dell’Osservatorio Memoria storica, Intercultura, Diritti Umani e Sviluppo Sostenibile “MInDS” Univ. di Cassino, socia del Centro di Ricerca Interuniversitario I_LAND (Identity, Language and Diversity) nonché del Centro Interuniversitario di Studi e ricerche sulla storia delle paste alimentari in Italia (CISPAI). I suoi campi d’indagine sono l’antropologia delle migrazioni e del turismo, antropologia e letteratura, antropologia e genere, antropologia urbana. È autrice di numerose monografie, tra le ultime pubblicazioni si segnalano: Il mare, la torre, le alici: il caso Cetara. Una comunità mediterranea tra ricostruzione della memoria, percorsi migratori e turismo sostenibile, Roma Studium 2014; Fuori da casa. Migrazioni di minori non accompagnati, Carocci, Roma, 2013; Conversioni all’Islam all’ombra del Vesuvio, CISU, Roma, 2020; Minori Migranti. Nuove identità transculturali, Carocci, Roma, 2020; La città e le sue culture. Adolescenza, violenza, gruppi di strada, La valle del tempo, Napoli, 2023.

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