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Mutamenti mediterranei. Gramsci nella transizione tunisina post-rivoluzionaria

 copertinadi Giovanni Cordova 

L’opera di Antonio Gramsci – largamente coincidente con i lunghi anni della detenzione carceraria perpetrata dal regime fascista – costituisce indubbiamente uno dei più originali contributi che gli studi italiani abbiano apportato al panorama nove- centesco delle scienze sociali (Dei 2012a), nonostante che l’eredità intellettuale del pensatore comunista sardo sia stata tardivamente e solo parzialmente accolta all’infuori dai circuiti della sinistra  marxista europea prima degli anni Settanta (Hobsbawm 2011).

L’analisi delle relazioni tra le classi sociali che nei Quaderni del carcere Gramsci (1975) riconduce ai processi di costruzione dell’egemonia culturale, attraverso cui i dominanti costruiscono la legittimazione popolare del potere che essi esercitano sui subalterni, rappresenta un innesto fecondo e audace nel cuore della teoria marxista, specie per la ridefinizione dei rapporti tra economia e ideologia (struttura e sovrastruttura).

Contro ogni scientismo e positivismo – pur di marca marxista – Gramsci attribuì grande autonomia dalle leggi dell’economia all’agire storico umano. In poche parole, individuò un ampio margine di libertà in cui il ‘politico’ sorge inducendo trasformazioni sociali finanche radicali al di là dei rigidi determinismi economici. La filosofia della prassi, sezione specifica dei Quaderni, restituisce alle interpretazioni anguste e materialiste del marxismo carattere di mondanità e storicità. Inoltre, sprona a riscoprire la complessità di una soggettività rivoluzionaria non irreggimentabile nelle astrazioni delle leggi dei rapporti di produzione.

In Italia, le osservazioni gramsciane sul folklore si riveleranno oltremodo preziose nell’apertura, a partire dal secondo dopoguerra, di una nuova fase di quegli studi che oggi, sulla scorta della lezione ciresiana, definiremmo demologici. Lungi dal rappresentare una sterile collazione di reperti culturali arcaici e pre-moderni, Gramsci considera il folklore un agglomerato indigesto nel quale i frammenti della cultura egemone si ricostituiscono nelle forme creative e potenzialmente sovversive con cui le classi subalterne esprimono la loro ambizione emancipatrice (Dei 2012b). La collocazione dei fatti culturali nella dinamica del conflitto tra dominanti e dominati costituì la necessaria premessa per l’avvio del progetto demartiniano di dar voce alle plebi rustiche del Mezzogiorno italiano, portatrici di mondi culturali nei quali si annidavano storie di oppressione ma anche di resistenza e di riscatto, e che Ernesto de Martino (1949) definì per l’appunto ‘folklore progressivo’.

Fuori dai confini nazionali, Gramsci incontrò ampia fortuna in Gran Bretagna nell’ambito dei Cultural Studies, orientamento di studi che si proponeva di indagare i contesti socio-culturali di produzione e, soprattutto, fruizione dei prodotti dell’industria culturale (Hall 1980). Il momento del consumo non veniva più visto come un atto di silente sottomissione all’egemonia propalata dall’ideologia dominante; al suo interno, piuttosto, le classi subalterne aprono inattesi spazi di negoziazione, resistenza, critica, da cui originano le sub-culture (Willis 2012). Altro merito dei Cultural Studies fu quello di differenziare il campo della soggettività subalterna – direzione peraltro auspicata dallo stesso Gramsci (Smith 2010): le variabili del genere, della generazione, delle appartenenze etnico-culturali rendono conto in maniera assai più dirimente dello spettro di posizionamenti entro cui ogni soggetto si colloca, ribaltando l’iniziale condizione di asservimento.

Per limitarci all’ambito degli studi etno-antropologici, insomma, Gramsci è oggetto di un’attenzione e di una rilettura costanti; le sue intuizioni hanno precorso analisi successive mirate alla rigenerazione del concetto antropologico di cultura. Come mostra l’antropologa britannica Kate Creahn (2010), la sensibilità di Gramsci nel cogliere la cultura nel suo farsi e disfarsi dinamico all’interno della dialettica tra classi è segno di una sensibilità ‘riflessiva’ ante-litteram, precorritrice di quei movimenti intellettuali che hanno posto grande interesse nei confronti dei processi con cui la cultura è stata scritta, etnografata, ipostatizzata dall’etnografia classica (Clifford Marcus 2001; Abu Loghud 1991).

foto-n-1Gramsci e la transizione post-rivoluzionaria tunisina

Accanto alla categoria concettuale enucleata dal binomio egemonia-subalternità, l’individuazione di una ‘questione meridionale’ e lo studio delle transizioni politico-culturali e degli stati di crisi sociale sono gli altri punti forti della teoria gramsciana costantemente ripresi negli odierni tentativi di comprensione dell’oggi. Un ‘oggi’ non necessariamente calzato al continente europeo, ma esteso dall’Africa alle Americhe (Kanoussi, Schirru, Vacca 2011; Baldussi, Manduchi 2010).

Recentemente, Baccar Gherib, militante e sindacalista tunisino nonché preside della Facoltà di Scienze giuridiche, economiche e gestionali dell’Università di Jendouba, ha dato alle stampe un libro che, come si evince facilmente dal titolo, prova a pensare con Gramsci la complessa fase di transizione post-rivoluzionaria del paese maghrebino. Non è facile applicare uno sguardo scientifico e sufficientemente distaccato a fatti e questioni tutt’altro che compiute. Eppure, Penser la transition avec Gramsci. Tunisie (2011-2014), edito per le Éditions Diwen nel 2017, si propone di scandagliare in profondità una fase tumultuosa, effervescente, per certi versi torbida, avviata dalle rivolte del 2008 nella regione di Gafsa, caratterizzata dalla lunga storia di attività minerarie di estrazione del fosfato e dall’altrettanto consistente tradizione sindacale operaia (Chouikha, Gobe 2009), e temporaneamente stabilizzatasi con le libere elezioni del 2014, le prime dopo gli anni della dittatura di Ben Ali. In mezzo, l’autoimmolazione incendiaria di Mohamed Bouazizi a Sidi Bouzid, le imponenti e sanguinose manifestazioni a Tunisi, la fuga del dittatore, l’elezione di un’Assemblea Costituente e l’affermazione degli islamisti di En-nahdha, gli assassinii tutt’oggi impuniti di Chokri Belaid e Mohamed Brahmi, esponenti di spicco della sinistra popolare, la redazione di una Costituzione generalmente considerata come la più avanzata del mondo arabo (Groppi, Spigno 2015).

Un lungo periodo, insomma, che ha visto il progressivo smantellamento di un’egemonia capace di produrre un’economia politica della repressione pervicace, capillarmente insinuata nei meandri più reconditi della società tunisina (Hibou 2011), contrassegnata nella lunga stagione benaliana da un mortificante asservimento volontario all’autoritarismo del capo, capace di disintegrare legami sociali e ambizioni di cittadinanza (Kilani 2014). Ma da cosa è stato rimpiazzato questo modello dispotico di società e cultura politica? Secondo Baccar Gherib ci troviamo innanzi a un processo storico lontano dall’essersi concluso, di modo che appare una scelta felice applicare all’attuale transizione tunisina le parole di Gramsci: «La crisi consiste appunto nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati» (1975: 311).

Sei anni sono passati da quell’ondata di ribellione che è divampata in tutta l’area nordafricana e mediorientale. In Tunisia è ancora lungo il percorso da fare perché si inverino quelle premesse rivoluzionarie ieri sostenute con coraggio, passione, utopia. Basta scambiare due chiacchiere con i giovani dei quartieri popolari della periferia della capitale per prendere atto della deprivazione materiale e simbolica cui continuano ad essere sottoposti. Interrogate sul merito, ben poche persone – al di fuori dei circoli militanti o delle associazioni impegnate della società civile – aderiscono con entusiasmo al cambiamento rivoluzionario. In molti, per contro, rimpiangono l’epoca della dittatura. Badiamo bene che, eccezion fatta per il turismo – il cui volume è tragicamente diminuito negli ultimi anni in seguito all’instabilità della regione – già ai tempi di Ben Ali l’economia dava evidenti segni di stagnazione. La disoccupazione tra i giovani diplomati è cresciuta ininterrottamente a partire dagli anni 2000: questo dato è di non poca importanza, dal momento che ha segnato la fine del progetto neoliberale incarnato dagli ideali dell’ascesa sociale e del merito, punti cardine della politica economica con cui Ben Ali voleva sancire definitivamente l’affrancamento della Tunisia da un impianto sociale ed economico di stampo pre-capitalistico.

Così, dunque, Ben Ali perse, lentamente ma inesorabilmente, parte del consenso popolare da cui il regime traeva legittimità per incardinare la società tunisina. Ne furono una dimostrazione evidente le tante occasioni in cui, specie negli ultimi anni del suo governo, si rese necessario il ricorso alla forza per bloccare le diffuse insorgenze insurrezionali e protestatarie e pacificare la società. Secondo Gherib, le incertezze e le contraddizioni della fase attuale sono espressione delle difficoltà con cui le élite politiche faticano oggi a costruire una nuova egemonia e a riaffermare l’autorità dello Stato senza che in alcun modo questo processo possa essere sospettato di continuità con l’autoritarismo del vecchio regime. Va segnalato, tuttavia, che la credibilità di tale ricomposizione statuale è minata alla base dal fatto che, già nei primi mesi dopo la Rivoluzione, figure di spicco della nuove compagine istituzionale avevano collaborato a vario titolo con i governi di Ben Ali. L’odierno presidente della Repubblica, Béji Caïd Essebsi, ad esempio, ricoprì la carica di ministro con Bourguiba prima e Ben Ali poi, ed è considerato da molti come un uomo del passato, irrimediabilmente compromesso con il regime delegittimato dal popolo nel 2011.

Manifestazione del partito Ennahdha

Manifestazione del partito Ennahdha

Un’utopia universalista?

Il quadro è reso ulteriormente complesso dalla presenza di dinamiche che Gherib riconduce ad un’altra categoria gramsciana, quella del ‘sovversivismo’, con cui l’intellettuale sardo indicava gli impulsi di ribellione ‘privata’, non organizzata, propria dei gruppi che ingaggiano una contrapposizione nei confronti di uno Stato indebolito ma mantenendo comunque la propria condizione di subalternità.

Ci troviamo di fronte a un altro concetto facilmente adattabile all’attuale contesto tunisino, dato che il disfacimento della macchina amministrativa e istituzionale susseguente alla Rivoluzione ha comportato un allentamento – se non un vero e proprio azzeramento – dell’efficacia delle politiche, della burocrazia, dell’azione di governo. Sono rifiorite pratiche e logiche sociali informali,  talvolta anti-statali, in un vasto campo di settori, dal commercio alla gestione dei rifiuti. L’indebolimento dello Stato ha soprattutto comportato la reviviscenza di regionalismi mai sopiti e la riattivazione di legami comunitari che in alcune aree del Paese, come nei governatorati interni di Sidi Bouzid, Gafsa, Kasserine, mettono in discussione il riconoscimento dell’autorità del potere statale centrale. Questo punto costituisce una questione estremamente delicata nel mondo arabo-musulmano, dato che la negoziazione delle appartenenze coinvolge al medesimo tempo il registro della politica e della religione [1]. Il ritorno di forze dichiaratamente religiose nell’arena politica tunisina ha fatto sì che i livelli della ‘fratellanza’ e della ‘cittadinanza’ si confondessero (pericolosamente?) tanto nel discorso pubblico quanto nella militanza politica, rinverdita dopo l’inverno del regime.

Nella teologia islamica, la categoria di ‘fratello’ rinvia alla condivisione dell’appartenenza a una medesima comunità religiosa (Ikhwâ fi-l-islâm, ‘fratelli nell’Islam’), attraversata da rapporti costitutivamente orizzontali ed egalitari (Hénia 2015). Il rapporto politico che ne risulta affonda le sue radici nella comunità dei fedeli, l’oumma, che travalica le frontiere degli stati-nazione e, pertanto, si costruisce nella negazione del quadro politico statale. È il caso della galassia transnazionale afferente ai ‘Fratelli Musulmani’, cui va ricondotto – nonostante la formale separazione sancita dal congresso dello scorso anno – En-nahdha in Tunisia. Un movimento sovra e trans-nazionale ma profondamente radicato a livello locale, nei territori abbandonati e marginali delle regioni interne quanto nelle aree urbane periferiche (Lamloum 2015), e che ha saputo ergersi a matrice di senso e veicolo di valorizzazione di pratiche e strategie popolari. La militanza salafita [2], oggi lievemente in regressione, è un fatto politico che affonda le sue radici non solo nell’apertura delle frontiere a predicatori e religiosi in arrivo dai Paesi del Golfo dopo la Rivoluzione, ma a una più generale reviviscenza religiosa che la Tunisia ha conosciuto a partire dagli anni 2000, facilmente attestata dalla comparsa di inedite forme di velamento del corpo femminile, il cui significato differisce radicalmente dalle precedenti modalità tradizionali di trattamento e gestione della corporeità (Kerrou 2010).

Già Clifford Geertz, in un’opera dall’originale taglio comparativo che costituirà un riferimento obbligato per gli studi antropologico-religiosi, Islam. Lo sviluppo religioso in Marocco e in Indonesia (2008), individuò un sommovimento tellurico interno al pensiero e alla pratica della religione islamica nel profondo mutamento sociale indotto in primis dal colonialismo e dalla prossimità forzata con gli europei. Un cambiamento che coinvolge le due variabili analitiche della forza e della portata dei modelli culturali insiti nei simboli religiosi. Laddove la prima indica il grado di interiorizzazione del discorso religioso nell’esistenza degli individui, il secondo fa riferimento alla sua penetrazione nei differenti settori della vita sociale. I due indici non vanno di pari passo; anzi, restando a Geertz e all’analisi che muoveva in quegli anni a partire da casi particolari, la portata debole della religione in contesti politico-sociali improntati a una diffusa laicità può accompagnarsi ad una sua silente ma netta interiorizzazione o privatizzazione. La tensione tra le necessità concrete della vita quotidiana e il tentativo che gli individui compiono per adattare queste alle esigenze simboliche della religione, specie in Paesi – continuando con Geertz – come la Tunisia o l’Egitto, in cui questo divorzio appare più pronunciato, può produrre risposte e interpretazioni di tipo rigorista, caratterizzate da una percezione della religione che conduce ad un’osservanza quasi patologica del credo e dei riti che lo compongono (Kerrou 2008).

E tuttavia, nella Tunisia post-rivoluzionaria il conflitto non è esclusivo appannaggio dei gruppi religiosi militanti, bensì di una miriade di associazioni, movimenti, partiti politici espressione della società civile e portatori di istanze sociali radicali. La cultura politica tunisina dall’indipendenza dalla Francia alla rivoluzione di sei anni fa è stata imbevuta di un’eufemizzazione del conflitto sociale, attraverso la strutturazione di un discorso pubblico pregno di retorica interclassista e improntato alla ricerca dell’unanimità e del consenso. A ciò si aggiunga la storica esaltazione del ceto medio come unica classe sociale riconosciuta e a cui le politiche pubbliche si sono storicamente indirizzate. Questa rappresentazione ossessiva della presunta omogeneità della società tunisina (eredità della retorica nazionalista anti-coloniale) non è solo un’elaborazione endogena finalizzata a smussare ogni animosità e a prevenire possibili contrasti interni.

Nel 2015  il Premio Nobel per la pace è stato assegnato al ‘Quartetto per il dialogo nazionale tunisino’ – costituito da ordine nazionale degli avvocati, sindacato UGTT, confederazione dell’industria, Lega per la difesa dei diritti dell’uomo – che, secondo le motivazioni addotte dal Comitato del premio, si è adoperato per preservare l’unità e la pace sociale nel Paese in un periodo di vuoto istituzionale, traghettando così la Tunisia fuori dalla transizione, oltre le rivendicazioni partigiane e localistiche provenienti da vari strati della popolazione. L’assegnazione del premio non è che la legittimazione di una lettura peculiare della società e della rivoluzione tunisina; una lettura che emenda puntualmente il conflitto sociale e premia a tutti i costi una visione pacificata, stucchevolmente unificata di una fase storica che ha parlato invece il linguaggio della contestazione, dell’eguaglianza sociale, della lotta per i diritti. Il conferimento del premio non sarebbe che l’episodio più clamoroso del costante trattamento che l’Occidente riserva alla rivoluzione tunisina: le istanze sociali di rivolta sono state in breve tempo dimenticate in favore di un’ossessiva attenzione al religioso e alla presunta islamizzazione del Paese. Così facendo, il messaggio ‘universale’ contenuto nella Rivoluzione tunisina, quello della libertà e della dignità, comprensibile in ogni contesto e al di là del dato religioso e culturale, si è inesorabilmente perso (Dakhlia 2016).

Quaderni-dal-carcere

Quaderni dal carcere

Rivoluzione, restaurazione

Un altro concetto di matrice gramsciana con cui Gherib prova a farsi strada nel magmatico caleidoscopio politico e sociale tunisino è quello di ‘rivoluzione passiva’, cui Gramsci attinse dagli scritti dello storico napoletano Vincenzo Cuoco per considerare la fondazione dello Stato (italiano) moderno post-risorgimentale. Nella rivoluzione passiva le vecchie strutture politico-economiche sono mantenute, ed essa può pertanto essere definita – seguendo Gramsci – mediante il binomio rivoluzione-restaurazione.

Nella storia tunisina contemporanea, il 1956 non segna soltanto l’ottenimento dell’indipendenza dai coloni francesi, ma l’avvio di un processo di costruzione di un apparato statuale moderno ispirato ai valori e all’architettura istituzionale europea, processo portato avanti da una giovane classe dirigente nazionalista formatasi entro un orizzonte educativo e intellettuale di stampo occidentale. Se nella lotta anticoloniale erano stati i francesi a ricoprire il ruolo del nemico, una volta ottenuta l’indipendenza fu il modello sociale precoloniale ad essere oggetto degli interessi riformistici manifestati dalle nuove élite. Il processo di modernizzazione del Paese  si compì a detrimento delle aree interne e rurali; i cambiamenti nell’economia comportarono la progressiva dissoluzione di formazioni tribali fortemente legate a modalità collettive di gestione della terra; le gerarchie religiose dovettero subire il rimodellamento di una complessa intelaiatura istituzionale (le scuole, le zaouïas, ecc.). Certo, la donna ottenne un’emancipazione – attestata dal Codice di Statuto Personale (Majalla) sconosciuta agli altri Paesi arabo/musulmani; tuttavia – questa è la tesi di Gherib – si trattò di una rivoluzione ‘dall’alto’, una modernizzazione conservatrice attuata da uno Stato il cui potere non era adeguatamente controbilanciato né da classi sociali altre da quelle delle élite né della società civile. Una “rivoluzione passiva” in cui lo Stato mise mano alla struttura economica nazionale senza però intaccare i rapporti di proprietà esistenti, in un contesto di sostanziale passività della nazione. Per questo, le riforme imponenti e radicali operate da una classe dirigente guidata da Habib Bourguiba, padre della moderna nazione tunisina, possono essere considerate come esogene e prive del sostegno del corpo sociale locale/nazionale.

A Tataouine la popolazione protesta.

A Tataouine la protesta popolare

Questa continuità strutturale nella composizione della classe dirigente sarebbe sopravvissuta sino ai nostri giorni. Man mano che il tempo passava dopo il momento rivoluzionario del 2011, le iniziali istanze di trasformazione radicale della società avanzate da settori e gruppi precedentemente esclusi da ogni negoziazione politica (giovani, diseredati, disoccupati, perlopiù provenienti dalle aree interne della Tunisia) sono state oggetto di auto-intestazione e riappropriazione da parte di quel ‘blocco storico’ – espressione del mondo urbano, costiero, già ammodernato e sviluppato del Paese – che controlla lo Stato sin dall’indipendenza.

Baccar Gherib sostiene le sue tesi con rigore metodologico, passione argomentativa, improntandole a una longue durée capace di risalire a fasi assai remote della storia della Tunisia per rintracciarvi i prodromi dell’attuale configurazione politico-sociale. Il libro dà conto di un’intensa stagione politica rivoluzionaria tutt’altro che arrestatasi e rispetto alle quali l’autore invita a non avventurarsi in facili e superficiali conclusioni, siano esse nel segno dell’entusiasmo o del pessimismo revisionista.

Tra maggio e giugno scorsi, in diverse parti della Tunisia – in particolar modo al sud – sono occorsi diversi scontri tra popolazione e Guardia Nazionale. A Tataouine, villaggio berbero alle porte del deserto del Sahara in cui da mesi la popolazione è in mobilitazione per richiedere una più equa redistribuzione dei proventi delle risorse naturali, un ragazzo ha trovato la morte sotto i colpi di arma da fuoco dei militari. Analoghi episodi sono avvenuti a Sidi Bouzid, Kasserine, nella stessa Tunisi. In conclusione, riporto allora le parole di Lorenzo Feltrin (2017) (tratte a loro volta dal portale TunisiaInRed):

«Nel gennaio 2011, la gioventù precaria ha incontrato una forma-stato dittatoriale cristallizzata in una sclerotica rigidità istituzionale, e l’ha abbattuta grazie alla generalizzazione delle proteste ad altri settori della popolazione. Ma il sollevamento non ha potuto invertire il trend globale verso la ri-precarizzazione, e il rallentamento della crescita economica che lo ha seguito ha peggiorato la situazione. Blocchi dei treni di fosfato a Gafsa, copertoni che bruciano nelle campagne di Sidi Bouzid, presidi nella sede del governatorato della frontaliera Kasserine, cassonetti a fuoco nelle banlieues di Tunisi, occupazioni di oasi a Kebili… Molte delle pratiche e delle rivendicazioni emerse nel 2008 ed esplose nel 2011 continuano a tenere in vita le aspirazioni alla dignità e alla giustizia della tentata rivoluzione. Le delusioni degli ultimi anni sono state amare. Ma il futuro non è scritto»
Dialoghi Mediterranei, n.26, luglio 2017
Note
[1] La separazione stessa tra i due ambiti (politico e religioso) presuppone un livello di analisi radicato nella tradizione di pensiero occidentale e, dunque, aperto ai rischi di etnocentrismo se applicato acriticamente a società e contesti altri.
[2] Il salafismo (Salafiyya) è un movimento riformista sorto in Egitto nel XIX secolo, in seno all’Islam sunnita. Propugna un ritorno alle radici (il termine salaf indica gli ‘antenati’) e alle fonti originarie del Corano e della Sunna. La sua declinazione ‘fondamentalista’, tuttavia, non venne elaborata che negli anni Trenta del Novecento, in Tunisia, strettamente collegata alla rigida corrente letteralista wahabita.
Riferimenti bibliografici
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Giovanni Cordova, dottorando in ‘Storia, Antropologia, Religioni’ presso l’Università ‘Sapienza’ di Roma, si interessa di processi migratori – con particolare riguardo al sud Italia, società multiculturali e questioni di antropologia politica nel Maghreb. Ha condotte ricerche sul quartiere della Magliana a Roma e sugli iman e le guide spirituali in Italia.

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