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Monticchiello, il teatro e il Covid

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Monticchiello

il centro in periferia

di Fabio Rossi – Gianpiero Giglioni

Da tanti anni oramai percorro questa strada che dalle pendici del Monte Amiata mi porta ogni giorno a lavorare a Monticchiello, alla Cooperativa di Comunità del Teatro Povero. Scendo lungo il crinale del monte e mi tuffo nella Val d’Orcia e il mio pensiero più ricorrente è come il tempo della natura e quello degli uomini, a causa del COVID, abbiano interrotto il loro complesso parallelismo. Mentre noi restiamo confinati nelle nostre case, gli animali continuano imperterriti il loro corso, le rondini sono già arrivate, i volpacchiotti sono nati e inizio a vederli attraversare la strada muovendo pericolosamente i loro primi passi. Tra gli alberi volano fringuelli, merli, corvi, l’upupa, la cinciallegra e i gruccioni che rasentano il grano con le ali. Nei campi, specialmente nelle zone di riserva, sempre più numerosi, sempre più indisturbati e meno impauriti, branchi di cinghiali con le loro cucciolate pascolano tranquillamente, così come i caprioli, l’istrice, il tasso. Tutto osservato attentamente da lassù, dalla maestosa poiana che ogni tanto interrompe il suo planare a discapito di un topolino o di un leprotto. Nei campi il grano fa il suo corso e il suo manto ondeggiante e verde avvolge già tutta la Val d’Orcia.

Quando arrivo alla porta di Monticchiello mi rendo subito conto di come invece il tempo degli uomini sia cambiato. Nessuna macchina parcheggiata, le terrazzine dei locali che si affacciano sul panorama sono vuote, niente gruppetti di turisti che da tutto il mondo arrivano fin qui. Le piccole botteghe sono chiuse, così come i bar e i ristoranti, solo una porta resta aperta, ed è naturale che lo sia, quella della Cooperativa del Teatro Povero. Arrivato a lavoro, assieme ai miei colleghi, divido i generi di prima necessità da distribuire alla piccola comunità: le medicine, la bombola del gas, una ricarica del telefono, una bolletta pagata, le mascherine, la spesa, i pacchi viveri per le persone più in difficoltà, la lampadina di ricambio, il giornale. Poi viene il giorno dei prodotti dell’orto e il furgone distribuisce pomodori, cipolle, insalata, fiori da piantare, sacchi di concime e terriccio. Poi arriva il giorno della ferramenta e ognuno avrà la sua vernice, i suoi chiodi, il suo pennello, un sacchetto di pellet.

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Monticchiello

Sorrido nel pensare che oramai conosco ogni gusto, ogni abitudine ed ogni malanno degli abitanti di questo piccolo borgo. Ricordo tanti anni fa lo stupore che ebbi una mattina quando mi resi conto che, seduto dentro al nostro emporio, avevo imparato a riconoscere dal rumore dei passi in piazza chi sarebbe entrato pochi istanti dopo. Questi servizi sono gratuiti per la comunità, sono a carico della Cooperativa del Teatro che poi altro non è che la comunità stessa. Mi vengono in mente le parole di padre Ernesto Balducci quando, a proposito della guerra che era giunta fino all’Amiata, scrisse: «Rimasti qui, dimenticati per millenni, alla fine scoprimmo che non c’era più scampo, la nostra storia era la storia di tutti!».

Mi ha sempre colpito questa frase, fin da piccolo mi sono sentito protetto ad abitare in quest’area così marginale. Cosa mai sarebbe potuto accadere in un luogo così dimenticato, dove si dorme con le chiavi nel buco della serratura e cani e gatti e bambini si portano a spasso da soli? Eppure, come scrisse Balducci, ogni tanto qualcosa ci scova! Certo la scarsa densità abitativa e l’isolamento ci hanno protetti anche dal Covid ma gli effetti indiretti si sono fatti sentire pesantemente anche qui. La gente non ha sofferto l’isolamento, qui nessuno è stato chiuso in casa, siamo talmente pochi che se volessimo potremmo girare per giorni senza mai incontrarci. Ma tantissimi, lavorando in particolar modo nel comparto turistico, hanno perso il proprio lavoro e riportato pesanti perdite economiche.

Anche la Cooperativa del Teatro ha subito profondamente in termini economici, ogni nostro settore si è interrotto a causa del COVID. Il ristorante, l’emporio, il museo, la foresteria, le ciclofficine e in particolar modo la realizzazione del nostro progetto più importante, il Teatro Povero, che per motivi sanitari non potrà essere realizzato con le modalità consuete. Il mio lavoro in questi mesi è cambiato, abbiamo dovuto pensare maggiormente alla comunità, non abbiamo fronteggiato masse di visitatori ma masse di tante piccole e grandi necessità. La porta dello storico Granaio, sede della Cooperativa, è rimasta aperta naturalmente, così come naturalmente abbiamo cambiato il nostro agire in funzione di queste nuove esigenze: i laboratori di Teatro on-line, lo spettacolo estivo itinerante, il ristorante d’asporto con i tavoli sparsi negli angoli più belli del borgo. Questa naturalezza, che ci ha spinti in avanti riflettendo sulla strada nuova da percorrere senza mai inciampare sull’incertezza di avanzare, è frutto di condividere una direzione, un valore.

Per me quel valore è inspiegabile perché è fatto di tante piccole cose che mi compongono. C’è il primo spettacolo in piazza che vidi a Monticchiello quasi quarant’anni fa, ci sono quei passi degli abitanti che ho imparato a distinguere, quelle spighe che arrivano puntuali e diventano pane e quei tanti animali che dividono con noi questa terra. In una sola parola, questo valore è riassumibile: “Comunità”.

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Monticchiello, la piazza del Teatro Povero

E il teatro?

La situazione che tutti conosciamo ha impattato fortemente con quello che è il nostro modo di fare teatro. La nostra drammaturgia nasce durante le assemblee invernali e primaverili, cui partecipa tutta la compagnia, tutta la comunità; insomma: chi si sente vicino al Teatro Povero. La nascita di un ‘autodramma’, come è stata chiamata la nostra particolare forma teatrale, si affina nel continuo scambio dialettico tra le persone, negli incontri, nelle discussioni, che sono l’anima del nostro lavoro. Ovviamente, una parte di queste discussioni vive anche nell’informalità delle occasioni sociali meno strutturate: non solo assemblee, dunque, ma anche la casualità dell’incontro, che sia per strada o presso la nostra sede, il Granaio, l’unico locale di Monticchiello sempre aperto, dove si ritrovano le persone, che sia per un caffè, per prendere il giornale, per connettersi ad internet, per ritirare i farmaci, o, appunto, per discutere accesamente su qualunque cosa, idee sul teatro comprese. La distanza sociale è il nostro nemico numero uno, in questo senso.

Ora: eravamo riusciti a incontrarci già alcune volte, a partire da metà gennaio, subito dopo la fine del nostro spettacolo invernale. Come da programma, nelle assemblee generali e in quelle ristrette aveva iniziato a prendere forma prima un soggetto e poi una scaletta… Il tema che aveva acceso le nostre discussioni collettive, quest’anno, era stato quello dei beni pubblici: un importante edificio storico del borgo, la torre che svetta sulla cima del colle in cui è arroccato il paese, dopo moltissimo tempo, era finalmente tornato in mano pubblica. Questo aveva acceso la nostra fantasia: sembrava una conquista eccezionale, quella avvenuta… La riflessione spaziava dal significato che la torre aveva avuto nella storia più antica, fino a quello nella vita di generazioni e generazioni di Monticchiellesi, che l’avevano avvertito come luogo totemico di un’autenticità legata alle scorribande nel giardino da bambini e ragazzi, delle prime avventure sentimentali in quel luogo proibito perché privato, identitario però, fin dal colpo d’occhio per chiunque si avvicinasse al paese. E tanto altro stava cuocendo nel calderone delle nostre chiacchiere per il teatro. Come nostro solito, in sintesi, si rifletteva su passato e presente provando a tracciare il futuro della comunità, trovando riferimenti a situazioni e contesti più ampli. Poi, però, è arrivata la pandemia…

Il lockdown di marzo, il grande blocco, ovviamente, non ha significato subito cambiare strada… È stata una lenta presa di coscienza. Teatralmente parlando, la pandemia ha significato intanto dover trovare forme nuove che ci permettessero di mantenere vivi i nostri scambi, pur a distanza, pur con tutte le limitazioni del caso. Ci avrebbe poi costretti anche a rivedere profondamente i nostri piani, le nostre abitudini, il nostro modo di lavorare. Ma questo ancora non lo sapevamo.

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Monticchiello

Quel che sapevamo è che intanto le assemblee ristrette, il gruppo più agile, composto di una manciata o poco più di persone, poteva sfruttare la tecnologia per non interrompere il filo. Per di più, alcuni di noi non si trovavano a Monticchiello. Ecco allora, intanto, le video-conferenze. Ma dovevamo raggiungere gli altri… Beh, quello che forse non è chiaro ma è bene chiarire, è l’età media della nostra compagnia… Piuttosto alta, ecco. Impossibile immaginare che una parte rilevante del gruppo potesse usure strumenti informatici per le video-conferenze. Quindi? Quindi ci siamo affidati alla buona vecchia carta: abbiamo scritto lettere… I ragazzi che lavorano per il teatro diffondevano al Granaio, che praticamente non ha mai smesso di erogare i suoi servizi essenziali, i testi che mandavano; ad alcuni, quelli più in difficoltà a muoversi, li portavano di casa in casa, nella cassetta delle lettere. Raccoglievano poi testimonianze, risposte, messaggi e ce li rigiravano. Insomma, siamo riusciti a non fermarci mai. E lì, lentamente, in questo dialogo tanto diverso dal nostro solito, si è fatta avanti la consapevolezza che avremo dovuto cambiare strada: riprogettare da capo, riscrivere, ripensare completamente… Il nostro spettacolo non poteva non parlare, in qualche modo, di tutto quello che stavamo vivendo, di quanto, anche, stavamo affrontando come cooperativa di comunità sul fronte delle tante emergenze coinvolte: spese di comunità, sostegno alle persone più in difficoltà, rifornimenti vari… Anche se non sapevamo ancora quali sarebbero state le regole per lo spettacolo dal vivo durante l’estate, eravamo però convinti di voler onorare il nostro impegno ad esserci con quello che sappiamo fare, ovvero il nostro specialissimo teatro di comunità.

tamburo

Monticchiello

Dapprima abbiamo iniziato a immaginare una formula che – magari ridotta – ci permettesse comunque di ‘andare in piazza’, come diciamo noi al posto di ‘andare in scena’. Pensavamo, infatti: “Ci faremo aiutare anche dalla tecnologia, magari mescolando forme tradizionali di teatro dal vivo a video, registrazioni, immagini…”. Poi, lentamente, mentre il tempo utile si accorciava, abbiamo compreso che inevitabilmente sarebbe saltata anche la consueta ‘filiera produttiva’: probabilmente non ci sarebbero stati nemmeno più i tempi utili per le maestranze per montare i consueti apparati sceno-tecnici in piazza, per progettare uno spettacolo che avesse quel tipo di ritorno. Abbiamo allora capito che avremmo dovuto sperimentare sul piano degli spazi scenici, del rapporto con il pubblico, del numero di attori coinvolti nelle sequenze narrative… Una sfida, dunque, molto innovativa. Ma non ci siamo arresi. Negli ultimi tempi, anzi, siamo finalmente riusciti anche a ritrovarci in una delle nostre piazze per un’assemblea: distanziati, ‘mascherinizzati ma determinati.
Abbiamo anche capito che, giocoforza, ci sarà una riduzione delle repliche e uno spostamento in avanti dell’inizio delle rappresentazioni, tanto più ora che il quadro normativo inizia a delinearsi dando l’esatta misura degli adattamenti necessari. Prevediamo dunque di iniziare il primo agosto e andare avanti per circa quindici giorni. Le prove saranno in qualche modo compresse, il tutto avrà una dimensione davvero inedita. Ciononostante, per quello che possiamo dire adesso, il nostro obiettivo è e rimane quello di creare il nostro 54° autodramma. Il Teatro Povero resiste, come sempre. E faremo di tutto per farcela.

Dialoghi Mediterranei, n. 44, luglio 2020

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Fabio Rossi, dopo gli studi universitari a Siena (laurea in Scienze Politiche), diviene membro del CdA e dipendente del Teatro Povero di Monticchiello. Per la cooperativa si occupa di innumerevoli attività sociali e assistenziali, seguendo tra l’altro in prima persona lo sviluppo dei progetti di integrazione dei richiedenti asilo. Ricopre anche mansioni di supervisione amministrativa e tecnica.
 Gianpiero Giglioni, collabora da anni con il Teatro Povero; fa parte del CdA della Cooperativa, occupandosi della programmazione culturale e della comunicazione esterna. Dirige il museo del Teatro Popolare Tradizionale Toscano. Insegnante, laurea in Lettere, ha approfondito gli studi in antropologia frequentando la Scuola di Specializzazione in Beni Demoetnoantropologici dell’Università di Perugia.

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