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Migranti che scrivono, storie che rompono il silenzio

 

 9791259960832_0_536_0_75di Lella Di Marco

Come alberi in cammino è il titolo del libro che riporta nella sua ultima edizione del 2021 i sedici testi arrivati alla selezione finale del concorso nazionale DIMMI, Diari Multimediali Migranti (Terre di Mezzo edizione, 2022). Un concorso nato nel 2014 e destinato a raccogliere e far conoscere storie di migranti allo scopo di contrastare stereotipi e malintesi sul mondo umano e culturale delle migrazioni. Un progetto che dialogando con l’Archivio Diaristico di Pieve Santo Stefano ha promosso la creazione di un fondo speciale dei diari migranti.

Come alberi in cammino. Mai metafora fu più indovinata per indicare simbolicamente i migranti, nel loro essere e nel loro divenire, nel mutamento e nell’arricchimento quale valore aggiunto di apporti culturali ed energie vitali offerti al Paese che li accoglie.

La metafora ci ricorda immediatamente quanto da tempo va elaborando Stefano Mancuso  – scienziato di neurobiologia vegetale, di origini siciliane, docente all’Università di Firenze di fama internazionale, ricercatore delle dinamiche del mondo vegetale – sulle capacità di comunicazione degli alberi, sul loro irresistibile vigore destinato a superare ogni ostacolo che interrompa il loro percorso, sulla intelligente duttilità nel cambiare direzione, spostandosi, camminando. Sì, gli alberi camminano, si spostano anche di chilometri. Migrano. È scientificamente provato, e spostandosi oltre a produrre ossigeno rimuovono dall’atmosfera la CO2, l’anidride carbonica responsabile dell’effetto serra.

In coerenza con le finalità del concorso e del volume, abbiamo scelto di riportare due storie tra le più significative con le stesse parole degli autori, onde evitare manipolazioni che possano alterare il senso voluto da chi scrive. Rispettare il pensiero altrui è fondamentale sempre, mediare linguisticamente o tradurre, a volte, può diventare un tradimento, anche se involontario.

104114140_627162754546604_3956578121567332253_nAbbiamo imparato, dalle dirette parole degli autori, che non tutte le migrazioni avvengono per sfuggire alla povertà ma che molti migranti fuggono dalla ristrettezza morale, dalla povertà culturale, dai limiti territoriali, spinti dal bisogno di scegliere autonomamente, senza imposizioni di alcun genere. Conoscere il mondo e altri esseri umani, sviluppare relazioni interpersonali, vivere una sessualità libera senza essere additati al pubblico ludibrio con lo stigma del “diverso”, “depravato”, contro i dogmi religiosi, contro le tirannie di certe morali sessuali, per essere e vivere liberamente da omosessuale, lesbica o gay. Si emigra per poter godere dei diritti umani come in Occidente, essere padroni della propria volontà di decidere ed esserci, senza gabbie e sensi di colpa.

Anche noi potremmo essere alberi in cammino e allora camminiamo leggendo le parole del maliano M. Ba, dalla cui scrittura recuperiamo molte notizie storiche, etnologiche, apprendiamo dei laceranti e forti sentimenti che agitano le partenze, la voglia di essere libero e vivere in un Paese libero, di affermare dignità e autodeterminazione contro ogni forma di potere.

«Mi chiamo Mahamadou Ba e non scappavo né da guerre né da persecuzioni, miseria e deprivazione, sono fuggito, e non ero in pericolo: volevo solo viaggiare. Sono partito dal mio paese con l’unico obiettivo di muovermi, come fanno tutte le persone in tutta la terra, come una persona libera. Rivendico il mio viaggio senza alcuna valenza eroica né salvifica: io volevo solo viaggiare. Tutto quello che ho visto, raccolto nei miei diari, scritto nelle mie poesie, è un insieme di vite incontrate e scambiate, un racconto fatto di interviste, appunti, note e ricostruzioni: tra inchiesta e narrazione ci sono io e le persone che ho incontrato, ci sono io e le motivazioni che mi hanno spinto a spostarmi sfidando i poteri.
Andando con ordine: vengo dal Mali, un Paese misto con molti bianchi e molti neri. Io sono cresciuto in una famiglia molto difficile: mio padre bianco di etnia fulani (nella nostra etnia ci sono persone bianche e nere quindi miste, ma sempre africani) e la mia mamma di etnia bambara (come la lingua maggioritaria del Mali), quindi l’etnia di mia madre è dominante). Lei non era accettata nella nostra famiglia. La nonna e le sorelle di mio padre non hanno mai amato mia madre, Mio padre si è sposato per amore. In Africa ci sono genitori che scelgono loro i mariti per le figlie e le mogli per i figli. Non è possibile opporsi a tale scelta. Mio padre ha deciso di sposare mia madre perché ne era innamorato nonostante il rifiuto della nonna e zie. In Mali ci sono più di sessanta etnie e le persone usano sposarsi fra di loro. È difficile accettare i figli meticci come è successo a me nella mia famiglia, ( …) con il tempo, mio padre per accontentare mia nonna ha sposato altre donne della sua etnia. Sono nati altri figli diversi da me: in tutto siamo diciannove figli, io ho contatti soltanto con un fratello e i miei genitori.
(…) Io mi sono sentito sempre molto solo, mi trovavo bene soltanto a scuola, tornato a casa sentivo un gran vuoto dentro. Non sono molto socievole, vorrei stare con gli altri ma non sono abituato. L’incontro con un certo professore di storia e di geografia ha creato in me una consapevolezza nuova. Io non ho mai capito la colonizzazione, lo sfruttamento umano. Volevo viaggiare per capire, io ho sempre vissuto nell’ingiustizia ed ho sempre desiderato combatterla. Ma per combatterla dovevo prima conoscerla. L’ingiustizia che respiravo proveniva da prima della mia nascita: prima che nascessi io la vita di mia madre era insopportabile. Era trattata malissimo, a casa la insultavano e lei ha avuto anche problemi psicologici. Mio padre viveva fuori e mio nonno tornava la sera tardi. Lei non raccontava nulla ma piangeva molto. Le donne parlavano fulani fra loro e non il bambara, questo per escludere mia madre e i suoi figli. Farli sentire estranei.
Il francese è una lingua che devo usare per forza. I francesi hanno costruito un sistema che rende le persone schiave in Africa. Lo studio in Africa non consente alle persone di essere autonome le lascia dipendenti e obbedienti. Noi in Africa studiamo soltanto per servire le persone. studiamo solo per sapere come si usano le cose dei bianchi e non quelle degli africani. Studiamo la cultura dei bianchi e pochissimo quella africana. Il cinquanta per cento di tutto quello che esportiamo va nelle casse dei francesi e così per tutti i Paesi colonizzati. Ci rendono incoscienti senza la possibilità di fare nulla. Siamo ancora in un sistema di colonizzazione che fa sì che ogni africano pensi che ciò che viene dai francesi è buono. Io sono libero ma sono colonizzato perché non faccio nulla nella mia lingua. In Mali c’è oro e petrolio. Kankan Moussa l’uomo più ricco del Mali è un re maliano, C’è oro a cielo aperto: se ne approfittano solo i francesi. Chi protesta viene ucciso dai politici messi dai francesi.
Quando sono venuto in Europa ho visto la miseria. Non c’è niente qui. Non si sa vivere bene insieme in società. Quando uno straniero arriva da noi sei accolto come un re o una regina. È stata una delusione profonda vedere l’Europa. Non c’è niente da costruire, avete fatto tutto, ora vi mangiate fra di voi. Se vedo il sistema delle cooperative vedo che è completamente travisato. Gente che sfrutta altra gente. Quando ho fatto questo viaggio, ho capito che chi ha fatto esperienza in Europa non racconta la verità a chi sta in Africa. Io voglio raccontare la verità, voglio dire che è uno sbaglio lasciare lo studio e la famiglia per venire a soffrire.
Ci sono cose da cambiare ma ci sono cose che fanno la bellezza della nostra cultura. Prima della colonizzazione francese c’erano delle Università, l’Africa non è mai stato un continente ignorante. C’era un sistema scolastico ben organizzato e una Costituzione con un re, Soundjata Keita, che aveva scritto ben 251 leggi che garantivano uguaglianza nella popolazione, la libertà e la giustizia. Poi con i colonizzatori, con la schiavitù, con il commercio triangolare degli esseri umani: Europa, Africa, America, una vera deportazione. Studiando la Seconda guerra mondiale, ho studiato il ritorno dei soldati che dall’Africa erano partiti per andare in Francia per aiutare l’esercito francese. Quando questi soldati hanno fatto ritorno a casa, hanno raccontato com’era veramente l’uomo bianco. Prima in Africa si pensava che l’uomo bianco fosse il diavolo, che non facesse le cose come gli africani, e se ne aveva paura. Loro si nascondevano nelle loro azioni quotidiane e si facevano vedere solo in posizione dominante. Ma in Francia combattendo al loro fianco hanno scoperto che i bianchi avevano fame, combattevano, avevano paura, morivano come loro. Tornati in Africa hanno detto questo ai francesi e hanno chiesto di essere completamente equiparati economicamente e come diritti. Hanno anche detto: non possiamo più essere assoggettati perché vi abbiamo aiutato ad avere la libertà a casa vostra. I francesi hanno firmato un accordo, poi quando il popolo africano festeggiava per la vittoria, i francesi li hanno attaccati con i carri armati e li hanno massacrati. C’erano tanti africani che avevano sposato donne francesi conosciute durante la guerra e avevano fatto figli e ora i francesi uccidono i padri dei loro figli francesi. Io odiavo i bianchi, li consideravo persone diaboliche, io volevo viaggiare e vedere come in altri paesi si viveva la post-colonizzazione. Volevo conoscere per cambiare le cose di persona. In Mali tutti coloro che vogliono fare politica e non vogliono influenza francese vengono uccisi e arrestati. La classe politica e dirigente che è tranquilla in Mali è dipendente dai francesi. I giovani muoiono nella guerra di secessione fra Nord e Sud. In questa guerra la regione del Nord che si vuole separare è sovvenzionata dai francesi.
Non sono uno schiavo. I modi di imparare sono tanti. Quando io viaggio penso di rappresentare tutta l’Africa. Io devo essere un esempio, devo essere corretto e onesto. Questa è la sola maniera di andare avanti. Una maniera di fare cambiare i pensieri fermi nella testa delle persone al fine di fargli comprendere di avere sbagliato. Probabilmente prima la migrazione africana era più frequente dai villaggi dove c’erano persone senza istruzione che andavano a cercare un lavoro. Noi avevamo due modi di imparare: la scuola ma se non hai avuto la fortuna di andare a scuola e studiare, devi viaggiare Se non riesci neppure a viaggiare che è il secondo modo di apprendere e diventare colto, e ti trovi in mezzo agli altri non puoi parlare. Ti dicono di tacere».

Il viaggio è cultura, conoscenza, sapere. Capire come si vive il post-colonialismo, conoscere l’attuale realtà dei Paesi che hanno subìto il feroce dominio dei bianchi occidentali e colonialisti. Tali sono i pensieri-desideri di M. Ba. Seguiamolo nelle sue tappe lungo un viaggio di scoperte, delusioni. Conferme, ritrovamenti. Anche scegliere di partire non è semplice, pur desiderandolo ci sono resistenze interiori e paura di scoprire realtà dolorose. Laceranti.

«In Mauritania ho conosciuto Cassim, un ragazzino di diciassette anni, con le gambe lunghe sempre allegro. Anche lui maliano era forgeron, lavoratore del ferro. In Mali ci sono etnie che giocano fra di loro, non fanno mai la guerra, si prendono in giro per smorzare l’odio. Questo ragazzo scherzava con me, inventavamo storie sulle nostre etnie, ma non arrivavamo a litigare. Per questo è sacro restare ciascuno al proprio posto. La nostra società è fondata così: ogni etnia ha un suo ruolo nella società; i fulani sono pastori, i bambara agricoltori, i somanò pescatori. Ogni etnia ha la sua particolarità, il suo compito. Si rispettano tutti fra di loro, ma ci sono dei confini fra alcune etnie che non tollerano ingerenze nella propria, ad esempio per i matrimoni.
Cassim mi ha raccontato la sua storia, la sua solitudine, il suo dolore, i lutti, la perdita degli affetti. Storia simile alla mia. In lui ho visto il mio dolore e mi ha fatto riflettere molto sulla mia condizione. Con un amico conosciuto da poco, abbiamo deciso di partire per il Marocco. Noi avevamo documenti in regola ma per uscire devi dare dei soldi, devi avere una autorizzazione e la polizia si faceva dare 100 dirham a testa e dopo hanno messo un timbro e noi abbiamo passato la frontiera. 
Marocco Algeria e tanti altri paesi africani, Spagna e il miraggio dell’Italia. Lì ci hanno fatto pagare per entrare e di nuovo pagare per uscire. Lì ho visto un altro mondo. (…..)»

La descrizione del lungo viaggio è agghiacciante per il senso del rifiuto, l’odio per i neri, lo sfruttamento e il disprezzo nei loro confronti, come fossero gli ultimi derelitti, incapaci, dementi, privi di cervello e cuore della terra. Ma ecco un elicottero che arriva con il gommone di salvataggio: freddo sete, paura.

«Sulla scialuppa siamo saliti secondo un ordine prestabilito. Io in un attimo ho rivisto tutte le cose che hanno portato miseria in Africa. Erano causate dai bianchi; ho avuto l’ennesima delusione. Volevo morire. Io odiavo i bianchi. Nella scialuppa mi sono seduto dietro. Loro hanno preso prima i bambini, i malati, le donne incinte, le donne e dopo i ragazzi, quando hanno finito di prenderli tutti hanno preso anche un ragazzo in coma…. Ci hanno tolto i nostri vestiti, sulla nave, e ci hanno dato delle tute e portato qualcosa da mangiare, ma stavamo tutti male e vomitavamo ( ….). Dopo due giorni di mare siamo sbarcati a Palermo. Ci hanno dato delle coperte e un braccialetto di colore diverso per attestare se stavamo bene o no. Ci hanno portato in un posto dove compilavamo dei moduli con la richiesta di asilo.
Era il 16 dicembre 2016. Siamo venuti a Roma, vedevo solo bianchi, ero insofferente. Il pullman è salito su un traghetto ed è approdato in Calabria, dopo ripartenza per Roma dove siamo arrivati nel pomeriggio. Sono venute a prenderci le cooperative con le macchine e hanno scelto i ragazzi come fossero al supermercato. Alcuni erano contenti, io no. Forse perché avevano la sensazione di essere aiutati. Io avevo l’idea che gli europei non ci aiutano ma che sfruttano i neri».
Rafia

Rafia Boukhbiza

Realmente ogni autore è quel che le sue parole dicono di lui. In una consapevolezza raggiunta nei confronti della realtà che lo circonda. Per concludere ecco quanto ha scritto Rafia Boukhbiza, proveniente dal Marocco, che rivendica diritti umani mai affrontati; proposta esistenziale e politica nuova anche per il nostro Paese. 

La narrazione della sua vita comincia da molto lontano, da quando a quattro anni lui, nato e cresciuto nella vecchia medina di Casablanca, perde il padre; un uomo che era chiamato «el Amine» (il fidato), di grande generosità e solidarietà sociale. Non capisce bene cosa stia accadendo nella sua vita. Si sente abbandonato, privo di qualcosa che gli mancherà per sempre. La madre lo ama e sarà fondamentale per tutta la sua vita ma il piccolo soffrirà molto nel convivere con un altro uomo che sua madre ha deciso di sposare. 

Che le vedove nei Paesi musulmani si risposino è normale: una donna non può stare da sola… ha bisogno di quella protezione che soltanto un marito può dare. O almeno tale è la concezione diffusa. Così accade che il piccolino, solo nel suo tormento, viva per strada, magari protetto a vista da chi gestisce piccoli mercati alimentari per strada e conosce la sua storia. C’è viva una solidarietà umana, popolare, spontanea come può accadere nei piccoli paesi.

Rafia

Rafia Boukhbiza

Gli anni passano e Rafia cresce tra solitudine e ribellione ma la vita stessa gli insegna quale posto occupare, come e dove stare nel mondo. Con stile limpido e semplicissimo Mohamed Rafia Boukhbiza riesce a narrare le sue vicende personali che scorrono accanto ai contemporanei eventi di cronaca, molto spesso sanguinosi e di cruenta repressione. Il suo rapporto deludente con la scuola elementare, con insegnanti francofoni che hanno studiato nella rigida scuola dei colonizzatori francesi, con l’imposizione della cultura e della lingua francese sta vicino al ricordo dei moti di Casablanca del marzo 1965: una carneficina con più di mille morti in seguito alle proteste di studenti e lavoratori contro il carovita. In mezzo alle lotte antigovernative Rafia cresce, scopre l’importanza del sapere e dello studio, frequenta la sede dell’Unione Socialista delle forze popolari che aveva aperto una sezione nel suo quartiere. Legge, studia, discute, confronta le sue idee con quelle degli altri… Acquisisce quella che possiamo chiamare ‘coscienza di classe’ e partecipa a tutte le manifestazioni di lotta anche se i comizi, le manifestazioni del leader Abderrahim Bouabid finivano sempre con cariche della polizia. Il programma del governo era basato fondamentalmente sul garantire “la sicurezza”, rompendo le ossa ai rivoltosi.

Anni di terrore e repressione con molti carcerati e morti. In tanta disperazione si apre uno spiraglio: l’università che Rafia frequenta offre la possibilità di una borsa di studio per la Francia. Lui viene selezionato. Il vantaggio maggiore consiste nel passaporto e potere spostarsi anche in altri Paesi dell’Europa; soltanto persone agiate economicamente e influenti sul piano sociale potevano ottenere tanto.

Non è stato indolore il suo soggiorno in Francia con il «vulcano interiore», come lo chiama, che si ribella a ubbidire ai francesi e accettare il pane da chi colonizzò il suo Paese. Fra tante avventure, a volte, anche molto dolorose, arriva in Italia. Sono gli anni 80. Altre letture e incontri importanti. Arriva a Bologna: delusioni ma anche lotte positive, affettività, incontri e progetti di cooperazione allo sviluppo. Intervenire in Italia per l’unità delle lotte, per lavorare assieme avvicinando persone e culture, per il benessere comune, per la dignità di ognuno, per la consapevolezza di tutti.

Rafia e un amico

Rafia e un amico

La sua più grande delusione avviene quando verifica che i marocchini arrivati prima di lui, quelli che tornavano a casa sfoggiando macchine di grossa cilindrata e acquistando immobili, avevano svenduto la loro dignità per tale falso benessere: privi di qualsiasi consapevolezza della loro nuova schiavitù. Fare i “vù cumprà” senza contratto e diritti è funzionale al capitalismo con una forza lavoro a prezzi irrisori e spesso a rischio della vita perché senza tutele, formazione o prevenzione. Il cadavere del migrante morto sul lavoro non ha neppure un nome. Non c’è chi lo reclamerà, chi potrà seppellirlo, chi potrà denunciare i responsabili dell’accaduto.

Nonostante le grosse contraddizioni con le quali si scontra in questa città, Rafia continua ad amare Bologna e a credere a tutte le persone che incontra quando sente affinità di ideali e disponibilità ad iniziare una lotta «assieme, in comune», come esseri aventi pari diritti e pari dignità, non per i migranti soltanto, in modo lacrimevole. 

Prende inizio al contempo la lotta contro i centri di prima accoglienza, fonda un’associazione di coppie miste, “Sopra i Ponti”, comincia a occuparsi di diritti delle donne, ritiene che per i figli di genitori migranti, nati in Italia, sia utile conoscere la lingua madre, quella che viene trasmessa con il latte materno; sempre seguendo i suoi ideali, senza scatenare il pietismo del povero migrante disperato, per ottenere carità. Intende difendere i diritti universali, contrastare pregiudizi soprattutto con un operato corretto e virtuoso: per iniziare il cambiamento possibile e distruggere il “fango del sociale” che emerge. Capisce che politicamente è indispensabile creare rete. Lunghe lotte con discussioni, dibattiti, contaminazione di idee e culture, assemblee fitte anche con partiti, circoli sociali, centri giovanili. Con molta attenzione perché non accada che virate di protagonismo o autoesaltazioni spingano qualche gruppo a porre soltanto il suo marchio. La lotta deve essere di tutti per tutti. Il cambiamento è possibile se tutti sono responsabili.

Vichy Kalev Helvetia Bangou

Vichy Kalev Helvetia Bangou, una delle autrici

La scommessa di Rafia continua. Contro lo sfruttamento e la rapina di salute e dignità umana. Contro la colonizzazione del cervello verso Reti di migranti attivi per un cambiamento profondo: con azioni già messe in campo, con uno stile di vita e produzione alternativi, con progetti di sostegno al mondo rurale, fatto di piccole cooperative, di turismo solidale lungi da ogni sfera di folclore per turisti.

L’idea di un’economia popolare, che vede il sapere artistico-artigianale-creativo delle donne al centro dello sviluppo, prende piede nel progetto politico che elabora assieme all’idea che l’unica salvezza possibile è affidata alla costruzione della Rete delle reti con un linguaggio condiviso: solidarietà economica, dignità, democrazia dal basso, felicità globale. 

Conosco Rafia da quando è arrivato a Bologna, ho seguito e condiviso le sue iniziative, conosco tutta la sua storia personale dai suoi lunghi racconti. Rafia pensa, costruisce progetti, pratica attività sociali politiche culturali, tesse relazioni umane profonde. Rafia nel suo temperamento, nella sua sensibilità spruzza gocce di poesia come quando mi scrive: «Grazie Lella, le circostanze della vita ti fanno incontrare persone di passaggio e persone che durano per sempre, perché il legame che ci ha permesso questo essere senza stancarci uno dell’altro si chiama sentiero dei valori. Tanta ammirazione per quello che sei». 

Rafia arriva a Bologna con una formazione politica di rifiuto del potere che colonizza le coscienze ed usa individui come merce da cui trarre profitto. La mercificazione di corpi e coscienze è fondamentale per una schiavitù a vita. Non vuole fortemente essere marocchino sganciato dal Marocco. Mantiene in sé l’idea della necessità di essere connessi popoli persone e Paesi per il cambiamento possibile. In lui sempre presente il bisogno di sapere, conoscere capire, di praticare quello che anche il Corano ritiene fondamentale nella vita: ICRA تنفيذي-

In Italia frequenta ed è sostenuto dalle organizzazioni di sinistra, lancia ponti verso il Marocco; costruisce reti ottiene ottimi risultati in sinergia. 

«Tutti dicono che le reti nascono per morire. Una definizione che determina, come detta il sistema e il modello da seguire, modo di vita che non riconosce “il Noi”. La scommessa era sconfiggere questa colonizzazione del cervello umano, liberare l’uomo dalle catene dell’Impero finanziario. La rete prende forma giuridica e diventa opportunità a sostegno della base del mondo rurale, fatto di piccole cooperative, associazioni, il tessuto della società civile. La “diaspora” (cioè noi migranti attivi e militanti per il cambiamento) era la promotrice di questo stile di vita grazie alle azioni messe in campo: progetti di co-sviluppo turistico-culturale, economia popolare che vede il sapere artistico artigianale delle donne rurali come il centro dello sviluppo.
Trovarmi circondato da attori che sostengono il mio cammino per una giustizia sociale è il mio capitale. L’impegno non è facile di sicuro, c’è in ballo anche denaro pubblico da gestire con oculatezza e responsabilità, ma grazie all’utilizzo diverso si sono realizzati sogni che diventano realtà. Rafforzare la collettività, rete della rete, è dimostrare che l’unica possibilità di sopravvivenza oggi è unire le forze popolari per uno stare bene insieme». 

locConclusioni 

«Da Omero alla Bibbia, sono sempre state le persone a rappresentare le vicende dal proprio punto di vista. Se il loro racconto riesce, appassiona, allora la storia da piccola, minuta, ritorna grande. Addirittura universale. È un discorso che vale in generale» (Lia Levi).  

Il proliferare di inviti, iniziative, concorsi a premio, borse di studio … relativamente a scritture migranti, ma a giovani in generale, anche scrivendo soprattutto “a mano” (e il riferimento è al progetto Manu scribere organizzato da una grande biblioteca a Bologna), mi fa riflettere molto sul bisogno di ascoltare le voci vere, conoscere dal vivo il vissuto delle persone, per conoscere la verità. Realmente soltanto il vissuto delle persone, nonostante possano presentare punti di vista diversi, poggia su una base di verità oggettiva, assieme al grande sforzo di analisi interiore che ogni scrittura autobiografica esprime.

Tanto implica un giudizio critico, di fatto, nei confronti di intellettuali e politici che parlano sempre al posto di altri. E conoscere e ascoltare le voci dei migranti protagonisti delle storie apre, anche, la strada per denunciare e contrastare ingiustizie e disuguaglianze. 

Dialoghi Mediterranei, n. 58, novembre 2022 

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 Lella Di Marco, laureata in filosofia all’Università di Palermo, emigrata a Bologna dove vive, per insegnare nella scuola secondaria. Da sempre attiva nel movimento degli insegnanti, è fra le fondatrici delle riviste Eco-Ecole e dell’associazione “Scholefuturo”. Si occupa di problemi legati all’immigrazione, ai diritti umani, all’ambiente, al genere. È fra le fondatrici dell’Associazione Annassim.

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