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Macalda femme fatale. Dell’audacia femminile nel tempo dei Vespri

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Macalda di Scaletta

di Antonino Cangemi

Quanto c’è di romanzesco nelle vite reali e quanto la letteratura rende romanzate le vite reali? Dipende. Vi sono esistenze grigie e anonime che la più feconda fantasia fatica a trasporre in romanzo; ve sono altre così avventurose e ricche di coupe de téậtre che il più estroso scrittore non riuscirà mai a trascriverle. Quella di Macalda di Scaletta, spregiudicata cortigiana nella Sicilia del secolo XIII attraversata dai tumulti dei Vespri e dalla transizione dei domini angioini e aragonesi, fu una vita che nemmeno il più sensazionalistico feuilleton dell’800 sarebbe riuscito a raccontare.

Bella, disinibita, spavalda, ambiziosa sino agli eccessi, cinica, Macalda di Scaletta fu una donna di straordinaria personalità. Unica per il suo temperamento ardito, incomparabile per il suo stile di vita lontano mille miglia dai consueti cliché. Fece del suo fascino androgino un’arma pungente, tante volte letale, audace arrampicatrice sociale raggiunse posizioni elitarie senza mai accontentarsi, trasformista e simulatrice non conobbe regole, men che meno morali, tranne una: quella della trasgressione.

Le sue origini furono assai umili [1]. La bisnonna sbarcava il lunario vendendo generi alimentari in una bancarella esposta ai capricci del tempo in quel di Messina. Il nonno Matteo Salvaggio era custode del castello di Scaletta, presidio strategico sulla strada tra Catania e Messina. Le sue fortune iniziarono quando, su concessione dell’imperatore Federico di Svevia, alla morte del castellano riuscì a ereditarne l’ufficio, e aumentarono col ritrovamento di un tesoro. L’improvviso arricchimento servì a nonno Matteo per conquistare uno status sociale più elevato e, con esso, il “titolo” di Scaletta che sostituì l’originario cognome tutt’altro che patrizio; ma gli servì soprattutto per fare studiare il figlio Giovanni e instradarlo nella buona società al punto di sposare una nobildonna del casato dei Cottone. Da quel matrimonio nacquero Matteo e poi, intorno al 1240, la nostra Macalda.

Fu così che ebbe inizio, in quel che oggi è il piccolo comune di Scaletta Zanclea, la vita avventurosa della “Giovanna d’Arco di Sicilia”, come è stata definita Macalda di Scaletta: nelle sue vene un po’ di sangue blu ereditato dalla madre e nello spirito tanta vitalità, espressa nella smodata ambizione sociale ereditata dagli avi paterni. Cresciuta in fretta, Macalda appagò le sue mire aristocratiche (quel quarto di nobiltà materno non le bastava) sposando, giovanissima, un attempato signore caduto in disgrazia, Guglielmo de Amicis, barone di Ficarra, spogliato dei suoi beni ed esule per volere degli Svevi. Quel matrimonio le fece guadagnare i galloni di baronessa di Ficarra; il marito, di contro, non riuscì ad ottenere quello che dalle nozze con una donna astuta capace di accattivarsi le simpatie dei potenti si attendeva: recuperare il possesso del feudo di Ficarra. Fu un’unione coniugale piuttosto breve: Guglielmo de Amicis, di salute cagionevole, morì poco dopo e Macalda non ci pensò due volte ad abbandonarlo agonizzante nell’Ospedale dei Templari.

Libera da vincoli coniugali, Macalda s’avventurò in giro per l’Italia meridionale soggiornando soprattutto nella provincia di Messina e in quella di Napoli. Vestita da frate francescano o da guerriero con tanta di armatura, Macalda mise in luce le sue abilità militari: «Valorosa nelle armi e di eroico coraggio tra i pericoli delle armi» la descrive Vito Amico nel suo Dizionario topografico della Sicilia [2]. Il suo disinvolto ricorso a travestimenti in tempi in cui questi erano severamente proibiti ne rimarca l’imprudenza e lo spirito sprezzante ogni convenzione [3]. Secondo diverse fonti [4], in quel periodo Macalda allacciò più di una relazione incestuosa sia a Napoli che a Messina. Tornata in Sicilia, la più sui generis tra le dame s’adoperò per conquistare i favori dei notabili e soprattutto di Re Carlo: mirava sempre in alto la sua ambizione. E ci riuscì grazie alle sue capacità ammaliatrici accompagnate da quelle militari e diplomatiche. Ciò a cui vanamente aveva aspirato il marito, lei seppe guadagnarselo: il feudo di Ficarra e gli altri beni sottratti a Guglielmo de Amicis.

Pare che anche il suo secondo matrimonio, contratto con Alaimo da Lentini conte di Buccheri, allora molto influente nella corte angioina, sia stato favorito dalla benevolenza di Re Carlo. Strano destino, e come vedremo tragico, quello di Alaimo da Lentini, ammogliatosi due volte con donne dallo stesso nome, Macalda.

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Macalda di Scaletta

La riconoscenza mal si coniuga con l’arrivismo, segno distintivo di donna Macalda, che non esitò a tradire gli angioini, in ciò rendendo complice Alaimo da Lentini. Quest’ultimo peraltro era incline al trasformismo: pur di ricoprire incarichi che ne accrescevano il potere, da impenitente voltagabbana non esitava a cambiare casacca. Alaimo da Lentini era uomo di tutte le corti e di tutte le stagioni: in passato, al declino degli Svevi, presso cui prestava i suoi servigi, aveva offerto fedeltà a Carlo I d’Angiò, che l’aveva accolto tra i suoi seguaci. Quando le fortune nella corte angioina cominciarono a svanire, Macalda di Scaletta e Alaimo da Lentini, fiutando il nuovo corso della storia sposarono la causa dei siciliani rivoltosi e si resero protagonisti delle sommosse del Vespro. Nel 1282 durante l’assedio di Messina, Alaimo da Lentini, nelle vesti di Capitano del Popolo, orchestrò la difesa della città contro l’offensiva degli Angioini, mentre a Macalda venne affidato l’incarico di Governatrice di Catania. Tra i tanti episodi che si raccontano su Macalda e che ne rivelano la spregiudicatezza, uno è riferito al periodo in cui fu preposta al governo di Catania. Nei tumulti dei Vespri i soldati angioini, ignari del suo tradimento, le si erano rivolti per ottenere il suo aiuto; lei simulò di accoglierli benevolmente, li spogliò delle armi e li consegnò alla ferocia del popolo ribelle.

La rivolta dei Vespri era stata generata dall’ostilità delle élites e del popolo siciliano verso un governo indifferente alle sue istanze e per nulla partecipe ai suoi bisogni; l’insofferenza verso gli Angioini era inoltre esasperata dal loro eccessivo fiscalismo. Mentre il potere angioino si spegneva sotto i colpi dei Vespri, s’intravedeva dietro l’angolo quello aragonese. Abile come sempre a leggere le trame della politica e avvezzo a navigare nella direzione del vento, Alaimo da Lentini si accostò alla corte di Pietro III di Aragona. Che l’accolse a braccia aperte: il nuovo sovrano dell’Isola aveva bisogno di potenziare i sodalizi con i ceti dirigenti e Alaimo da Lentini, seppure non certo un campione di fedeltà politica, era un professionista della vita di corte, un collaudato grand commis dei regnanti: scaltro, cinico e privo di scrupoli, come si conveniva per quegli uffici. Pietro d’Aragona gli concesse la carica di Siniscalco del regno. Grazie alla quale il marito di Macalda, unico siciliano nei posti di vertice, assunse funzioni delicatissime e di primo piano nella corte aragonese.

La posizione di rilievo conquistata dal marito stimolò l’esagerata ambizione di Macalda. Non le bastava essere trattata coi guanti e riverita più delle altre dame in quanto moglie di un signore di punta della corte aragonese: troppo poco per Macalda. Macalda puntava a cingersi la chioma con la corona. La più temeraria tra le arriviste per la prima volta andò incontro a Pietro III a Randazzo, dove il re in quel momento si trovava. Macalda, stretta in una scintillante armatura e con in mano una mazza d’argento, aveva al seguito un lungo codazzo di cavalieri e guerrieri cinti da vesti eleganti e marziali. La nobildonna intendeva far sfoggio al re della sua potenza, mostrarsi a lui come un’imperatrice. Per far crescere a dismisura la benevolenza del re nei suoi confronti, Macalda contava sul suo fascino di donna sensuale e determinata al tempo stesso, dal carattere forte e dalla passionalità veemente. In più stimava che una più salda alleanza con le feudalità siciliane al re conveniva, almeno per mettersi al riparo dalle spinte autonomistiche manifestatesi con la rivolta dei Vespri. Al cospetto del re, così gli si presentò: «Macalda son io, o re o signore, moglie di Alaimo milite di Leontino, e il tuo regno ho aspettato come tutti gli altri siciliani. Di gran consolazione e gaudio è a me questo felice giorno, in cui la Sicilia, per opera tua, liberò il Signor dalla sua miseria»[5].

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Costanza d’Aragona Hohenstaufen

Il re fu con Macalda molto cortese, ma non cedette alle sue lusinghe; la congedò elegantemente e si diresse verso Palermo. Dove lei, che non s’arrendeva facilmente, lo seguì. Pietro III resistette agli “assalti” di Macalda, seppe far scudo alle sue profferte amorose – che certamente non mancarono. Nel re prevalse, prima ancora che l’affetto nutrito verso la regina Costanza Hohenstaufen – che pare comunque non mancasse e che fosse sincero –, l’ascendenza che la moglie, di origini sveve, esercitava sulla nobiltà siciliana. Mite e intelligente, Costanza Hohenstaufen assumeva in quella corte un ruolo fondamentale nel mediare e comporre le istanze dei siciliani.

Nacquero così la potente gelosia e l’acerrima rivalità tra Macalda e Costanza Hohenstaufen. Gelosia e rivalità, in verità, che s’impadronirono di Macalda, ma che appena sfiorarono Costanza. A detta degli storici [6], quella che inscenò Macalda contro Costanza più che una gelosia amorosa fu una sfida politica. Una sfida politica goffa, patetica, irragionevole. Macalda non poteva paragonarsi a Costanza per discendenze nobiliari: l’una, a voler scavare bene, proveniva dai Salvaggio, l’altra da Federico II; Macalda, a dispetto delle parate esibizionistiche, non disponeva di un esercito, né poteva contare su alleanze dinastiche; non ultimo, il re rimaneva indifferente al suo fascino. Ma Macalda le tentò tutte e cercò di irridere la regina a ogni evenienza, forse anche per frustrazione dei suoi propositi e per invidia. Tanti gli episodi di emulazione nei confronti della regina di cui Macalda si rese protagonista.

Un giorno in cui la regina, ammalata, si recò al duomo di Monreale attraversando Palermo in lettiga anziché a cavallo, Macalda, pur in perfetta salute, col solo scopo di denigrarla, sfilò per le vie di Palermo in una lettiga vistosamente bordata di panni rossi portata a spalle da soldati del marito e da contadini del suo paese. Altro affronto: quando Macalda ebbe da Alaimo da Lentini il primo figlio, la regina con i figli Giacomo e Federico si offrirono di tenerlo a battesimo; Macalda però indugiò adducendo come scusa la cagionevolezza dell’infante, per poi farlo battezzare, a onta dei reali, da dei popolani. E anche il figlio della regina, Giacomo, fu vittima dello sfoggio canzonatorio di Macalda: mentre il futuro re passava in rassegna le contrade siciliane accompagnato da una trentina (non più) di cavalieri, si vide raggiungere dalla singolare rivale della regina scortata da un plotone incredibile per lusso, numero esagerato di soldati, loro aspetto equivoco: «Trecentosessanta uomini d’arme, di dubbia fede o sospetti, spigolati apposta da varie terre» , come racconta lo storico Bartolomeo da Neocastro [7].

Tanta acrimonia verso la regina – che la “Giovanna d’Arco di Sicilia” sprezzantemente chiamava “madre di Giacomo” [8] –, e così maldestramente manifestata, costò caro a Macalda, e non solo a lei: anche la fiducia nei confronti di Alaimo da Lentini nella corte aragonese cominciò a vacillare. D’altra parte, da poco approdato in Sicilia, Pietro III era stato avvertito della doppiezza di Alaimo da Lentini e di quanto sul suo operato incidesse l’influenza negativa della moglie. Era stato il messinese Vitalis de Judice, un vecchio fedele agli Svevi – fedeltà di cui pagò dazio –, a metterlo in guardia. Vitalis de Judice, ridotto in stato di miseria e vestito come un mendicante, incontrò il re a Milazzo. Ma Pietro III gli prestò udienza senza tenere in considerazione i suoi ammonimenti: l’aspetto cencioso del vecchio di certo non deponeva a suo favore e il re in quel momento pensava a farsi amici i notabili siciliani, non a crearsi nemici [9].

Incise molto sul declino di Alaimo da Lentini in casa aragonese l’atteggiamento tenuto dal Siniscalco del regno con il principe di Salerno Carlo lo Zoppo, figlio di Carlo d’Angiò. Così benevolo da far sospettare il proposito di volerlo proteggere. Il figlio del re, Giacomo, voleva che Carlo lo Zoppo, catturato nella battaglia navale del Golfo di Napoli del 1284, fosse decapitato, ma Alaimo da Lentini, facendo valere la sua carica, si oppose. In poco tempo si diffusero voci calunniose sul conto del marito di Macalda e si sospettò che congiurasse contro il regno. Le accuse  – come succede in questi casi, tante volte prive di riscontri concreti – si moltiplicarono e Alaimo da Lentini fu costretto a presentarsi dinanzi al re a Barcellona per render conto dei presunti misfatti. L’accoglienza di Pietro III fu apparentemente cordiale, ma in quel soggiorno in Spagna il marito di Macalda fu strettamente sorvegliato alla stregua di un prigioniero.

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Il Castello di Scaletta Zanclea (Messina)

Avrebbe più rivisto la sua Sicilia il Siniscalco del regno caduto in disgrazia? Sì, ma non ci avrebbe più messo piede. Quando gli fu concesso di ritornare in patria, nell’agosto del 1287 fu gettato a mare inzavorrato dopo la lettura della sentenza di condanna a morte nell’imbarcazione che da Barcellona conduceva in Sicilia. L’esecuzione avvenne nei pressi di Marettimo, quando l’approdo in Sicilia era vicino. A decretarne la condanna capitale fu Giacomo II, nel frattempo, morto Pietro III, succeduto al trono del padre. Giacomo II, di gran lunga meno indulgente del padre verso l’infedele uomo di corte, volle riservargli la mazzeratura, trattamento all’epoca destinato ai traditori: l’annegamento dopo essere stati rinchiusi dentro un sacco.

Se le sventure di Alaimo da Lentini ebbero inizio prima, quelle della moglie Macalda seguirono da lì a poco. Non molti mesi dopo la partenza del marito per Barcellona, il 19 febbraio 1285 Macalda venne imprigionata nel castello di Matagrifone di Messina. Ma anche dentro le mura del carcere non passò inosservata: destarono clamore l’abbigliamento vanitoso, certo atteggiarsi arrogante e provocatorio e, soprattutto, la sua abilità nel gioco degli scacchi. Nel carcere incontrò un altro nobile recluso, l’emiro Margam Ibn Sebir, col quale s’intrattenne in lunghe partite a scacchi. «Lasciava stupiti i suoi carcerieri per la vivacità e l’immodestia degli abiti che indossava allorché si recava a giocare a scacchi»[10], rileva, sul conto della nostra eroina, uno storico del XVII secolo. Sicché, donna Macalda nei suoi ultimi giorni trascorsi in prigione si conquistò un primato che storici accreditati [11] le riconoscono: quello della prima donna, almeno in Sicilia, a destreggiarsi nel gioco, tutto strategie ed elucubrazioni cerebrali matematiche, degli scacchi [12].

Macalda sopravvisse a lungo al marito. Alcune fonti ne segnano l’anno di morte nel 1305, ma sono state contraddette dai documenti d’archivio in cui si rinvengono suoi atti datati nel 1307 e nel 1308. Ne consegue che la data della sua morte è successiva al 1308. A detta di Laura Sciascia, «vent’anni dopo la morte del marito era ancora viva e vegeta, proprietaria di un palazzo a Messina e in rapporto d’affari con i futuri padroni di mezza Sicilia, i Chiaramonte» [13]. Però, che donna Macalda di Scaletta, verrebbe da esclamare: indomita, inesauribile nella sua verve provocatoria e iconoclasta, capace sempre di risollevarsi dalle avversità.

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Macalda di Scaletta e Alaimo da Lentini.

Su di lei, i giudizi degli storici coevi divergono, sebbene prevalgano quelli che ne accentuano gli aspetti negativi. Ne disegna un ritratto a tinte fosche, in cui si sottolinea il suo cinismo e l’assenza di scrupoli morali nonché la licenziosità dei suoi costumi sessuali da femme fatale, Bartolomeo da Neocastro [14]. Di contro, il cronista catalano Bernart D’Escolt la esalta: «Molto bella e gentile, e valente nel cuore e nel corpo; larga nel donare, e, quando n’era luogo e tempo, valea nell’arme al par d’un cavaliero», e giustifica persino le sue lusinghe verso Pietro III: «Ne rimase innamorata come di colui che era valente e aggraziato signore, non già per cattiva intenzione» [15]. È soprattutto nell’Ottocento che la figura di Macalda di Scaletta viene riscoperta. Lo storico Michele Amari [16], con gusto romantico, la descrive mettendo in luce i tanti tratti esuberanti della sua personalità e le molte vicende rocambolesche di cui fu protagonista. Ma è la letteratura più che la storia a interessarsi di lei. Tante sono le opere che ne rappresentano con taglio melodrammatico la vita avventurosa. Né poteva essere diversamente: Macalda di Scaletta, come si è scritto all’inizio, è di per sé un personaggio e le vicende della sua esistenza sembrano appartenere alla letteratura prima ancora che alla vita reale.

Detto ciò, non può stupire che l’eco delle sue gesta (ci si consenta l’enfasi di un’espressione aulica) sia giunta a Boccaccio e abbia fatto incursione in leggende popolari. La storia dell’invaghimento di Macalda e della sua passione per Pietro d’Aragona, tramandata dalla tradizione orale in diverse versioni edulcorate e lontane dalla realtà, pervenne a Boccaccio. Che, a modo suo, la traspose nella novella settima della decima giornata del Decamerone [17]. La storia è raccontata da Pampinea ed è ambientata al tempo dei Vespri siciliani.

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Pietro con Costanza mentre bacia l’inferma Lisa nell’episodio del Decameron, lontana eco del trasporto amoroso di Macalda di Scaletta per il re

Quando Pietro d’Aragona sbarca in Sicilia e si avvia a conquistarne il dominio, entra baldanzoso a Palermo con al suo seguito uno stuolo di cavalieri. La sua bellezza e il suo portamento regale colpiscono il cuore di una giovane nobildonna in età di marito, Lisa Puccini, figlia di un aristocratico fiorentino. Il suo è un innamoramento folle al punto di ammalarsi. La ragazza si rivolge a un trovatore pregandolo di riferire al re il suo amore. Appreso di quell’amore, il re si reca dalla fanciulla priva di forza e quasi agonizzante nel suo lettino. Ma le attenzioni del re, che la bacia sulla fronte e si dichiara suo cavaliere in eterno, sono miracolose: Lisa Puccini riacquista d’incanto la salute perduta e il re le dà in sposo un nobile cavaliere della sua corte e le offre in dote alcuni possedimenti. La novella del Boccaccio – frutto, come si è detto, di narrazioni orali infedeli – chiaramente non solo travisa la realtà, ma la capovolge cospargendola di tanto di quel miele e di nobili sentimenti assenti nei fatti tramandati dalla storia.

E c’è pure una leggenda popolare, ancora tanto diffusa a Catania, in cui compare Macalda di Scaletta, che però questa volta viene raffigurata nella sua perfidia. È la leggenda di Gammazita ambientata ai giorni dei Vespri e che anzi spiega i motivi della rivolta [18]. Tutto sarebbe accaduto nel 1282. Donna Macalda, vedova del barone di Ficarra, è una donna bella e sfrontata, corteggiata da tutti i cavalieri. Ma il cuore le palpita per il suo paggio Giordano, e solo per lui. Succede però che un giorno Giordano è incantato dalla bellezza di una popolana, Gammazita, che ricama dinanzi l’uscio della sua abitazione. Giordano si innamora dell’avvenente Gammazita scatenando la feroce gelosia di Macalda. Che induce il soldato francese de Saint Victor, in cambio della promessa dei suoi favori erotici, a tendere un’imboscata a Gammazita per circuirla. De Saint Victor non si lascia pregare: mentre Gammazita sta recandosi al pozzo per prendere l’acqua, il francese l’assale e cerca di farla sua. Gammazita riesce a divincolarsi e per salvare il suo onore si getta nel pozzo perdendo la vita. Da quel fatto sarebbe scaturita la rivolta dei siciliani ai tirannici angioini. In quel pozzo (battezzato il Pozzo di Gammazita), nel centro di Catania, rimangono delle chiazze rosse originate dai depositi di una sorgente minerale. Per molti catanesi ancor oggi sono le macchie del sangue di Gammazita.

6Ma torniamo a Macalda di Scaletta. Che cosa resta di lei nella memoria contemporanea? Poco o nulla. Qualche studioso di storia di tanto in tanto se ne ricorda, ma la gente comune non la conosce. Vittima della damnatio memoriae, la vita Macalda di Scaletta giace nel dimenticatoio, come tante altre vite grigie e anonime, così diverse dalla sua, che si sono succedute nel tempo. E la sua figura, quando viene ricordata, è rappresentata per stereotipi opposti: la femmina dissoluta e malvagia, priva di freni morali – l’esatto contrario della donna madre custode del focolare domestico; la donna emancipata ante litteram, paladina dei liberi costumi – come rivalutata dalle femministe. In realtà, occorre non solo rispolverare la sua immagine caduta nell’oblio, ma anche riconsiderarla facendo leva su una più corretta chiave di lettura che tenga conto dell’epoca in cui visse e del contesto sociale in cui si mosse, senza cedere alla tentazione della demonizzazione e della santificazione [19]. Agli storici l’ardua sentenza. E però l’irriducibile Macalda, mossa dall’ira dell’essere stata dimenticata, pare che consumi post mortem la sua vendetta: c’è chi giura di aver visto il suo fantasma aggirarsi minaccioso nel castello messinese di Matagrifone.

Dialoghi Mediterranei, n. 36, marzo 2019
Note

[1] Vedasi Dora Marchese, L’epica della passione. La Sicilia di Macalda di Scaletta, Lia Puccini e Gammazita, Carthago, Catania, 2018, pp. 15 e segg.. L’autrice rimarca le origini umili di Macalda di Scaletta  per ricostruirne la  figura, quasi si annidasse nella sua storia familiare l’ansia irrefrenabile del riscatto sociale; inoltre, si sofferma sul cosiddetto “selvaggiume” che, ricordando il cognome ( o spprannome?) del nonno paterno di Macalda di Scaletta, Salvagius, la induce ad accostare quest’ultimo al Peppe Giunta, detto “Peppe Mmerda”, padre di Angelica de Il gattopardo di Tomasi di Lampedusa.
[2] Vito Amico, Dizionario topografico della Sicilia, vol.2, Morvillo, Palermo, 1856.
[3] Dora Marchese, op.cit.: 19. L’autrice osserva come il ricorso al travestitismo fosse un indice della sua spregiudicatezza, tanto più ove si consideri che fu consentito alla festa di San Agata solo dopo un apposito editto, emanato diversi secoli dopo quello in cui visse Macalda di Scaletta.
[4] Vedasi, tra gli altri, Bartolomeo da Neocastro, Historia Sicula, a cura di G.Paladino, Zanichelli, Bologna, 1922.
[5] Dora Marchese, op.cit.:18.
[6] In questo senso si esprime, tra gli altri, Marco Blanco, Scacco alla regina in Storia mondiale della Sicilia a cura di Giuseppe Barone, Laterza, Bari, 2018: 161 e segg..
[7] Bartolomeo da Neocatro, op.cit..
[8] Laura Sciascia, Macalda Scaletta in Siciliane. Dizionario biografico a cura di M. Fiume, Romeo, Siracusa, 2006.
[9] Vedasi Macalda di Scaletta “avventuriera siciliana” in Etnacountries, 2018.
[10] Vedasi P. Carrera, Il gioco degli scacchi, Militello, Giovanni de’ Rossi da Trento, 1617: 88.
[11] Vedasi Santi Correnti, La sicilia del Seicento, società e cultura, Mursia, Milano, 1976. 218 e segg.
[12] In questo senso anche Ester Rizzo (a cura di), Le mille. I primati delle donne, Navarra, Palermo, 2016: 69.
[13] Laura Sciascia, op. cit, :175.
[14] Bartolomeo da Neocatro, op.cit..
[15] Vedasi Bernard.D’escolt, Cronaca del re don Pietro e dei suoi antecessori in R.Muntaner – B. D’escolt, Cronache catalane, Sellerio, Palermo, 1984.
[16] Vedasi Michele Amari, La guerra del Vespro siciliano o un periodo delle istorie siciliane del secolo XIII, a cura di F.Giunta, vol.1, Flaccovio, Palermo, 1969.
[17] Dora Marchese, op.cit.: 57 e segg..
[18] Dora Marchese, op.cit.: 87 e segg..
[19] In questo senso Dora Marchese, op.cit.,:13 e segg.
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Antonino Cangemi, dirigente alla Regione Siciliana, ha pubblicato, per le edizioni della Regione, Semplificazione del linguaggio dei testi amministrativi (Palermo, 2007) e Mobbing: saperne di più per contrastarlo (Palermo, 2007); con Antonio La Spina, Comunicazione pubblica e burocrazia (Franco Angeli, Milano 2009); I soliloqui del passista (Zona, Arezzo 2009); Siculaspremuta (Dario Flaccovio, Palermo 2011); Beddamatri Palermo! (Di Girolamo, Trapani 2013); Il bacio delle formiche (Lieto Colle, Faloppio-Como 2014); D’amore in Sicilia. Storia d’amore nell’Isola delle isole (Dario Flaccovio, Palermo 2015). Collabora con i quotidiani «La Sicilia», «Sicilia Informazioni» e, saltuariamente, con «La Repubblica» (edizione di Palermo).

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