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L’ossimoro sardo: un sistema di autonomia subalterna

antica_carta_linguistica_sardegna_modificatadi Costantino Cossu

Esercitare un approccio critico intorno alle visioni in chiave nazionale della storia della Sardegna. Questo lo scopo che Luciano Marrocu apertamente dichiara nell’introduzione a Storia popolare dei sardi e della Sardegna, il nuovo saggio dello storico cagliaritano pubblicato da Laterza nella collana “i Robinson”. Storia popolare significa taglio divulgativo, nel senso alto del termine, secondo una pratica che in Italia è purtroppo poco diffusa, specie se a paragone di altri contesti, in particolare di quello anglosassone. Una scelta che consente all’autore di entrare nel merito della questione nazional-identitaria in presa diretta, potremmo dire, rispetto alle urgenze di una riflessione contemporanea che non è solamente storica.

Marrocu riesce pienamente nell’intento dichiarato. Ci riesce grazie alla capacità di associare la ricostruzione dei processi storici nei quali la Sardegna è stata coinvolta a uno sguardo attento alla sensibilità contemporanea per il tema delle differenze, ben oltre le visioni identitarie che, nel campo vasto della cultura globalizzata ma anche in molte pratiche militanti, tendono a costruire recinti partendo, paradossalmente, da rivendicazioni di libertà. Sono invece, ci ricorda Marrocu, la complessità dei fatti, il significato plurimo dei dati storici, a denotare i movimenti reali, sia quelli che attraversano, nell’immediatezza, gli spazi della socialità sia quelli che, nella lunga durata, definiscono il campo specifico della ricerca storiografica.

Complesso è, al termine del ciclo della civiltà nuragica, il rapporto tra Sardegna e universo fenicio-punico. Marrocu evidenzia come i contrasti, nella fluidità dei processi storici, si compongano in intrecci. Tensione dialettica tra il mondo senza scrittura del popolo delle torri e l’universo dei mercanti che da Tiro e da Sidone arrivano sulle coste dell’Isola per impiantare le loro basi commerciali. Tensione dialettica tra due universi che dialogano, che si contaminano, che confliggono in maniera non distruttiva. Nasce dal contatto una realtà – fatta di economia, di società, di cultura – che non è più sarda e non è più neanche fenicia. Diverso, certamente, il periodo immediatamente successivo, quando con Cartagine si va oltre le basi mercantili e si passa all’occupazione territoriale. Ma la ricostruzione di Marrocu mostra come, anche in questo caso, sulla lunga durata, che è l’unica che storicamente conta, l’essenziale è il processo di fusione tra due modelli di civilizzazione, la nascita di una Sardegna sardo-punica che ha fortissimi tratti di specificità. Tanto forti che quell’entità nuova e originale resisterà a lungo al dominio romano. E sarà il meticciato il tratto specifico della Sardegna che il crollo dell’impero di Roma consegnerà al breve passaggio vandalo e alla dominazione bizantina: una realtà in cui i flussi storici sfociano in un ordine sociale e simbolico che mostra i tratti di ciascuna delle civilizzazioni succedutesi nell’Isola, ma senza che alcuna di esse (neppure quella romana) prevalga, fuse come sono in un unicum composito che finisce per assumere i tratti di un’originale identità spuria.

Marrocu evidenzia come per tutto l’alto Medioevo la società sarda sia composta da un mosaico di autonomie definite nei termini di un modello sostanzialmente identico a quello che si afferma nel resto del continente europeo. I Giudicati nascono sotto l’impulso di Pisa, la nuova potenza che insieme con quella genovese impone sull’Isola il suo dominio. Per tutto il periodo giudicale l’intreccio delle aristocrazie locali con le grandi famiglie pisane e genovesi e con gli interessi della due repubbliche sono evidenti e hanno un peso rilevantissimo. Così come nel caso dell’Arborea è con la Corona di Aragona che la trama familiare e dinastica si definisce nel tempo come un vincolo determinante. E l’unica esperienza di autonomia comunale, quella di Sassari, non va mai oltre i limiti di uno spazio di autonomia condizionato da Genova. Anche del nuovo contesto, insomma, Marrocu sottolinea la complessità, riconducendo la trama dei fatti a determinanti storiche più vaste (il sistema feudale europeo), in un quadro che non è soltanto sardo ma, come sempre nella storia dell’Isola, almeno mediterraneo. Quando Mariano IV di Arborea scende in guerra con la Corona di Aragona lo fa per difendere la sua autonomia di vassallo rispetto a un sovrano che vuole non soltanto delimitare quell’autonomia, ma cancellarla. La sconfitta di Arborea da parte dei catalano-aragonesi giunge al termine di uno dei tanti conflitti che in Europa segnano, per tutta una lunga fase storica, il passaggio dalle autonomie feudali alla nascita delle grandi monarchie centralizzate.

bandiera-del-regno-di-sardegna-nel-corte-funebre-dellimperatore-carlo-vLa “monarchia composita” castigliana rappresenta uno dei principali punti di approdo di questo processo. Composita per la vastità delle sue componenti geografiche, ma anche per il contrasto che permane, a lungo, tra sovrano e autonomie feudali. Contrasto chiaramente visibile nel caso della Sardegna. Il modo in cui l’Isola sta dentro la monarchia spagnola è condizionato da come avviene il passaggio dal sistema giudicale al dominio catalano-aragonese. La Sardegna è conquistata armi in pugno. Protagoniste di questo passaggio violento sono le famiglie nobiliari ispaniche che per i secoli successivi saranno il principale contraltare del potere monarchico, potentati con i quali tutti i viceré dovranno confrontarsi. Si definisce durante il periodo spagnolo un sistema di autonomia subalterna (logicamente un ossimoro ma storicamente una realtà di fatto) in cui alle scelte di indirizzo, prevalenti perché storicamente di portata più vasta, operate da un monarca lontano si contrappone la difesa subordinata degli interessi particolari di classi dirigenti locali ben determinate a conservare le proprie prerogative, economiche e di potere.

9788858144497_0_350_0_75La ricostruzione di Marrocu mostra come questo sistema, affermatosi nell’Isola sotto l’impero spagnolo, in sostanza continui a funzionare anche con la nascita del Regno di Sardegna. La “sarda rivoluzione” del 1793-96 fallisce perché gli assetti sistemici finalizzati al bilanciamento tra potere della corona e potere baronale finiscono per affermare la loro forza e la loro stabilità politico-istituzionale contro il tentativo angioyano di sovvertirli. Con l’Ottocento cambia la fase storica, ma nel rapporto da centro e periferia, in Sardegna, l’essenziale resta immutato. Il XIX è il secolo in cui giunge a compimento la rivoluzione borghese contro il Vecchio Regime. La Sardegna non ne resta fuori. Con una forte accelerazione a partire dall’unità nazionale, maturano processi – governati dall’alto come tutto il Risorgimento – che portano a mutamenti segnati dal ridimensionamento del potere baronale e dalla graduale affermazione dei gruppi sociali protagonisti del nuovo ordine. Gruppi sociali (borghesia agraria, commerciale, industriale) che crescono anche in Sardegna imponendosi come nuova classe dirigente. Il cambiamento è profondo. Ma resta un elemento di continuità forte rispetto al passato. Rimane sostanzialmente intatto il sistema di autonomia subalterna maturato durante il dominio spagnolo. Le nuove élite si percepiscono come portatrici di una realtà che a tratti viene rappresentata con più o meno blande connotazioni identitarie, ma non si va mai oltre la richiesta di una maggiore attenzione rivolta a un potere statuale, lontano e distratto, che in nessun caso viene messo in discussione nella sua legittimità. Il processo di costruzione di un’identità sarda che Marrocu evidenzia lungo tutto l’Ottocento non scalfisce mai il granitico lealismo delle nuove élite borghesi verso lo Stato unitario. Come se le classi dirigenti locali emergenti da quello Stato si sentissero sì trascurate, ma alla fine anche rappresentate e, soprattutto, protette.

Rientra in questo schema, in fondo, anche la parabola del sardismo. Marrocu mostra bene come il sardo-fascismo sia in definitiva l’allinearsi della media e della piccola borghesia sarda al processo di ridefinizione di un’identità nazionale italiana operato dal regime mussoliniano. E anche ciò che del movimento sardista si salva dal sardo-fascismo non supera mai i limiti del sistema dell’autonomia subalterna. Sistema che rappresenta – questo è l’elemento forte che emerge dall’analisi di Marrocu – la costante, il dato strutturale di fondo, sistemico appunto, della storia moderna e contemporanea della Sardegna. Che cosa ci dice la vicenda dell’autonomismo, dal secondo dopoguerra a oggi, se non della permanenza, in forme aggiornate al contesto storico e con poche eccezioni subito sopite e ricondotte all’ordine, del sistema dell’autonomia subalterna? Per tornare all’approccio critico intorno alle visioni in chiave nazionale della storia della Sardegna dichiarato da Marrocu come intento del suo lavoro, è evidente che non potrà esserci nazione sinché vige questo stato di cose. Ma nemmeno potrà mai aprirsi alcuna prospettiva di superamento dei fattori che frenano la crescita economica e civile dell’Isola. Ci possono essere, invece, e ci sono, pratiche consolidate di contrattazione e di negoziazione tra Stato unitario e classi dirigenti locali che, quando ci si trova di fronte a un’alternativa secca tra interessi generali dell’Isola e difesa di interessi particolari, nella maggior parte dei casi portano a imboccare questa seconda strada. Con gli esiti che abbiamo sotto gli occhi.

Dialoghi Mediterranei, n. 63, settembre 2023

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Costantino Cossu, laureato presso l’università “Carlo Bo” di Urbino (facoltà di Sociologia e Scuola di giornalismo), è giornalista professionista dal 1985, cura le pagine di Cultura del quotidiano la Nuova Sardegna. Collabora con il quotidiano Il manifesto e con la rivista “Gli Asini”. Ha scritto i libri: Sardegna, la fine dell’innocenza (Cuec, 2001), Gramsci serve ancora? (Edizioni dell’Asino, 2009). Ha curato il volume di autori vari La Sardegna al bivio (Edizioni dell’Asino, 2010) e il testo di Salvatore Mannuzzu, Giobbe (Edizioni della Torre, 2007).

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