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Lo Stretto di Messina come bene immateriale

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Gabriel Bodenehr, Lo Stretto di Messina, 1760 ca.

di Sergio Todesco

Sant’Agostino sosteneva che il presente non esiste, poiché in quanto flusso dinamico esso è memoria del passato ovvero speranza del futuro. Se infatti non ci fosse nell’uomo una dimensione della memoria e un’aspettativa che hanno il loro luogo nella persona, noi saremmo immersi in un divenire che ci trascina in una perenne corsa verso la morte. La compresenza in noi del ricordo e della speranza ci consente di ricucire (bene lo ha mostrato Marcel Proust) universi altrimenti irrelati e disgiunti.

Il meccanismo della memoria va però esercitato in maniera corretta, ben ancorata al “qui e ora” con cui facciamo quotidianamente i conti. Se smarrissimo il contatto con la realtà da cui proveniamo rischieremmo di fare una fuga in avanti, senza conoscere il senso della nostra proiezione. Ciò è divenuto tanto più problematico in una cultura globalizzata come quella nella quale siamo ormai immersi, dove ci troviamo spesso sprovvisti di quella barchetta che ci consenta di navigare indenni nel mare tempestoso di un universo in cui sono crollati i confini e le (sempre relative) certezze tradizionali e noi rischiamo spesso di farci colonizzare da altre mode, altri stili, altre culture.

Ernesto de Martino scrisse circa mezzo secolo fa che «per non essere apolidi bisogna avere un villaggio vivente nella memoria». In altri termini occorre coltivare il senso di appartenenza, l’ancoraggio a un luogo, a uno spazio che funga da orizzonte esistenziale in grado di conferire senso alle nostre “permanenze”; solo a tali condizioni possiamo aprirci alle diversità, con equilibrio e consapevolezza. Il progresso che avviene a livello planetario matura in uno scambio paritetico di esperienze e identità. Non possiamo farci sommergere dalle storie degli “altri da noi”, ma neanche pretendere di rimuoverne o fagocitarne l’identità, un’identità mai come oggi chiamata a divenire sempre più plurima, meticcia, beneficamente contaminata. Questa è l’unica dinamica percorribile, a fronte di pulsioni rischiose che vanno dall’accettazione acritica al rifiuto indiscriminato di chiunque sia impartecipe della nostra storia e del nostro télos culturale.

La premessa fin qui fatta giova a presentare l’attuale normativa della Regione Sicilia in tema di “eredità immateriali”. Come è noto, su tale materia esisteva già una legge, risalente al 2004, la quale prevedeva il riconoscimento di determinate realtà isolane quali “eredità immateriali” e il loro conseguente inserimento in uno dei quattro libri (Saperi, Espressioni, Celebrazioni, Tesori Umani Viventi) in cui si articolava il Registro delle Eredità Immateriali (R.E.I.).

Il D.A. 571 firmato nel 2014 dall’Assessore dei Beni Culturali e dell’Identità Siciliana Mariarita Sgarlata (purtroppo prematuramente scomparsa poco più di un anno fa) ha comportato una revisione del precedente assetto, ritenuto non più adeguato a definire le tipologie di eredità immateriali individuabili nell’Isola, e ha pertanto delineato, in aggiunta a quelle già esistenti, due nuove tipologie di “eredità immateriali”, ossia il Libro delle Parlate e dei Gerghi (ora dunque distinto dal Libro delle Pratiche Espressive e dei Repertori Orali) e il Libro degli Spazi Simbolici, quest’ultimo destinato agli «spazi che hanno registrato eventi tali da sortire dinamiche di memorie collettive, produzione simbolica o che si pongano quali scenari socio-culturali storicamente identificati».

Avendo fatto parte in quel periodo della Commissione Registro Eredità Immateriali istituita in seno al Dipartimento dei Beni Culturali e dell’Identità Siciliana, ho avuto modo di lavorare alla stesura del nuovo dispositivo, e posso ora confessare che, nel pensare alla nuova tipologia degli spazi simbolici, ho tenuto ben presente quello straordinario “spazio simbolico” rappresentato dallo Stretto di Messina.

Se con tale nuova tipologia di eredità immateriale potrà, ad esempio, essere iscritta nel nuovo Registro (ora denominato R.E.I.S.) una realtà come Portella della Ginestra in virtù della strage che la vide teatro e del patrimonio di valori e di memorie che da quel tragico evento ebbe origine, analogo titolo a un simile riconoscimento possiede infatti, a mio parere, l’area dello Stretto (le cui caratteristiche coinvolgono, a ben vedere, le specificità di tutti i Libri in cui il Registro si articola), la quale presenta incontestabili caratteristiche di unicità, trattandosi di un angolo di mondo che da alcuni millenni ricopre un ruolo di primaria importanza nell’immaginario collettivo europeo. Per rendersi conto di ciò, basti riflettere sulla complessa e articolata trama di eventi e realtà concernenti la mitologia, la storia sociale, gli elementi naturali e naturalistici, la letteratura, le tradizioni orali, i saperi, la cultura del mare e la tecnologia che da tremila anni vedono lo Stretto di Messina occupare un posto centrale nell’orizzonte socio-esistenziale, nella storia, nella cultura, nelle produzioni ideologiche dei popoli che si affacciano sul Mediterraneo.

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Th. Salmon, Veduta del Canale o sia faro di Messina, 1750 ca.

Lo Stretto di Messina, vero e proprio ombelico del Mare Nostrum e pregnante luogo di confluenze e interferenze tra Nord e Sud, Est e Ovest del Mediterraneo, si è infatti venuto costituendo, nel corso dei secoli, come un palinsesto territoriale che ha visto progressivamente stratificarsi fenomeni e realtà ecosistemiche, fabulazioni, saperi, eventi storici, memorie che dal mondo antico fino ad oggi hanno continuato a segnare con la loro variegata molteplicità lo specialissimo habitat eco-antropologico che si dispiega tra le due sponde della Sicilia e del continente, finendo con il costituire nel terzo millennio un unicum di cui non esiste eguale nel pianeta.

Questo tratto di mare appare essere stato oggetto, nel corso degli ultimi quattromila anni, di dinamiche di “investimento di senso”, intendendo con tale espressione più che la specialissima natura dei luoghi la lucida consapevolezza – manifestatasi in seno a numerose tradizioni letterarie – della peculiare specificità dello Stretto di Messina quale tòpos privilegiato per un serie impressionante e davvero sterminata di produzioni dell’immaginario da parte di popoli e culture.

Lo Stretto di Messina, prima ancora di essere una realtà fisica, geografica, geologica, orografica, marina etc., è una realtà “sognata”, plasmata e riplasmata nel corso dei secoli, costruita, negoziata continuamente in quanto alle sue specificità e ai suoi orizzonti. Su di esso si sono nel corso del tempo dispiegate diverse tipologie di sguardo, da quello geografico (Lucio Gambi per tutti) a quello naturalistico (Athanasius Kircher), da quello mitologico (Apollonio Rodio) a quello storico (Gaetano Cingari), da quello artistico (Casembrot XVII sec., Juvarra, Joli, Hackert XVIII sec., Panebianco XIX sec.) a quello antropologico (Serge Collet ), a quello documentario (Alliata, De Seta). E si potrebbe continuare…

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Letterio Subba, Il gigante Orione ricostruisce Messina

Lo Stretto raffigurato nel quadro di Letterio Subba Il gigante Orione ricostruisce Messina (metà ’800) non è certamente lo stesso che Antonello ci presenta nella Crocifissione di Sibiu (1460 ca.), ed entrambi hanno poco a che fare con lo stretto rappresentato nelle miniature medievali, negli acquerelli di Tiburzio Spannocchi (1578, Bibl. Naz. Madrid), nei disegni di Camillo Camilliani (1583, Bibl. Naz. Univ. Torino), nei disegni di Filippo Juvarra (1716, Bibl. Naz. Univ. Torino), nelle incisioni cartografiche cinque, sei, sette, ottocentesche, nei dipinti più o meno illustri rivolti a questo angolo di mondo.

Lo stretto di Messina è un’area magnetica, come lo definisce poeticamente Bartolo Cattafi. C’è una distanza fisica tra le due sponde, e una distanza metafisica, simbolica (adombrata dal fenomeno della Fata Morgana, al contempo realtà catadiottrica e leggendaria). Due sponde in perenne dialogo attraverso i flussi energetici della “rema montante” (dalla Sicilia alla Calabria) e della “rema scendente” (in senso inverso).

Sullo Stretto hanno scritto in tanti, a partire dagli antichi, Plinio, Strabone, Polibio, Tucidite, tanto che esso ha finito col configurarsi come una sorta di atlante delle identità. Beni materiali e beni volatili hanno qui trovato un luogo privilegiato di vita: Miti di fondazione: Zanclo, Crono vs Urano, Orione; Mitologie nello Stretto: Poseidone, Sirene (Leucosia, Partenope, Ligea); Mitologie a Capo Peloro: Peloro (marinaio di Annibale), Ninfa Peloria, Tifeo-Tifone, Zeus Pelorios; Eroi: Ercole (passa dallo stretto con la mandria di buoi di Gerione), Ulisse, Enea, Argonauti; Metamorfosi: Glauco, Scilla e Cariddi; Leggende: Arione e il delfino, Colapesce, Artù, Fata Morgana; Mitologie popolari: Le storie di Giufà; Presenze sacrali e numinose: Madonna della Lettera, San Paolo, San Francesco di Paola, Madonna della Scala, S. Maria Bimaris (Dinnammare); La Falce e la presenza di San Raineri; Il pellegrinaggio a Polsi e le devozioni comuni alle comunità costiere siciliane e calabresi; Le Vare (Messina e Palmi) e i Giganti, siciliani e calabresi; I laghi di Faro e Ganzirri e la molluschicoltura; La pesca del corallo nello Stretto; La caccia al pesce spada nello Stretto; La cantieristica tradizionale e i mastri d’ascia, siciliani e calabresi; L’emigrazione, la spartenza e il viaggio; la poesia di Maria Costa, Stefano D’Arrigo e i miti di Horcynus Orca, etc. etc.

Le cause di una tanto vasta messe di leggende, tradizioni, mitologie, usi e costumi vanno certamente ricondotte alla natura geograficamente e geologicamente oltremodo speciale di quest’area, ma tra esse pare probabile che abbia storicamente assunto una peculiare pregnanza la liminarità. Questa può essere vista come propria di uno spazio di confine, e pertanto come “zona neutra” che consente ai confinanti di sentirsi protetti e rassicurati all’interno del proprio spazio, ma – altresì – anche luogo di scambi, di interferenze, di travasi di uomini, merci, idee e modelli culturali. Non è privo di significato che nell’antichità alcuni collocassero l’ubicazione delle colonne d’Ercole proprio nello stretto di Messina.

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Messina, Teatro Vittorio Emanuele, Colapesce, affresco di Renato Guttuso, 1985

Laddove un tratto di mare separa due terre in origine unite, si avverte in modo particolare il senso del confine. La natura tettonicamente precaria dell’areale ha inoltre contribuito ad accrescere le caratteristiche di confine, di margine indefinito e, per ciò stesso, rischioso, precario come tutti gli spazi che non stanno “al centro” ma si affacciano su un “altrove”. La leggenda di Colapesce, laddove si riferisce della condizione d’instabilità in cui verserebbe quest’angolo di Sicilia a causa dell’ammaloramento della colonna che lo sostiene, altro non sarebbe dunque che una metafora della “instabilità” naturale del sito.

Mi piace citare in questa sede alcune voci che nel considerare la realtà siciliana non hanno potuto non confrontarsi – attraverso svariate modulazioni – con tale nodo critico irrisolto:

«Teoria della Sicilia. Là dove domina l’elemento insulare è impossibile salvarsi. Ogni isola attende impaziente di inabissarsi. Una teoria dell’isola è segnata da questa certezza. Un’isola può sempre sparire. Entità talattica, essa si sorregge sui flutti, sull’instabile. Per ogni isola vale la metafora della nave: vi incombe il naufragio. Il sentimento insulare è un oscuro impulso verso l’estinzione. L’angoscia dello stare in un’isola come modo di vivere rivela l’impossibilità di sfuggirvi come sentimento primordiale. La volontà di sparire è l’essenza esoterica della Sicilia. Poiché ogni isolano non avrebbe voluto nascere, egli vive come chi non vorrebbe vivere: la storia gli passa accanto con i suoi odiosi rumori ma dietro il tumulto dell’apparenza si cela una quiete profonda. Vanità delle vanità è ogni storia. La presenza della catastrofe nell’anima siciliana si esprime nei suoi ideali vegetali, nel suo taedium storico, fattispecie del nirvana. La Sicilia esiste solo come fenomeno estetico. Solo nel momento felice dell’arte quest’isola è vera» (Manlio Sgalambro, Il Cavaliere dell’Intelletto, 1994).

Turi Vasile: «L’insularità della Sicilia è il segreto – non dei suoi limiti – ma della sua simbiosi col mondo».

Giovanni Gentile: «la Sicilia sequestrata dal mare …..».

Uno degli specchi d’acqua più movimentati al mondo e, paradossalmente, uno degli angoli di mondo tra i più marginali. Tale “marginalità” è ascrivibile tanto a cause e agenti esterni, quanto a un progressivo distacco degli abitanti dal mare quale loro orizzonte naturale. Gli abitanti dell’attuale città di Messina vivono ad esempio «etsi fretus non daretur», come se lo stretto non esistesse, ed è probabile che il futuro culturale di questa città (e quindi il futuro tout court di chi la abita) dipenda dalla capacità che potrà dispiegare la sua comunità di ri-trovare, ri-costruire un genius loci plausibile, in grado di tornare a fornire ai messinesi orizzonti simbolici condivisi.

anita-seppilli-sacralita-dellacqua-e-sacrilegio-dei-pontiTraggo infine spunto dal titolo (e dai contenuti) di uno splendido libro di Anita Seppilli, antropologa e storica delle religioni del tutto anomala nel panorama accademico italiano, per svolgere alcune considerazioni sul tema dell’attraversamento degli stretti: tema quanto mai attuale per la città di Messina, in cui migliaia di poderosi mostri d’acciaio attraversano notte e giorno il tratto di mare che costituisce il suo naturale orizzonte, e sappiamo tutti con quale impatto sulla qualità di vita, con quali costi umani ed ecologici si consumi tale “servizio”! In cui è inoltre esistita una Società che per alcuni decenni ha studiato ed elaborato progetti di fattibilità di un megaponte sullo stretto di Messina, in grado di collegare l’intera Europa (e quindi l’intera cultura europeo-occidentale, come la chiamava Ernesto de Martino) a quest’angolo di mondo che è la Sicilia, che gli Europei se li è visti arrivare un po’ tutti attraverso i secoli, feroci invasori o subdoli tiranni ma, per fortuna, quasi sempre finiti con l’essere “addomesticati” (Messana capta) da quello straordinario popolo che è il popolo siciliano.

Dopo lo Stretto dei Dardanelli, nel Bosforo, un ponte, il Boğaziçi Köprüsü, collega la Turchia europea a quella asiatica: due continenti. Un analogo ponte sul Canale di Panama, il Puente de las Américas, collega le due Americhe. Attraverso questi ponti (peraltro lunghi la metà del nostro futuribile ponte) transitano quotidianamente milioni di persone. Attraverso il ponte sullo Stretto di Messina, che Edoardo Boner chiamava “il Bosforo d’Italia”, transiterebbero alcune centinaia di camionisti e alcune centinaia di turisti cui la nuova struttura risparmierebbe in tal modo la pena di attraversare una città disastrata come la nostra, posto che il Ponte (la cui realizzazione – ci dicono gli ometti che lo vogliono – gioverebbe a imprimere un’accelerata alle nostre “magnifiche sorti e progressive”) finirebbe in realtà col rendere Messina ancor più marginale, periferica e ininfluente.

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Tiburzio Spannocchi, Ciudad de Messina, 1596

I nostri “padri fondatori” greci e latini credevano nei miti. Per loro, ad esempio, ogni discontinuità tra una terra e l’altra era carica di sacralità. Ritenevano infatti che se due territori si trovavano separati dall’acqua, certo al volere di un dio fosse da ascrivere una tale condizione. Perciò l’attraversamento degli stretti veniva da essi percepito come un atto oltremodo rischioso, e di ciò troviamo traccia nelle avventure degli Argonauti e in quelle di Odisseo, i primi impegnati nel passaggio del tratto di mare delimitato dalle Simplegadi, le rocce cozzanti tra loro, il secondo che si azzarda a transitare tra i due mostri Scilla e Cariddi (e sappiamo bene come andò a finire all’empio, mentre gli Argonauti, che consigliati da Atena avevano accortamente compiuto un sacrificio prima della prova, scamparono ai gorghi del Bosforo). Anche l’Ulisse dantesco sconta la sua “hybris” di aver varcato le colonne d’Ercole – ancora uno stretto – con la morte per acqua che lo sommerge e gli toglie l’esistenza.

Oltrepassare gli stretti fu dunque ritenuto atto di sfida, al contempo pericoloso e sacrilego; ma ancora più rischioso e ancora più empio venne reputato unire le due sponde di uno stretto con un ponte; qui il sacrilegio toccava il suo culmine, giacché esso non si esauriva in un’azione limitata nel tempo come l’attraversare un braccio di mare o il creare un provvisorio ponte di barche, ma poneva in essere una struttura di congiungimento destinata a durare, e quindi a perseverare nell’atto sacrilego codificandone la “normalità”. Il pontifex (facitore di ponti) doveva avere grandi poteri e conoscenze per fare onestamente il proprio lavoro, perché ogni ponte era in qualche misura una sorta di varco tra il qui e l’altrove, e come tale esso non era previsto come manufatto “normale” in un mondo ordinato, sconvolgendone l’armonia. Così, una serie sterminata di leggende ha come motivo principale quello del “ponte pericoloso”, che si spalanca a precipitare negli abissi gli indegni che lo attraversano, potente metafora di come le torri di Babele che l’uomo costruisce siano destinate prima o poi a crollare (con conseguente confusione delle lingue).

Anche a non credere nei miti, non almeno alla stessa maniera in cui ci credettero quegli straordinari fabulatori dei nostri antenati in civiltà, non si può però non ritenere che tutti i miti, sotto tutte le latitudini, siano tremendamente seri e importanti per capire qualcosa in più sull’uomo, sulla sua storia, sulla sua presenza nel mondo.

La realizzazione di un Ponte sullo Stretto intaccherebbe irrimediabilmente le realtà, materiali e immateriali, che hanno concorso a delineare l’identità dell’area nel corso della sua plurimillenaria storia, le peculiarità mitologiche e leggendarie già menzionate, le peculiarità storiche (lo sbarco dei Normanni in Sicilia, la partenza per le Crociate, la rotta francigena, la partenza per la Battaglia di Lepanto, i forti umbertini e i presidî di avvistamento costiero, l’emigrazione e i flussi migratori, etc.), socio-economiche e tecnologiche (i Ferry Boat e i collegamenti tra le due sponde, le Dogane e i Porti Franchi, i fari, i due Piloni ENEL, etc.), naturali e naturalistiche (il paesaggio, la microflora e la microfauna dello Stretto, le specie abissali, le migrazioni stagionali dei volatili etc.), letterarie, antropologiche.

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Athanasius Kircher, Fretum Mamertinum, 1665

Ci troviamo ancora una volta alla presenza di una serie pressoché sterminata di eventi, realtà, saperi, fenomeni che hanno trovato nell’area dello Stretto di Messina la loro patria elettiva nel corso di una storia plurimillenaria. È assurdo pensare che tale complessa congerie non abbia concorso a delineare un’identità territoriale; naturalmente non un’identità pura, monolitica e ottusa come quella vagheggiata dai rozzi leghisti padani (James Clifford ci ricorda che “i frutti puri impazziscono”), ma un’identità “aperta”, meticcia, contaminata e stratificata, consapevole e fiera di testimoniare che una parte notevole della storia del Mediterraneo e del mondo antico (quindi, per molto tempo, del mondo tout court) è passata da qui.

La Messina consegnataci dalla modernità si presenta come città piatta e banale, una sorta di non-luogo non più in grado di conferire o esprimere identità e senso di appartenenza, né a quanti la vivono né a coloro che l’attraversano. La realtà stratificata costituita dallo Stretto di Messina ci suggerisce invece che i miti possono soccorrerci a cogliere di Messina gli aspetti ignorati, le dimensioni nascoste. Queste dimensioni sono le varie e articolate scritture che nel tempo gli uomini hanno impresso sul territorio peloritano: le fabulazioni, i miti, le leggende, in una parola come il Genius Loci abbia influenzato le facoltà immaginifiche degli uomini.

Questo patrimonio immateriale contribuisce, forse più delle emergenze fisiche, a declinare una storia, un’identità, una memoria collettiva. Il territorio reale infatti non è mai quello che appare ai nostri occhi; esso è il prodotto di una stratificazione, di un palinsesto di “scritture” che hanno registrato, spesso occultandoli a sguardi distratti, i segni impressi da tutte le culture che in esso si sono avvicendate. In questo ampio e articolato mosaico le tessere relative alle determinazioni immateriali del territorio (i miti, le leggende, le fabulazioni, i sogni….) spesso sopravanzano quelle relative agli elementi meramente materiali come i monumenti e le opere visibili.

I nuclei leggendari di cui si sostanzia (da Colapesce alla Fata Morgana, dal passaggio di Re Artù alla favolosa città di Risa) ci mostrano come gli antichi – ben prima di Einstein – siano stati consapevoli della forte dimensione simbolica del tempo e dello spazio, e della loro inestricabile reciproca “attrazione”. Dalla mutazione antropologico-esistenziale di Colapesce alle sue numerose incarnazioni europeo-mediterranee, Nicolaus Piscis, PesceCola etc., d’importazione bizantina o normanna, retaggio o cascame folklorico di antichissimi culti poseidonici, da Gervasio da Tilbury, Salimbene Adam, Tommaso Fazello, Giulio Filoteo degli Omodei, Francesco Maurolico, Athanasius Kircher ai più vicini a noi Giuseppe Pitrè, Arturo Graf e Anita Seppilli, il Poisson Nicole declina la propria identità quale nume tutelare o demiurgo trickster dei mari e delle comunità alieutiche che in essi si affacciano.  Tutto questo ci dimostra come al di là della consapevolezza che possano averne avuto i loro creatori i miti finiscano sempre per dialogare tra loro, essendo operante al loro interno un incessante processo migratorio.

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Jean Houel, Stretto di Messina, 1785

Così è per la Fata Morgana, essere mitico (Morgana-Melusina) e al contempo fenomeno catadriottico, così è per Artù nell’Etna, un vulcano visto come via d’accesso all’altro mondo, alla stregua dello Stromboli di San Willibald, così è per la città sommersa di Risa, sulla quale favoleggiano ancor oggi i cocciolari locali …

È insomma agevolmente dimostrabile che gli stretti siano, oltre che topoi letterari, anche luoghi speciali che si sono spesso prestati ad essere fucine di fabulazioni. Nella mitologia classica, ad esempio, Frisso e Hellè, i due figli di Atamante e Néfele, per sfuggire alle persecuzioni della matrigna montano sul vello d’oro e si dirigono in Colchide (Caucaso). Hellè però, nel passare sopra i Dardanelli, precipita nel mare che da lei prende il nome di Hellesponto. L’origine di queste credenze è forse da ricondurre – come bene ci suggerisce Geza Roheim – agli svariati quanto universali archetipi psichici relativi al trauma della nascita, a ben vedere il primo dei “passaggi pericolosi” e degli “attraversamenti dello stretto” che il genere umano sperimenta e che esso ha perciò in qualche modo sedimentato, una generazione dopo l’altra, nel proprio patrimonio genetico. Siamo così in presenza di un luogo in cui sono venute addensandosi vicende al contempo storiche e mitologiche (giusta la definizione di Mircea Eliade del mito come “storia vera” in grado di dare consistenza alla storia evénémentielle in quanto fondante e garante la dimensione del divenire).

La realtà dello Stretto suggerisce in definitiva, a chi sia attento a coglierne i segni, che spesso i luoghi conservano più memorie di quanto non siano in grado di fare le comunità che li vivono. Alcuni anni or sono, durante la mia breve esperienza di assessore alla cultura e alle identità del Comune di Messina mi ero fatto promotore dell’avvio di un procedimento volto a ottenere da parte dell’Unesco il riconoscimento dello Stretto di Messina quale Patrimonio intangibile dell’Umanità. Un procedimento che per motivi ancora a me sconosciuti non ha avuto seguito dopo che ho dovuto lasciare l’incarico assessoriale per sopraggiunti motivi di incompatibilità, essendo nel frattempo stato nominato direttore della Biblioteca Regionale Universitaria di Messina.

Sarebbe il caso che le Istituzioni Regionali e locali, che ognora danno segno di voler lasciare una traccia della propria presenza quali credibili amministratori del patrimonio materiale e immateriale, ritenessero utile riprendere quell’iniziativa, il cui esito positivo varrebbe a risollevare Messina dall’inerzia in cui versa assai più delle sagre rionali cui spesso indulgono, e la Sicilia intera dotandola di una reale risorsa da esibire con orgoglio agli sguardi vicini e lontani. Osservo timidamente che l’Ente politico deputato alla tutela e valorizzazione del patrimonio dell’Isola si è attribuito la denominazione di “Assessorato Regionale dei Beni Culturali e dell’Identità Siciliana”. Sic.

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Caccia al pesce spada

Tornando al tema dell’eredità, mi pare ovvio che essendosi smarrita la capacità di cumulare attraverso la trasmissione ereditaria dei tratti culturali la possibilità di declinare identità forti, marcate, le forme di identità che più frequentemente nel nostro tempo si determinano sono quelle “costruite”, in genere per finalità ideologiche o addirittura trivialmente pratiche (ad es. la ricerca del consenso nell’ideologia leghista). Mi pare allora che l’esigenza, sacrosanta, di poter disporre di forme plausibili di identità non possa essere perseguita e soddisfatta se non attraverso un nuovo approccio ai meccanismi della trasmissione ereditaria, sottratti alla logica chiusa della cultura autoreferenziale (una sorta di “familismo amorale occidentale”, quello che in antropologia si chiama etnocentrismo), ma debba costruirsi attorno alla ricerca di nuove percezioni, più ampie e allargate, del concetto di eredità.

Ernesto de Martino (sempre lui!) ha scritto una volta che questo nostro pianeta è oggi divenuto troppo “stretto” per potere tollerare semplici coesistenze; ciò vuol dire che se giungiamo a riconoscere l’opportunità di non fondare la coesistenza umana su un rapporto di diffidenza e di ostilità repressa ma riteniamo più utile e più giusto per la nostra specie approfondire sempre più il grado di conoscenza reciproca, unico strumento per il raggiungimento di una sempre maggiore consapevolezza sulle radici comuni che contrassegnano la nostra comune umanità, la via da percorrere rimane quella di promuovere sempre maggiori e non banali occasioni di incontro, conoscenza e scambio tra gli esseri umani. In tale strategia, una politica non miope né autarchicamente asfittica sulle eredità culturali potrà senza dubbio sortire esiti di grande rilevanza etica e civile.

Se, come notava Pietro Barcellona in un’intervista di qualche anno fa, la globalizzazione ha distrutto gli spazi simbolici, il riconoscere che questo nostro orizzonte naturale, culturale ed esistenziale che è lo Stretto di Messina riveste un interesse simbolico che travalica le singole realtà municipali delle due sponde per assumere un valore testimoniale di assoluta pregnanza a cospetto dell’intero pianeta, può forse costituire quella “barchetta”, piccola ma solida e sicura, atta a farci traversare indenni il mare turbolento in cui oggi ci troviamo a galleggiare.

Dialoghi Mediterranei, n. 47, gennaio 2021
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Sergio Todesco, laureato in Filosofia, si è poi dedicato agli studi antropologici. Ha diretto la Sezione Antropologica della Soprintendenza di Messina, il Museo Regionale “Giuseppe Cocchiara”, il Parco Archeologico dei Nebrodi Occidentali, la Biblioteca Regionale di Messina. Ha svolto attività di docenza universitaria nelle discipline demo-etno-antropologiche e museografiche. Ha al suo attivo numerose pubblicazioni, tra le quali Teatro mobile. Le feste di Mezz’agosto a Messina, 1991; Atlante dei Beni Etno-antropologici eoliani, 1995; Iconae Messanenses – Edicole votive nella città di Messina, 1997; Angelino Patti fotografo in Tusa, 1999; In forma di festa. Le ragioni del sacro in provincia di Messina, 2003; Miracoli. Il patrimonio votivo popolare della provincia di Messina, 2007; Vet-ri-flessi. Un pincisanti del XXI secolo, 2011; Matrimoniu. Nozze tradizionali di Sicilia, 2014; Castel di Tusa nelle immagini e nelle trame orali di un secolo, 2016.

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