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L’ipotesi Sapir-Whorf come modo del conoscere

Edward-Sapir-e-Benjamin-Lee-Worf

Edward Sapir e Benjamin Lee Worf

di Simona Cirrincione

In questo saggio prenderò in conto l’ipotesi Sapir-Whorf, le critiche mosse da Berlin e Kay e le proposte, favorevoli all’ipotesi, di Charles Goodwin. Un punto va chiarito subito, fin dall’inizio. La bibliografia riguardante l’ipotesi Sapir-Whorf è notevole e si potrebbe addirittura dire che l’antropologia del linguaggio sia isomorfa agli studi che si sono sviluppati su – e a partire da – Sapir e Whorf. Intenzionalmente, quindi, discuto questa ipotesi tenendo strettamente conto degli autori già da me menzionati, se non altro per approfondire la questione in chiave comparativa, per differenza, tra, da una parte, Berlin e Kay e Goodwin, dall’altra. Si tratta di vedere, a partire da questi autori, in che modo si può stabilire il rapporto tra linguaggio e pensiero.

Il linguista Benjamin Lee Whorf, promotore dell’ipotesi, pensava – come Edward Sapir e Franz Boas prima di lui – che la lingua non fosse solo un mero strumento di comunicazione, ma che fosse, soprattutto, uno strumento di categorizzazione della realtà che orienta l’esperienza e la percezione in un determinato modo. In altri termini, secondo alcuni studiosi noi saremmo indotti a pensare che il nostro modo di vedere e percepire la realtà sia il risultato di una logica naturale e universale. Ma non è così secondo Whorf. Il nostro sistema cognitivo è influenzato, secondo lo studioso, dallo specifico contesto linguistico e culturale cui si appartiene: il legame con la lingua e con la cultura è talmente stretto che ci rende impossibile concepire un modo diverso di pensare la realtà se non nel connubio lingua/cultura.

Secondo questo ragionamento, a ogni lingua corrisponderebbe una particolare visione del mondo e, quindi, una diversa interpretazione degli stessi fenomeni fisici. Molte furono le critiche che le metodologie e le conclusioni di Whorf suscitarono. Se, infatti, è evidente «che le lingue differiscono in molti modi strani e sorprendenti, è questione controversa se tali differenze di struttura linguistica siano associate a reali differenze nel modo di percepire e concepire il mondo»[1]. Ad esempio secondo Lenneberg:

«Notevoli differenze nel trattamento linguistico d’un evento […] non implicano necessariamente corrispondenti differenze nella percezione dell’evento e possono risultare semplicemente da sviluppi metaforici nella lingua, di cui i parlanti possono non essere consapevoli»[2].

Anche il lavoro di Berlin e Kay è, sebbene in parte, contrario all’ipotesi Sapir-Whorf: l’obiettivo della loro ricerca era infatti quello di provare l’esistenza di universali semantici all’interno della categorizzazione dei colori. A loro avviso, l’affermazione che riconduceva differenze linguistiche nella terminologia dei colori all’arbitrarietà delle lingue era un’esagerazione, «a gross overstatement»[3]. Ritenevano che «color words translate too easily among various pairs of unrelated languages for the extreme linguistic relativity thesis to be valid»[4]. Per dimostrare la loro ipotesi, esaminarono i dati raccolti sperimentalmente dall’analisi di venti lingue appartenenti a famiglie linguistiche diverse, unendoli ai materiali di altre settantotto precedentemente studiate da altri autori. Per ciascuna delle venti lingue prese in considerazione, Berlin e Kay intervistarono alcuni parlanti nativi, residenti nella San Francisco Bay Area, ai quali chiesero, in un primo momento, di indicare a voce tutti i termini dei colori base nella loro lingua e, successivamente, di osservare un campionario di 329 colori tratti dalla tabella cromatica di Munsell. Il campionario viene così descritto:

«The set is composed of 320 color chips of forty equally spaced hues and eight degrees of brightness, all at maximum saturation, and nine chips of neutral hue (white, black and greys). The full set of chips was mounted on stiff cardboard and covered with clear acetate»[5].

Quindi, venne chiesto ai nativi di indicare con una matita tutti i tasselli con i colori che riconducevano a ciascun termine indicato e il campione che lo rappresentava meglio, quello considerato prototipico. Dopo aver eseguito questa procedura tre volte a intervalli di una settimana, Berlin e Kay elaborarono delle mappe composte da tutti i colori focali individuati e dalle loro aree di confine. Sulla base dei dati raccolti sulle novantotto lingue, Berlin e Kay scoprirono che:

«although different languages encode in their vocabularies different numbers of basic color categories, a total universal inventory of exactly eleven basic color categories exists from which the eleven or fewer basic color terms of any given language are always drawn»[6].

Gli undici colori individuati sono: bianco, nero, rosso, verde, giallo, blu, marrone, viola, rosa, arancione e grigio. Questi colori non sono sempre presenti contemporaneamente; il fatto sorprendente è che non appaiono in modo casuale, ma che esiste un ordine universale ben preciso che le lingue seguono man mano che il vocabolario dei colori aumenta:

[bianco, nero] < [rosso] < [giallo/verde] < [blu] < [marrone] < [viola, rosa, arancione, grigio]

È emerso che i termini per il bianco e il nero sono presenti in tutte le lingue e che se uno dei colori successivi nello schema è presente, allora saranno presenti anche i colori che lo precedono. Ad esempio, se una lingua possiede il termine per il colore blu, allora saranno presenti i termini per indicare il verde, il giallo, il rosso, il nero e il bianco. Berlin e Kay stabilirono, così, sette stadi di successione: nel primo sono presenti due termini, il bianco, che comprende la maggior parte dei colori chiari, e il nero, comprensivo dei colori scuri; nel secondo stadio emerge un terzo termine, il rosso, che comprende le varie sfumature di rosso, giallo, arancione, rosa, viola e marrone; il terzo stadio viene diviso in due varianti a seconda che il quarto termine a comparire sia il verde o il giallo; nel quarto sono presenti sia il giallo che il verde; nel quinto emerge il blu, che prima era incluso nel verde e che ora comprende le sfumature di viola prima contenute nel rosso; nel sesto stadio viene introdotto il termine per il marrone; nel settimo e ultimo stadio viola, rosa, arancione e grigio appaiono insieme o separatamente in diverse combinazioni.

1L’assenza di uno o più termini non indica una mancata percezione di quel determinato colore: molto spesso le lingue, infatti, usano termini concreti legati a referenti extralinguistici o usano termini derivati da quelli dei colore base. Ad esempio, Berlin e Kay riportano nel loro volume i dati raccolti da Turner, il quale, analizzando la lingua degli Ndembu, una popolazione del Congo, vide che questi possedevano tre termini (secondo stadio): tooka (bianco), ku-chinana (rosso) e wuyila (nero). Turner riferisce che:

«These are the only colours for which Ndembu possess primary terms. Terms for other colours are either derivates from these – as in the case of chitookoloka “grey,” which is derived from tooka, “white” — or consist of descriptive and metaphorical phrases, as in the case of “green,” meji amatamba, which means “water of  sweet potato leaves”»[7].

Berlin e Kay fecero anche un’altra scoperta. Notarono che esiste una correlazione tra il numero di termini presenti in una lingua e il livello di sviluppo culturale e tecnologico della comunità che la parla:

«All the languages of highly industrialized European and Asian people are Stage VII, while all representatives of early Stages (I, II, and III) are spoken by peoples with small populations and limited technology, located in isolated areas»[8].

Ipotizzando che il lessico dell’uomo, agli inizi, fosse molto povero e che si sia ampliato nel corso del tempo, secondo Berlin e Kay un «increase in the number of basic color terms may be seen as part of a general increase in vocabulary, a response to an informationally richer cultural environment about which speakers must communicate effectively»[9]. È quindi possibile interpretare la distribuzione dei termini dei colori base nelle varie lingue in chiave evolutiva. Berlin e Kay portano come prove i dati ricavati dalle ricostruzioni linguistiche dei termini di ciascuna lingua. Partendo dal presupposto che i prestiti linguistici e i sostantivi non primitivi sono solitamente parole più recenti rispetto a quelle primitive, è possibile capire se in una lingua i termini di uno stadio sono più recenti rispetto a quelli dello stadio precedente. Ad esempio, è stato notato che, in alcune lingue che si trovano al secondo stadio, la parola per indicare il colore rosso deriva dalla parola “sangue” mentre non si trovano le derivazioni dei termini per il bianco e il nero.

I dati raccolti, dunque, appoggiavano l’ipotesi formulata all’inizio dell’indagine: esistono delle categorie universali nella terminologia dei colori. Diverse sono le prove che hanno confermato che la percezione dei colori è simile in tutte le lingue. Ad esempio, sebbene i parlanti intervistati avessero dimostrato delle difficoltà nell’indicare i confini entro cui delimitare l’area dei vari colori, esitando per diverso tempo e chiedendo dei chiarimenti, ciò non era avvenuto al momento di indicare il colore prototipico. Infatti, non solo questo compito veniva svolto con maggiore facilità ma «repeated mapping trials with the same informant and also across informants showed that category foci placements are highly reliable. It is rare that a category focus is displaced by more than two adjacent chips»[10].

Un’altra prova a sostegno dell’universalità dei colori è il fatto che, spesso, parlanti della stessa lingua avevano dato risposte che differivano più fra loro che con le risposte di parlanti di altre lingue. L’ipotesi che esistano delle differenze significative tra le lingue viene in questo modo respinta e permette di porre sullo stesso piano parlanti di lingue diverse. Dal momento che la percezione degli undici colori base – anche se questi non vengono espressi linguisticamente – non varia a seconda della lingua o del contesto culturale, l’ipotesi della relatività linguistica viene confutata.

Quello di Berlin e Kay è sicuramente uno degli approcci più importanti allo studio non solo delle categorie di colore, ma soprattutto della cognizione umana. Tuttavia, non sono mancate critiche rivolte, in particolar modo, alla metodologia usata e ai materiali da loro raccolti. Tra le più ricorrenti, oggetto di critica è stato non solo il fatto che tutte le persone intervistate provenissero dalla San Francisco Bay Area, ma, anche, che alcune lingue fossero rappresentate da un unico parlante nativo. I dati ottenuti dall’indagine perciò potrebbero non essere né affidabili né, ad ogni modo, sufficienti per giungere a conclusioni certe. Oltretutto, gli stessi Berlin e Kay notarono delle anomalie, dei casi problematici che non confermavano le loro ipotesi. A volte, infatti, l’ordine dei colori da loro individuato non veniva rispettato e, in lingue appartenenti ad un determinato stadio, o mancavano termini appartenenti a stadi precedenti o erano presenti termini successivi. È stato notato anche che alcuni popoli considerati “primitivi” o, comunque, molto meno sviluppati rispetto a quelli occidentali, lessicalizzano tutti o quasi tutti gli undici colori di base, confutando così l’ipotesi evolutiva avanzata da Berlin e Kay.

2Una critica rivolta allo studio di Berlin e Kay, favorevole all’ipotesi Sapir-Whorf, è quella del linguista e antropologo Charles Goodwin che, nel volume Il senso del vedere, contesta l’approccio usato, in particolare il fatto di attribuire l’organizzazione della cognizione umana unicamente a processi mentali e linguistici. Ciò che i due studiosi, secondo Goodwin, non hanno considerato, facendo svolgere alle persone intervistate la stessa attività sperimentale, è l’insieme delle situazioni reali e situate, ovvero non concettualmente astratte ma concrete e contestualizzate, in cui le categorie dei colori vengono usate:

 «In breve, ritengo che l’unità più adeguata per l’analisi dei processi cognitivi relativi alla discriminazione tra colori non sia il cervello come entità isolata, né le categorie fornite dai sistemi semantici delle lingue intese come entità autonome; è necessario invece prendere in considerazione i diversi sistemi di attività usati dai gruppi lavorativi endogeni che danno origine a categorie pertinenti in relazione al lavoro nel quale sono coinvolti»[11].

Con questa affermazione, Goodwin arriva ad una nuova interpretazione dell’ipotesi Sapir-Whorf. Egli, infatti, analizza il modo in cui «ciascun gruppo professionale si serve di particolari pratiche discorsive che consentono di plasmare gli eventi in modo da poterli analizzare»[12], giungendo alla conclusione che ciò che influenza la nostra percezione della realtà è soprattutto l’insieme delle attività svolte da un gruppo sociale, delle pratiche discorsive, degli strumenti e dei materiali usati a creare una determinata visione professionale che permette di vedere e analizzare fenomeni “invisibili” o comunque irrilevanti per altri gruppi.

In ogni evento, quindi, vengono messi in evidenza elementi che rientrano negli interessi di un determinato ambito lavorativo e analizzati secondo schemi di codifica che permettono di interpretarli e categorizzarli in modo pertinente. Lo stesso fenomeno può così essere percepito in modi diversi a seconda dello schema di codifica usato, ad esempio:

«un archeologo e un contadino vedranno fenomeni alquanto diversi nella stessa zolla di fango – ad esempio un terreno su cui far crescere un determinato tipo di pianta o all’opposto chiazze, tracce e manufatti che testimoniano di una attività umana passata da quel luogo»[13].

Lo stesso discorso vale nella categorizzazione dei colori. Grazie ad alcuni studi condotti sul campo, Goodwin notò come, in determinate situazioni lavorative, venissero usati dei procedimenti specifici per poter categorizzare un colore, al fine di portare a termine una determinata attività. Ciò che  viene contestato a Berlin e Kay è pertanto il fatto che:

«sono stati in grado di analizzare i termini di colore come sistema chiuso e autosufficiente, ma non hanno potuto in alcun modo (né avevano intenzione di farlo!) tener conto di come i termini di colore potevano esser plasmati da modelli sistematici di uso socialmente situato, o della possibilità che gli attori fossero capaci di utilizzare tutta una serie di criteri differenti per classificare il colore»[14].

In una delle attività osservate e analizzate da Goodwin, alcuni studenti di archeologia dovevano imparare sul campo come descrivere il terriccio. Una capacità fondamentale che un archeologo deve possedere è, infatti, quella di saper classificare il colore del terriccio che viene scavato all’interno di un sito. Per fare ciò, gli archeologi si servono di una versione ridotta della tabella cromatica di Munsell contenente solo i colori idonei alla descrizione del terriccio e adattata alle loro necessità lavorative: ogni pagina contenente i vari campioni (organizzati secondo cromia, valore e gradazione) è affiancata da un’altra pagina in cui viene riportato il nome di ciascun colore e le coordinate numeriche che indicano la posizione dei tasselli, così da poter essere individuati facilmente da altri studiosi senza che vi siano problemi di traduzione dei termini. Per indicare con precisione il colore del terriccio, sono stati praticati dei fori sotto a ciascun tassello in modo tale che, prelevandone con la cazzuola un campione, questo potesse essere confrontato attraverso il foro direttamente con i colori della tabella. Il terriccio prelevato, quindi, viene isolato dal contesto in cui si trova e “messo in evidenza” per poter essere analizzato.

3Tuttavia, questo lavoro non è né semplice né immediato: «il solo fatto che la tabella di Munsell offra un modello di riferimento privo di contesto crea già dei problemi: le macchie di colore sulla tabella sono lucide mentre il terriccio non lo è mai, dunque il colore della tabella e quello del campione non sono mai esattamente identici»[15]. Anche spruzzando dell’acqua sul terriccio, gli archeologi sanno che non è possibile trovare una corrispondenza perfetta. Il supporto stesso usato per identificare i colori e il materiale dell’oggetto di studio danno luogo, rispettivamente, a percezioni diverse di quel colore, cosicché spesso si può essere in disaccordo sul modo in cui deve essere categorizzato.

I dati raccolti attraverso l’uso della tabella di Munsell vengono poi registrati, esaminati in laboratorio e confrontati con altri risultati. Essa non è quindi uno strumento che serve soltanto a classificare i colori, ma è anche uno schema di codifica che permette di dar forma alla percezione per consentire lo svolgimento di determinate azioni in contesti specifici. Secondo Goodwin:

«L’unità d’analisi indispensabile a descrivere in che modo un membro competente di questo gruppo sociale –  un archeologo – comprende un’espressione come “marrone giallognolo scuro” quando viene usata nel suo contesto lavorativo non è pertanto la lingua inglese (o italiana) in quanto struttura autosufficiente e omogenea, bensì un sistema di attività situato che comprende non solo le categorie semantiche ma anche specifici strumenti come il libro di Munsell, oltre alle pratiche necessarie a utilizzare tali strumenti in modo appropriato»[16].

In un’altra attività osservata da Goodwin, gli studenti di un geochimico dovevano capire quando i materiali usati in una reazione chimica diventavano color jet black (nero ebano), poiché questo specifico colore indicava che la reazione era stata conclusa con successo e poteva essere arrestata. Anche in questo caso era necessario isolare i materiali e metterli in evidenza affinché potessero essere analizzati. Così, le fibre di acrilico immerse nella soluzione color viola scuro, qui oggetto di studio, venivano prelevate con un bastone e sciacquate con dell’acqua per eliminare i residui viola. A questo punto gli studenti, osservando la fibra, potevano stabilire se avesse raggiunto la specifica tonalità di nero richiesta dalla loro attività. È possibile notare come:

«L’attività con cui si valuta il colore della fibra è resa possibile non solo da strutture cognitive pertinenti per il lavoro in questione […] ma anche da insiemi di pratiche situate necessari alla manipolazione di manufatti dell’ambiente, nonché da una serie di strumenti che rende possibili tali pratiche»[17].

Come per gli archeologi, anche per i geochimici individuare l’esatta sfumatura di colore si rivela problematico. Sebbene, infatti, il jet black sembrerebbe corrispondere al nero più prototipico individuato da Berlin e Kay, tuttavia il termine in sé non contiene indicazioni circa il modo in cui questo colore possa essere individuato all’interno del continuum di sfumature che vanno dal grigio al nero. Quando, esattamente, un nero può essere considerato jet black? Gli studenti, per arrivare ad una decisione, si servono di diversi elementi. Innanzitutto, hanno a loro disposizione un professore con più esperienza che può guidarli e valutare le loro decisioni. Spesso, però, non vi è una concordanza nei giudizi dei partecipanti, tanto che anche le stesse valutazioni del professore vengono contestate.

«L’idea di cosa debba essere considerato nero, insomma, non è statica: al contrario viene modellata a poco a poco per poi essere modificata man mano che i partecipanti esaminano i materiali in trasformazione coi quali stanno lavorando mentre interagiscono tra loro»[18].

Per aiutarli, il professore suggerisce che se la fibra è del colore giusto, questa ricorderà il pelo di un gorilla, altrimenti quello di un orangotango. Questo metodo escogitato dal docente si rivela efficace perché, oltre a mettere a confronto due elementi diversi che possono essere riconosciuti molto più facilmente rispetto a due sfumature di colore simili, permette di porre l’accento sulla natura fibrosa del materiale sotto analisi, stimolando una più ampia sfera sensoriale. Così, grazie al tatto, gli studenti riescono a percepire che, quando la fibra assume il colore jet black, presenta anche una consistenza particolare, che, oltretutto, viene indicata a gesti piuttosto che a parole. In questo caso, se la valutazione era corretta, veniva approvata dal professore.

4Anche la corporeità, quindi, assume un ruolo importante nel modo in cui la percezione di un fenomeno può cambiare. L’insieme di tutte queste pratiche ha permesso agli studenti di portare a termine un’attività per cui la sola nozione astratta di jet black non era sufficiente, ma rappresentava soltanto una base di partenza. Solo grazie all’uso appropriato di diversi strumenti, alle competenze possedute dai geochimici e alla visione professionale che ne deriva, è stato possibile arrivare ad una conclusione socialmente condivisa su come individuare quella specifica tonalità di nero. Per concludere, secondo Goodwin:

«Il problema insomma sta nel ritenere che la lingua, intesa come totalità, come struttura cognitiva astratta dal caotico ammasso di dettagli della pratica, sia il luogo ideale in cui studiare il modo in cui sono organizzate le categorie destinate a codificare i giudizi percettivi. Come ha sostenuto M. H. Goodwin (1990) invece, il luogo più adatto per l’analisi della cultura – di cui sono parte integrante le categorie e le pratiche mediante le quali la cultura stessa viene prodotta – non è la società né la lingua separata dal corpo ma sono i sistemi di attività situate»[19].

Più in generale, la critica mossa a Berlin e Kay da Goodwin ha, alla base, una forte perplessità suscitata dal ruolo primario attribuito da Saussure alla langue, intesa come sistema sociale astratto (soggiacente la parole, l’atto linguistico individuale). Goodwin ritiene che:

«Il modo in cui il linguista ginevrino concepiva la langue aveva un inevitabile effetto: quello di separare la cognizione dalla pratica. Tutte le attività cognitive necessarie a coordinare discorso e significato con le azioni dei co-partecipanti e con l’uso della lingua per costruire un universo sociale pertinente all’interno di ambienti reali vengono considerate un epifenomeno. L’analisi situa i fenomeni cognitivi – comprese le categorie per l’organizzazione della percezione – all’interno del sistema strutturale della lingua come totalità; in tal modo il processo con cui si forma il significato di tali categorie rimane al di là della consapevolezza dei parlanti»[20].

In fin dei conti, i due approcci proposti – quello di Berlin e Kay e quello di Goodwin – possono essere considerati due diversi modi (i due lati di una stessa medaglia) utili a descrivere non solo il linguaggio ma anche il nostro modo di conoscere: nel primo caso, si guarda a categorie astratte (che inevitabilmente rimandano alla langue); nel secondo caso, si fa ricorso a pratiche situate in determinati contesti d’uso (la parole). I due modi, del resto, si determinano a vicenda: da un lato, l’atto linguistico non sarebbe possibile senza un sistema che ne regolarizzi l’uso; dall’altro, il sistema non esisterebbe senza l’uso concreto dei parlanti, a partire dal quale si ricavano norme ricorrenti o eccezioni.

Quali che siano le inclinazioni personali, il nostro modo di conoscere si articola all’interno di questa dicotomia: la langue e la parole, le categorie e i modi d’uso, il sistema e il processo [21]. Di fatto, in quanto individui, siamo sempre all’interno del sistema della cultura e della lingua; in quanto individui – che facciamo nostro il sistema – lo realizziamo in un modo che ci è specifico, talvolta persino trasgredendolo.

Dialoghi Mediterranei, n.32, luglio 2019
Note
[1] Whorf B. L., Linguaggio, pensiero e realtà. Raccolta di scritti a cura di John B. Carroll, Boringhieri, Torino, 1970: 20-21.
[2] Ibidem.
[3] Berlin B., Kay P., Basic Color Terms: Their Universality and Evolution, University of California Press, Berkeley, 1991: 2.
[4] Ibidem.
[5] Ibidem: 5.
[6] Ibidem: 2.
[7] Ibidem : 26.
[8] Ibidem: 16.
[9] Ibidem.
[10] Ibidem: 13.
[11] Goodwin C., Il senso del vedere, Meltemi, Roma, 2003: 118.
[12] Ibidem: 17.
[13] Ibidem: 18.
[14] Ibidem: 151.
[15] Ibidem: 24-25.
[16] Ibidem: 144.
[17] Ibidem: 167.
[18] Ibidem: 164.
[19] Ibidem: 175.
[20] Ibidem: 149-150.
[21] Parlo qui di ‘dicotomia’ proprio perché ho scelto, intenzionalmente, di prendere in considerazione due opzioni epistemologiche – Berlin e Kay vs Goodwin – che si pongono in termini nettamente oppositivi l’una rispetto all’altra. Per un approccio che sfuma la dicotomia langue/parole in quadricotomia (schema/norma/uso/atto) ricorrendo al paradigma hjelmsleviano-greimasiano, in riferimento inoltre a una pragmatica degli usi di ispirazione wittgensteiniana, cfr. Montes S., “Wittgenstein come etnografo del pensare”, in A. Lutri, a cura di, Immaginare forme di vita. Letture intorno e oltre il metodo di Ludwig Wittgenstein, Villaggio Maori Edizioni, Catania, 2017: 89-133.
Riferimenti bibliografici
Berlin B., Kay P., Basic Color Terms: Their Universality and Evolution, University of California Press, Berkeley, 1991
Goodwin C., Il senso del vedere, Meltemi, Roma, 2003
Montes S., “Wittgenstein come etnografo del pensare”, in A. Lutri, a cura di, Immaginare forme di vita. Letture intorno e oltre il metodo di Ludwig Wittgenstein, Villaggio Maori Edizioni, Catania, 2017: 89-133
Whorf B. L., Linguaggio, pensiero e realtà. Raccolta di scritti a cura di John B. Carroll, Boringhieri, Torino, 1970.
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Simona Cirrincione, laureata in Lingue e Letterature Moderne e Mediazione Linguistica all’Università degli studi di Palermo. Si interessa di antropologia, in particolare del rapporto tra il linguaggio e il pensiero, e si dedica allo studio delle lingue straniere, della letteratura e della didattica dell’italiano come lingua seconda.
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