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L’invecchiamento della popolazione immigrata

Immigrato (ph. Oscar Corral)

Immigrato (ph. Oscar Corral)

di Paolo Attanasio [*]

Introduzione

Migrazione e invecchiamento sono diventati, negli ultimi decenni, aspetti essenziali della società europea, anche se finora sono stati trattati molto spesso come due fenomeni separati. Tuttavia, in tempi recenti i due fenomeni appaiono sempre più soggettivamente interconnessi, dato che, con il perdurare e l’accrescersi dei flussi migratori, il fenomeno dell’invecchiamento inizia ad interessare sempre più persone nate all’estero. In un certo senso, si può dire che la questione relativa all’invecchiamento dei migranti si trova all’intersezione fra i due più rilevanti fenomeni demografici del nostro tempo, appunto la migrazione e l’invecchiamento della popolazione.

Se l’invecchiamento individuale è una caratteristica connaturata all’essere umano e al trascorrere del tempo, l’invecchiamento di una popolazione in quanto tale deriva essenzialmente – è stato argomentato – da processi di modernizzazione sociale e di crescita economica (Warnes, Friedrich, Kellaher et al., 2004). Dall’altro lato, le migrazioni, pur non essendo un fenomeno strettamente “naturale”, contraddistinguono la specie umana praticamente dalla sua apparizione, milioni di anni fa (Calzolaio-Pievani, 2016), e sono sostanzialmente motivate e stimolate dall’incessante aspirazione a «migliorare la propria vita dal punto di vista materiale» (Warnes, Friedrich, Kellaher et al., 2004: 308).  

Mentre sull’invecchiamento della popolazione in generale da una parte e le dinamiche migratorie dall’altra esistono ormai consolidati filoni di studi, solo negli ultimi quarant’anni la ricerca internazionale ha iniziato ad occuparsi delle reciproche influenze ed interferenze, e dunque a studiare le conseguenze dell’invecchiamento degli immigrati stranieri (Torres 2006)[1], ponendole in relazione con l’invecchiamento della popolazione autoctona (o sedentaria). Ad ogni modo, dato che gli immigrati sono diventati, nel periodo del secondo dopoguerra, una componente sostanziale di molte società industrializzate, appare evidente che la ricerca sui molteplici aspetti dell’invecchiamento non può più limitarsi al contesto autoctono.

A livello nazionale, invece, non sembrano a tutt’oggi esserci studi di una certa ampiezza su questo fenomeno, che per il nostro Paese è ancora piuttosto nuovo [2]. Non va infatti dimenticato che l’Italia è storicamente un Paese di emigrazione (rimasto tutto sommato tale nell’immaginario, anche accademico, internazionale), e che soltanto da pochi decenni il fenomeno immigratorio ha acquisito una certa importanza quali-quantitativa, fino ad assumere caratteristiche strutturali. Dalla crisi del 2008 in poi, l’Italia ha peraltro conosciuto una forte ripresa dell’emigrazione (sia pur con caratteristiche diverse da quelle della grande emigrazione storica) che convive con l’immigrazione dall’estero, e che gli è valsa l’efficace definizione di “crocevia migratorio” (Pugliese 2018).

Pur strutturale e di fatto irreversibile, il fenomeno immigratorio è ancora piuttosto giovane in Italia (Colucci, 2018), e ciò spiega lo stadio iniziale nel quale lo studio dell’invecchiamento della popolazione migrante ancora si trova. Ciò nonostante, sia le tendenze demografiche attuali che la ricognizione della letteratura internazionale in merito concorrono a rendere estremamente plausibile uno scenario di centralità futura di questa tematica, che pone la società nel suo insieme di fronte ad una situazione nuova, a nuove sfide rispetto ai servizi socio-sanitari, alla previdenza sociale e, in definitiva, al decisore politico.

Fin d’ora appare evidente, e addirittura urgente, la necessità di prendere atto che l’ormai consolidata diversificazione all’interno della società è destinata ad una progressiva crescente articolazione ovvero, in altre parole, che la percentuale di stranieri fra gli anziani andrà inevitabilmente aumentando, come già accaduto in altri Paesi europei che hanno conosciuto il fenomeno immigratorio ben prima dell’Italia. Come secondo passo saranno presto necessarie, da parte di tutta la società, risposte concrete ed efficaci per mitigare gli effetti dell’invecchiamento in persone che già vivono la non facile condizione di migrante. In questo breve contributo si cercherà di mettere a fuoco la tematica e i suoi attori principali, esaminando le diverse problematiche che da essa derivano e, alla luce delle esperienze descritte dalla letteratura internazionale, indicare possibili scenari di azione futuri.

layout_grafici_fact_checking7Uno sguardo ai dati demografici sull’immigrazione straniera in Italia

I migranti totali nel mondo sono (al 1° luglio 2020) quasi 281 milioni, mentre solo vent’anni fa (al 1° luglio 2000) erano 173 milioni: Nell’Unione Europea a 27 i residenti stranieri rappresentavano, all’inizio del 2020, l’8,2% della popolazione totale. La Germania è il Paese dell’Unione con il maggior numero di cittadini stranieri, circa 10,4 milioni, e un’incidenza del 12,5% sul totale della popolazione. Seguono, nell’ordine, Spagna, Francia e Italia con circa 5 milioni di residenti stranieri ciascuno. É significativo notare che gli stranieri presenti in questi quattro Paesi costituiscono oltre il 70% di tutti gli stranieri presenti nell’Unione europea (comunitari e non). In termini di incidenza, l’Italia, con il suo 8,7%, appare lontana dalla Germania, ma anche notevolmente al di sotto di un Paese come la Spagna, dove i cittadini stranieri rappresentano l’11% della popolazione totale.

I residenti stranieri in Italia alla fine del 2020 superano di poco i cinque milioni (5.171.894), con una crescita del 2,6% rispetto all’anno precedente; la componente femminile è stabile a quasi il 52% (anche se con forti differenze all’interno dei gruppi nazionali). Il totale dei nuovi nati, sempre nel 2020, è di 404.892 (il valore più basso in oltre un secolo), di cui quasi 63 mila (il 15%) stranieri. Così come per gli italiani, anche il trend di nascite degli stranieri si presenta negativo (dopo il picco di 80 mila unità raggiunto nel 2012), ed è dovuto essenzialmente al progressivo invecchiamento della struttura per età delle donne straniere (Dossier 2021: 98). Per quanto riguarda invece il tasso di fecondità, anche nel 2019 prosegue il trend negativo generale, con un valore complessivo di 1,27 figli per donna. Andando però a scindere la popolazione femminile fra straniere e italiane, vediamo che, mentre per queste ultime il valore è in caduta costante (fino a 1,18 nel 2019), per le donne straniere si nota una leggera inversione di tendenza nel 2019, che recupera il valore di due anni prima (1,98), sceso poi a 1,94 nel 2018. In buona sostanza, anche in questo caso trova applicazione la regola secondo cui gli stranieri in emigrazione tendono ad allinearsi ai comportamenti degli autoctoni, e si nota quindi come anche le donne straniere vadano adeguandosi al trend discendente della popolazione autoctona, seppure partendo da valori ben più alti.

Per quanto attiene le provenienze, quasi il 30% dei residenti stranieri è cittadino di uno Stato membro dell’Unione europea, e quasi la metà di un Paese europeo. La comunità più numerosa è senza dubbio rappresentata dai residenti romeni (oltre 1,1 milioni, quasi uno su quattro), seguita a grande distanza da albanesi e marocchini (entrambi al di sotto del mezzo milione), e poi da cinesi e ucraini, che non raggiungono le 250 mila presenze ciascuno. È interessante notare che queste cinque comunità costituiscono nel loro insieme oltre il 49% delle presenze straniere in Italia, composte da oltre 200 nazioni diverse. In termini di appartenenza religiosa, i cristiani (o presunti tali) sono oltre la metà (nell’ordine, ortodossi, cattolici e protestanti) e circa un terzo i musulmani. 

immigrati in Italia per fasce d'età

immigrati in Italia per fasce d’età

Mettere a fuoco la problematica: lo stato dell’arte della ricerca internazionale

Storicamente, la ricerca internazionale sull’invecchiamento degli stranieri prende le mosse da alcune indagini sugli effetti degli spostamenti in età avanzata. In particolare, ancora nella prima metà del XX secolo, la comunità scientifica si è interrogata sulle conseguenze dei cambiamenti di residenza (visti come micro-migrazioni) di anziani dal loro domicilio abituale a residenze protette, oppure verso queste ultime dopo un degenza ospedaliera più o meno prolungata (Camargo e Preston, 1945, Whittier e Williams, 1956, citate in Warnes e Williams, 2006), sulla base dell’assunto che ogni migrazione (intesa nel senso anche di un limitato spostamento), se effettuata da persone anziane e fragili, rappresenta un fattore di stress che comporta un rischio reale di sopravvivenza (Coffman, 1987, cit. da Warnes e Williams, 2006). Per molto tempo si è pensato che “invecchiamento e migrazione” costituissero sempre e comunque un doppio svantaggio, ma ovviamente ciò riguarda soltanto una parte dei migranti anziani, quella che maggiormente interessa questo capitolo.

Per completezza di informazione (e sempre facendo riferimento alle esperienze di altri Paesi che hanno già conosciuto il fenomeno nel passato) è ora necessario passare in rassegna, seppur brevemente, le principali tipologie del nesso migrazione-invecchiamento, e le possibili problematiche legate a ciascuna di esse, anche allo scopo di apprendere dagli errori altrui (ben evidenziati dalla ricerca) e di evitare di ripeterli all’affacciarsi delle medesime problematiche in Italia. Il primo elemento da evidenziare a tale proposito è l’estrema diversità all’interno di questo gruppo, che in nessun caso può essere considerato omogeneo. Il nesso fra migrazione e invecchiamento (diretto o indiretto) produce infatti, come appena accennato, molteplici situazioni, che si declinano poi diversamente a seconda delle particolari caratteristiche dei soggetti che le vivono, ragion per cui l’elenco che segue non può certo considerarsi esaustivo. Il tentativo di classificazione più completo (e più recente) appare quello fornito nel 2017 da King, Lulle, Sampaio e Vullnetari, che distingue fra sei tipologie principali:

-  gli anziani che si ritrovano soli nel Paese di origine, a seguito dell’emigrazione all’estero dei figli;

- i membri anziani della famiglia che vanno a raggiungere i propri figli nel Paese di emigrazione;

- i pensionati abbienti che emigrano in Paesi caratterizzati da un clima e da stili di vita più confacenti alla loro nuova condizione;

- i migranti economici in età avanzata;

- gli ex-emigrati che da anziani fanno ritorno nel Paese di origine;

-  infine, i migranti che invecchiano rimanendo nel Paese di emigrazione.

grafico-eta-stato-civile-2020-italiaGli anziani non-migranti

Si tratta di una categoria particolare, che solo indirettamente rientra nella casistica del nesso migrazione-invecchiamento, in quanto non si tratta di soggetti attivi della migrazione, ma, al contrario, di persone che “subiscono” le conseguenze della migrazione altrui (tipicamente, quella dei propri figli) [3]. La loro condizione di fragilità deriva proprio dal ritrovarsi (soli e anziani) in un contesto territoriale che, pur essendo loro familiare, nella maggior parte dei casi non dispone di un sistema socio-sanitario in grado di sostituirsi al ruolo normalmente svolto dalla famiglia, ora lontana causa dell’emigrazione. Si tratta della cd. “generazione-zero” (Nedelcu, 2007, 2009, e Ciobanu, Fokkema, Nedelcu, 2017) e cioè dei genitori anziani dei primo-migranti, spesso considerata una vittima della crescente globalizzazione dei movimenti migratori. Senza voler minimizzare le innegabili difficoltà vissute da questa particolare categoria di “vittime della migrazione altrui”, va comunque considerato che esse possono riscoprire un proprio protagonismo all’interno della famiglia allargata, come testimoniato dalla cura degli eventuali nipoti rimasti anch’essi nel Paese di origine. L’assunzione di tale compito può addirittura diventare l’elemento-chiave che rende possibile l’emigrazione della “generazione di mezzo”, e cioè i figli adulti (Bastia, 2009), anche se, in diversi casi, i genitori anziani possono trovarsi stretti fra la necessità di seguire i figli e i nipoti all’estero e quella di non abbandonare i propri genitori “grandi anziani”, ribattezzati dalla letteratura internazionale “generazione -1” (King, Cela, Fokkema, Vullnetari, 2014: 2).

who-health-of-older-refugees-and-migrants_page-0001La migrazione al seguito dei figli

Strettamente legata alla generazione zero è la migrazione degli anziani al seguito dei propri figli già residenti all’estero, che in tal modo evitano il problema di lasciare indietro genitori anziani ed eventualmente bisognosi di assistenza, che ovviamente darebbero luogo a frequenti ritorni in patria da parte dei figli stessi, oppure alla necessità di organizzare l’assistenza a distanza. Nel caso degli anziani albanesi, la ricerca ha messo in luce vantaggi e svantaggi della riunificazione familiare con i propri figli emigrati, nella fattispecie in Grecia, Italia, Regno Unito (King, Cela, Fokkema, Vullnetari, 2014). Da una parte infatti raggiungere i propri figli all’estero ha significato non solo ripristinare per i genitori la possibilità di rendersi utili e di occuparsi dei propri nipoti, recuperando in tal modo un ruolo tradizionale di cui la migrazione dei figli li aveva privati, ma anche poter disporre di servizi di assistenza sanitaria mediamente superiori a quelli disponibili in Albania, che sono ovviamente i benvenuti da parte di persone anziane.

Dall’altra però, il ricongiungimento fa emergere tutta una serie di nuovi problemi e contraddizioni con cui fare necessariamente i conti, soprattutto in termini di una nuova dipendenza dei genitori dai figli, in costi sociali, finanziari e di prospettive di ritorno, una serie di criticità che si può venire a creare nel Paese di insediamento di questi ultimi, ribaltando in qualche misura l’ordine tradizionale dei rapporti intergenerazionali vigente nel paese di origine. Se poi pensiamo al caso specifico dell’Italia, va sottolineato che una prima difficoltà da superare è proprio rappresentata dalla legislazione alquanto restrittiva che governa il ricongiungimento genitori-figli, dato che la legge vigente lo consente solo se i genitori non hanno altri figli nel Paese di origine o di provenienza, oppure se (ma in questo caso i genitori devono essere ultra65enni) gli altri figli siano impossibilitati al loro sostentamento per documentati, gravi motivi di salute. A ciò si aggiungono i requisiti reddituali previsti dalla legge e la disponibilità di un’abitazione adeguata (art. 29 T.U. sull’immigrazione).

pensionati-esteroLa migrazione dei pensionati abbienti

Anche in questo caso si tratta di un gruppo un po’ particolare, che comunque ha dato vita ad un filone di ricerca a lungo dominante la scena in Europa e negli Stati Uniti: la cd. “migrazione dei pensionati” (international retirement migration o IRM), ha dato origine allo spostamento di migliaia di pensionati, relativamente giovani, in buone condizioni di salute ed economicamente benestanti, dalle aree urbane del Nord Europa (Regno Unito, Germania, Paesi Bassi e Paesi scandinavi) verso le coste della Spagna meridionale, Malta, o anche Umbria e Toscana, quasi una “migrazione al contrario” rispetto a quella di milioni di lavoratori che, come vedremo tra breve, ha intrapreso il cammino opposto. Si tratta di una migrazione sui generis, di certo la meno soggetta a possibili “fattori di vulnerabilità” fra quelle considerate (Ciobanu et al., 2017), essenzialmente tesa alla ricerca di un “invecchiamento attivo” in un clima più favorevole e a latitudini dove il ritmo della vita è (suppostamente) più rilassato. Per motivi di spazio non è possibile approfondire tale aspetto in questa sede, ma si rimanda alla ricca bibliografia che il fenomeno ha prodotto e continua a produrre (Walters, 2002, Warnes 2004, King, 2021) [4].

I migranti economici in età avanzata

Nonostante l’immaginario collettivo che rappresenta il migrante come giovane e sano (e prevalentemente maschio, almeno per quanto riguarda richiedenti asilo e gran parte dei primo-migranti) non sono rari i casi di persone che, a causa di mutate situazioni personali e/o sociali, hanno la necessità di migrare in età matura, nonostante la presenza di numerosi elementi (in primis, la presenza di figli e di eventuali nipoti, ma anche, in determinati casi, di anziani genitori) che tenderebbero trattenerli nel Paese di origine. Un caso tipico, per quanto riguarda l’Italia, è rappresentato dalla migrazione, essenzialmente di donne (spesso ultra50enni) provenienti da Paesi dell’Europa centro-orientale, espulse dalla privatizzazione post-socialista dell’economia (King et al., 2017: 188), studiato in Italia (limitatamente al caso del Trentino), da Ambrosini e Boccagni (2012). Nel 2020, in Italia si contavano oltre 920 850 mila lavoratori/trici domestici (fra colf e assistenti familiari) regolari [5], di cui oltre il 70% stranieri, oltre il 52% ultracinquantenni, e quasi l’88% donne (Osservatorio Domina, 2021).

inps-immigrati-pensioniGli anziani migranti al bivio del pensionamento: “should I stay or should I go”

A conclusione di questa pur breve rassegna di tipologie e casistiche (che in realtà potrebbe facilmente arricchirsi di ulteriori sotto-categorie) arriviamo al gruppo «più rilevante, sia dal punto di vista quantitativo che della rilevanza in termini di politiche» (King et al., 2017: 188). A ben vedere, si tratta di un macro-gruppo che in realtà ne ricomprende due, che coincidono con le due ultime categorie menzionate sopra, e cioè coloro che, giunti all’età della pensione fanno ritorno nel Paese di origine e quelli che invece decidono di trascorrere il resto della vita nel Paese di emigrazione (i cd. ageing- in-place migrants). Tale macro-raggruppamento trova origine in un’evoluzione storica ben precisa e ampiamente descritta nella letteratura.

La grande maggioranza dei cittadini stranieri anziani in Europa è infatti costituita dalla massa di “lavoratori ospiti” immigrati nell’Europa centro-settentrionale dopo la fine della Seconda guerra mondiale (e grosso modo fino al 1975) principalmente dai Paesi dell’area mediterranea (Italia, Turchia, Jugoslavia, Spagna, Portogallo e Grecia) in base ad accordi bilaterali tra lo Stato “esportatore” e lo Stato “importatore” di manodopera. Quello che, nelle intenzioni dei Paesi riceventi (ma anche, in moltissimi casi, dei lavoratori migranti) sarebbe dovuto essere un soggiorno di lavoro temporaneo, si trasformò di fatto in una migrazione di insediamento (White 2006). Quando, a seguito della crisi petrolifera del 1973, i fabbisogni di manodopera delle economie del Nord Europa calarono drasticamente e i Paesi riceventi bloccarono gli ingressi di nuova forza lavoro dall’estero, si verificò un effetto inaspettato: invece di far ritorno nei propri Paesi di origine, gran parte di questi lavoratori si avvalse del ricongiungimento familiare per farsi raggiungere dalle proprie famiglie, dando così vita, contrariamente alle aspettative dei Paesi di inserimento, ad un migrazione stanziale (Castles, de Haas, Miller, 2014) [6].

Le molteplici situazioni in cui vengono a trovarsi i lavoratori immigrati giunti a questo snodo fondamentale nella loro vita e le relative valutazioni personali sono state variamente studiate e analizzate nella letteratura internazionale, soprattutto con riguardo a specifici gruppi nazionali in specifici contesti territoriali di insediamento (Bolzman, Fibbi, Vial, 2006, Ganga, 2006, Rodríguez, Egea, 2017). Si potrebbe ritenere che si tratti del momento perfetto per realizzare quel “mito del ritorno” coltivato fin dall’inizio della permanenza all’estero, ma nella realtà risultano prevalenti le motivazioni che inducono a restare nel Paese di insediamento, nel quale spesso si è vissuto per decenni, e in cui i propri figli (e a maggior ragione gli eventuali nipoti) si sentono “a casa”, sicuramente molto di più di quanto non si sentirebbero a proprio agio in un improbabile “paese di origine”, dove, oltre a non essere nati, sono stati spesso soltanto in vacanza d’estate e di cui non padroneggiano la lingua (Ciobanu et al. 2017).

Diversi sono gli elementi che tendono a far pesare la bilancia in tal senso: forse il più rilevante è la preminenza accordata alla famiglia dalla quale non ci si vuole separare, e la cui vicinanza offre anche la possibilità di rendersi utili con la cura dei nipoti (Ganga, 2006). Molti sono poi riusciti a ricreare, nel quartiere di residenza, un microcosmo intra-etnico fatto di luoghi di ritrovo, conoscenti e associazioni in cui socializzare nella madrelingua, superando in tal modo la difficoltà creata dal non essersi mai realmente impadroniti dell’idioma locale in misura sufficiente per interagire con gli autoctoni (Palmberger, 2017).

Un’altra motivazione rilevata in molti migranti anziani riguarda la differenza di qualità fra i servizi socio-sanitari del Paese di emigrazione rispetto a quelli del Paese di origine. Non va infatti dimenticato che la gran parte dei migranti economici ha svolto lavori usuranti che hanno lasciato il segno sulla loro salute, dando vita a quello che è stato descritto come «effetto migrante esausto» (Bollini, Siem, 1995, citato in Bolzman,Vagni, 2017). La motivazione “sanitaria” nella scelta di rimanere inoltre viene spesso coniugata con l’esigenza di non voler costituire un peso per i figli, ma al contrario di essere in grado di aiutarli fino ad un’età avanzata (Karl, Ramos, Kühn, 2017, Ganga 2006).

Nonostante queste motivazioni spesso preponderanti, esiste ad ogni modo una quota di emigranti che, alle soglie della pensione, decide di affrontare le sfide della reintegrazione nel Paese di origine, dove può trovarsi di fronte un contesto sociale nel frattempo notevolmente cambiato, e nel quale fatica a ritrovarsi (King et al. 2017). In realtà, come si accennava sopra, quella fra il restare o ritornare non è una scelta priva di sfumature o di alternative. Negli ultimi decenni, lo sviluppo delle nuove tecnologie delle comunicazioni e il forte ridimensionamento dei costi dei viaggi aerei ha dato spazio a veri e propri rapporti familiari transnazionali, fatto di soggiorni prolungati, in diversi periodi dell’anno, in entrambi i Paesi, che permettono agli ex-migranti ancora attivi e in buona salute di mantenere un rapporto sufficientemente stretto con figli e nipoti nel Paese di emigrazione, pur senza privarsi di quel “ritorno a casa”, ai luoghi e all’ambiente umano in cui si è cresciuti e diventati adulti prima di prendere la strada del lavoro all’estero (Palmberger, 2006, Liversage, Mirdal, 2017). Anche e non è certo la soluzione ottimale, si tratta, in definitiva, di un accettabile «compromesso fra la nostalgia del paese di origine e la nostalgia della famiglia» (Ciobanu, Fokkema, Nedelcu, 2017: 175).

bamf-a%cc%88ltere-migranten_page-0001Invecchiare da immigrato nelle testimonianze dei protagonisti: un quadro a luci e ombre

Dopo aver presentato alcune tipologie fra le più ricorrenti nella letteratura internazionale, e prima di passare in rassegna i (pochi) dati quantitativi disponibili sul caso italiano, abbiamo voluto ascoltare dalla viva voce degli interessati cosa significa, nel caso e nella situazione specifica di ciascuno di loro, trovarsi ad invecchiare in un Paese diverso da quello di nascita, quali sono le implicazioni di tale condizione e quali le scelte che si presentano loro. Abbiamo quindi effettuato alcune interviste sperimentali a donne e uomini ultra60enni residenti (da oltre 15 anni, e in alcuni casi anche da 40 e più) in Italia, con diverse situazioni familiari e lavorative, e anche con diversi progetti di vita al momento del loro arrivo in Italia. Abbiamo chiesto loro di mettere in relazione la loro condizione di immigrati (sebbene spesso naturalizzati) con la fase della vita che stanno attraversando, rispondendo ad una serie di domande riguardanti la storia della loro migrazione, la loro situazione familiare, abitativa e lavorativa attuale, le prospettive per il futuro. Come era prevedibile, le condizioni e le situazioni di ciascuno/a degli/delle intervistati/e sono estremamente varie, e risulta quindi difficile (nonché potenzialmente arbitrario) volerli classificare secondo categorie rigidamente predefinite. Quello che emerge dalle loro dichiarazioni è dunque un quadro estremamente variegato, che comunque consente di riconoscere alcune linee di tendenza generali che appaiono costanti anche a partire da situazioni oggettive e soggettive diverse.

Un tratto che in ogni caso accomuna tutte le sei persone intervistate[7] è comunque quello di essere “ageing-in-place”, cioè di aver tutte deciso, pur con qualche sfumatura di differenza, di proseguire la propria vita a tempo indeterminato in Italia.

Justin [8], di origine camerunense con doppia cittadinanza camerunense-italiana, vive a Roma dal 1976. Di professione geometra, è sposato con una cittadina italiana, ha una figlia di 30 anni non convivente, ed è arrivato in Italia per studiare Architettura.

Alexander, di origine nigeriana, vive a Roma dal 1980, dopo alcuni anni di studio nel Regno Unito e in Spagna, dove si è laureato in Storia. È cittadino nigeriano e spagnolo, e convive con la sua compagna italiana, da cui ha avuto due figli, che vivono anch’essi a Roma con le proprie famiglie. Alexander, che è mediatore interculturale, ha 3 nipoti.

Steve, cittadino nigeriano, è a Roma dal 1982, ed è arrivato in Italia per motivi di studio. Mediatore interculturale, è sposato con una cittadina italiana di origine congolese, da cui ha un figlio che attualmente vive a Londra.

Naun, cittadino albanese di Durazzo, risiede a Udine dal 2004, dove è giunto in ricongiungimento familiare con la moglie, arrivata due anni prima. Naun, che di professione è elettricista e idraulico, ha due figlie adulte, una delle quali vive in famiglia.

T.F., cittadina albanese di Scutari, vive a Udine dal 2005 con il marito, in ricongiungimento con il figlio, ed è una maestra in pensione. Ha un’altra figlia, che vive in provincia di Ferrara, e quattro nipoti, di età compresa fra 8 mesi e 24 anni, il più piccolo dei quali vive a Udine.

Maria, cittadina italiana di origine romena, traduttrice ed interprete, nella seconda metà degli anni ’70 si è trasferita a Udine, dove attualmente vive con il marito, cittadino italiano. Ha due figli, entrambi in Italia.

Se la situazione abitativa è sufficientemente tranquilla per tutti gli intervistati, non altrettanto si può dire per la condizione lavorativa: quattro infatti si definiscono “disoccupati” (due dei quali da diversi anni). Dei restanti due, una (T.F.) riceve la pensione albanese e l’assegno sociale italiano, mentre Alexander riceve soltanto quest’ultimo, non essendo riuscito, nella sua vita lavorativa fatta di contratti a progetto, a raggiungere i contributi minimi per avere diritto ad una pensione. Quella della preponderanza dei contratti a progetto è una condizione che accomuna tre dei sei intervistati, ponendo un’ipoteca pesante sulla loro futura vita di pensionati. La precarietà della condizione lavorativa fa dunque in qualche misura da contraltare ad una situazione familiare generalmente stabile e soddisfacente. E veniamo ora ai progetti per il futuro, sul dove e come trascorrere l’autunno della vita e le soluzioni pensate rispetto ad una possibile futura perdita dell’autosufficienza.

Come si vedrà meglio tra breve, un immigrato giunto alle soglie della vecchiaia si trova di fronte a scelte fondamentali per il proprio futuro: semplificando, si tratta di decidere se dare continuità al proprio percorso migratorio nel Paese di insediamento, oppure “tornare alle origini”, ai luoghi e agli affetti che ci si è lasciati indietro decenni prima, magari con l’idea di farvi ritorno non appena possibile. Sono ovviamente decisioni che mettono in gioco l’idea di famiglia, l’importanza e la nostalgia del Paese di origine, le proprie convinzioni in fatto di identità e di appartenenza, nonché le proprie condizioni economiche (“qui e là”) e infine, ma certo non in ordine di importanza, il diverso ruolo e la diversa considerazione riservati all’anziano nei due universi culturali fra i quali la sua vita si divide.

I nostri intervistati sono tutti accomunati dalla grande importanza annessa alla famiglia che si sono creati in Italia, nipoti inclusi, che spesso vengono attesi con trepidazione da chi ancora non ne ha («non ancora – risponde Maria alla domanda sui nipoti – ci spero, ma su questo non ho alcun potere»). Di conseguenza, tutti vedono il proprio futuro in Italia («questa è la mia vita, la mia famiglia sta qui», dice Alexander, aggiungendo però subito che, dopo quarant’anni all’estero, ancora invia rimesse a quei componenti della propria famiglia estesa in Nigeria che sono in difficoltà economiche, a testimonianza dei fortissimi legami con la famiglia di origine, e si rammarica che i suoi figli non abbiano ancora mai visto la Nigeria, dove però «hanno promesso di fare un viaggio in futuro con i propri figli, e io sono supercontento»).

imagenL’intenzione di rimanere in Italia, espressa, come si è detto, da tutti gli intervistati, travalica in un certo senso le condizioni di partenza del progetto migratorio di ciascuno. Almeno due degli intervistati, infatti, lasciando il proprio Paese di origine, non pensavano che sarebbe stato un viaggio di sola andata, e anzi almeno per i primi anni hanno continuato a credere nel ritorno, anche con un certo entusiasmo («c’erano dei vantaggi che io vedevo in questo paese (l’Italia) – ci dice ancora Alexander – ma avevo l’intenzione di tornare per mettere in pratica tutto quello che avevo imparato qui. Per i primi dieci anni ho avuto quest’idea del ritorno, che mi si riaccendeva dentro ogni volta che andavo in Nigeria»). Per altri, invece, l’idea è stata fin dall’inizio quella di una migrazione definitiva: «si rimane dove c’è il lavoro» – ci dice Maria, mentre Naun, che dell’Albania «non ha bei ricordi» («tornare a Durazzo? – aggiunge – neanche per sogno; non mi lega niente all’Albania, non ho neppure una casa») fin dall’inizio aveva l’idea di stabilirsi definitivamente in Italia.

In un modo o nell’altro, però, il Paese di origine occupa un posto rilevante nei pensieri degli intervistati, anche se quasi tutti hanno vissuto ormai molto più tempo in Italia. Steve, ad esempio, alle prese con le difficoltà burocratiche che dopo tanti anni ancora gli impediscono di diventare cittadino italiano («sono più italiano che nigeriano, anche se gli italiani non mi vogliono») è costantemente in contatto con la sua vasta famiglia («mio nonno aveva 39 mogli, e dalle mie parti ci sono 400 persone che portano il mio cognome») dispersa per il mondo, e non dimentica che la tradizione vuole che il defunto sia seppellito nello stesso “compound” in cui è nato. Anche Justin ricorda che nella sua città in Camerun ha ancora «un fratello, una sorella e tanti nipoti» a cui è molto legato, e ogni anno torna sulla tomba dei propri genitori: «forse, se rimanessi vedovo, trascorrerei più tempo in Camerun», conclude. Anche T.F., che pure si trova molto bene a Udine e che in futuro spera di portarvi anche la figlia e i due nipoti, attualmente in provincia di Ferrara, ricorda con nostalgia (lei, che ha lavorato come maestra per 33 anni) le tante amiche ed ex-colleghe di Scutari con cui prendeva il caffè, scherzando sull’apparizione delle prime rughe. Purtroppo la voglia di trascorrere più tempo in Albania («almeno due volte l’anno») si scontra con la regola che prevede la sospensione dell’assegno sociale se il titolare rimane all’estero per un periodo superiore a trenta giorni.

I motivi per rimanere in Italia sono comunque tanti, e spesso si intrecciano fra di loro, anche se ognuno degli intervistati tende a dare un peso specifico diverso a ciascuno di essi. Ma la famiglia ha comunque un ruolo preponderante, tanto da fare oggetto di specifiche previsioni per il futuro. Sentiamo a questo proposito ancora T.F.:

«Ci pensiamo al futuro, questa cosa mi fa tanta paura. Abbiamo quindi pensato che nostra figlia, che è vedova, potrebbe venire stare con noi (a Udine, ndr). L’età non viene con i fiori, quindi meglio stare vicini ai propri figli che ai nipoti o parenti, perché vicino ai nostri figli ci sentiamo più sicuri».

Talvolta, il desiderio e la necessità di continuare ad aiutare la famiglia può anche costituire una delle motivazioni che inducono a rimanere in Italia: «I piccoli soldi che riesco a guadagnare qui – ci dice Alexander – lì possono essere moltiplicati per sei o per sette: 50 euro lì durano 3-4 mesi».

Più delicata è la domanda su un possibile futuro di non autosufficienza che, come accennato sopra, torna ad intrecciarsi ancora con la questione: rimanere/ritornare, delle disponibilità economiche e, ancora una volta, con il ruolo della famiglia, quella lasciata nel Paese di origine e quella formata in Italia. Alcuni non ci hanno mai veramente pensato, mentre altri hanno le idee chiare in proposito, come ad esempio ancora Alexander:

«Se hai una famiglia qui, è meglio invecchiare qui. Se non hai una famiglia, è meglio tornare dove sei nato, dove hai qualcuno che ti riconosce e che può aiutarti. C’è anche però una differenza di considerazione: lì, da vecchio, sei considerato un patriarca, e qui? In caso di non autosufficienza, ad ogni modo, meglio essere accuditi in famiglia ma, se si peggiora, meglio la casa di riposo. Nel caso però che la vita si riducesse a quella di un vegetale, allora non avrebbe senso vivere».

Anche una visione pragmatica talvolta è alla base della scelta. Secondo Justin, «qui ognuno è indipendente, e la situazione sanitaria, è meglio quella italiana, perché in Camerun c’è molta corruzione nella sanità». Ma la scelta non è indolore: «Sono rimasto molto legato (al Camerun), tanti miei ricordi dormono lì, non posso essere indifferente».

Altri, come ad esempio Maria, mettono al primo posto la necessità di «non essere di peso agli altri», e quindi «sarebbe meglio rimanere in casa, (…) per esempio, una casa bifamiliare, magari con giardino, sarebbe una possibilità (in Romania avevamo una grande casa di famiglia, c’era spazio per tutti) ma in caso di necessità accetterei anche una RSA». E poi, tornare in vecchiaia, dopo tanti anni di assenza, rappresenta pur sempre un’incognita: «qualcuno torna – prosegue ancora Maria – ma poi bisogna vedere cosa trova là».

La valutazione risente anche ovviamente della percezione di come si è stati “trattati” dal Paese di emigrazione. Steve, a questo proposito, ci dice che

«in Nigeria ho mille mani che mi possono aiutare, qui no (…). Qui non ho la possibilità di pagare un badante, e la casa di riposo non la concepisco, quando i figli mandano i genitori in queste strutture, per me è assurdo. Quindi in casi estremi preferisco tornare a casa mia».

Potremmo ovviamente continuare a lungo a cogliere e riportare gli infiniti spunti di riflessione offerti dai nostri interlocutori, ma il quadro fin qui delineato appare sufficientemente chiaro. Fermo restando che il numero delle interviste effettuate consente di dare soltanto uno sguardo “impressionistico” alla condizione degli immigrati anziani in Italia, possiamo provare a sintetizzare i principali elementi emersi. Innanzitutto notiamo che il “mito del ritorno” di cui si è parlato sopra è spesso destinato ad essere soppiantato dalla realtà, perché «la vita ha preso un’altra piega» (Alexander). Un altro elemento che colpisce, in persone che nella maggior parte dei casi hanno trascorso in Italia più del doppio del tempo trascorso nel Paese di origine, è l’importanza (in negativo come in positivo) delle proprie origini, che continuano in qualche modo a dare forma al presente, e ad influenzare il futuro. Ma ci sono anche altri aspetti non direttamente legati all’invecchiamento che emergono, una volta di più, e sui quali alcuni dei nostri intervistati puntano il dito. Il più sentito è forse la memoria corta dell’Italia rispetto all’immigrazione, che concorre alla mancanza di accettazione e riconoscimento degli stranieri nel Paese, e che dà luogo a sfoghi amari e giudizi impietosi:

«Questa è la cosa che traumatizza i giovani in Italia, che sono cittadini italiani: vengono esclusi a priori, non si parla di preparazione, non si parla di merito, si parla di colore della pelle più che altro, la meritocrazia è zero per chi non è autoctono italiano. (…) Non si può continuare a dire che l’Italia ha conosciuto l’immigrazione da poco, quando l’Italia è l’immigrazione in sé. L’altro nome dell’Italia è immigrazione, perché gli italiani sono andati all’estero fino a ieri» (Steve).

Anche in questo caso la cittadinanza, come vedremo nelle conclusioni, si pone come elemento cruciale di differenziazione.

9780230355774Gli immigrati anziani in Italia: uno sguardo ai dati

Sarebbe illusorio, considerando lo stato iniziale in cui la ricerca italiana sui migranti anziani si trova attualmente, voler trovare una corrispondenza nel contesto nazionale a tutte le situazioni e le casistiche appena descritte. Ciononostante, i dati disponibili permettono di delineare un quadro della presenza di soggetti anziani fra i cittadini immigrati in Italia [9].

A livello di Unione Europea, vediamo che nel 2020 oltre un cittadino su cinque (il 21%) aveva più di 65 anni; lo stesso valore, solo 20 anni prima, nel 2001, era invece del 16%. La tabella che segue ci mostra che l’Italia è il Paese con la maggior percentuale di ultra65enni (23%), mentre Irlanda e Lussemburgo presentano i valori percentualmente più bassi. 

Tab. 1. Gli ultra65enni in Europa

Paese Quota %
Italia 23
Grecia 22
Germania 22
Finlandia 22
Portogallo 22
Bulgaria 22
Lussemburgo 15
Irlanda 14
Unione europea 21
Fonte: Eurostat, La demografia dell’Europa, 2021

Mentre l’età media della popolazione totale italiana è di quasi 46 anni [10], e gli ultra65enni quasi uno su 4 (il 23,2%, contro una media UE del 20,4%), gli stranieri residenti in Italia sono notevolmente più giovani: l’età media è di circa 35 anni (33 per gli uomini e 37 per le donne), e un quinto ha meno di 18 anni.

La tabella che segue ci consegna una fotografia sufficientemente dettagliata dell’evoluzione della popolazione straniera in Italia negli ultimi 20 anni, da cui si evince anche l’andamento della fascia di età che ci interessa. Per quanto riguarda la popolazione di cittadinanza non italiana in generale, vediamo che questa è più che triplicata negli ultimi due decenni, seppure con curve di crescita differenziate negli anni.

Dopo una crescita impetuosa nel primo decennio (grosso modo fino al 2008), il trend è notevolmente rallentato negli anni successivi alla grande crisi economica globale, e il totale si è stabilizzato ormai da diversi anni attorno ai 5 milioni. Per quanto riguarda la categoria degli ultra64enni, in valore assoluto, questa è in crescita continua fin dall’inizio degli anni 2000, e nei due decenni considerati il numero degli immigrati anziani è più che quintuplicato (fattore di crescita: 5,7), fino a toccare, nel 2019, la soglia di 1 su 20 rispetto alla generalità della popolazione straniera. Quindi, se lo rapportiamo alla crescita totale dei cittadini stranieri, vediamo chiaramente dall’aumento dell’incidenza che gli stranieri anziani, soprattutto in questi ultimi anni, crescono più velocemente degli stranieri in generale, assumendo di conseguenza una rilevanza percentuale sempre maggiore, anche se si tratta di cifre che in valore assoluto rimangono tutto sommato contenute. Ipotizzando comunque una crescita costante del 5% annuo, al 2030 si arriverebbe a superare la cifra di 410 mila unità.

Interessante notare anche, all’interno della categoria cittadini stranieri, l’andamento della componente femminile. Questa, negli anni considerati e riferita alla totalità della popolazione straniera, si è mantenuta grosso modo stabile attorno al 52% (con tendenza ad una leggera decrescita, dal 52,6% del 2015 al 51,7% del 2018). Fra gli ultra65enni, invece, le donne appaiono largamente sovra-rappresentate rispetto alla loro incidenza generale, dato che, nel 2020, raggiungono i due terzi del totale (il 66,3%), mentre nel 2002 erano soltanto il 61,1%. Se confrontiamo la crescita della componente maschile della popolazione straniera ultra64enne, osserviamo che questa è quasi quintuplicata fra il 2002 e il 2020 (fattore di crescita: 4,9), diversamente dalla componente femminile, che è cresciuta di oltre sei volte (fattore di crescita: 6,1). La totalità degli stranieri ultra64enni è invece aumentata di 5,7 volte. Se l’andamento osservato negli ultimi 20 anni fosse confermato, in futuro ci troveremmo di fronte ad una componente straniera della popolazione nazionale in cui la presenza femminile va aumentando con il crescere dell’età. 

Tab. 2. Totale residenti stranieri e ultra64enni. Serie storica 2002-2020. Italia

Anno Tot. res. stranieri Variaz. % Stranieri ultra64enni % ultra64 enni su totale
Maschi Femmine Totale
2002 1.483.277 17.838 26.739 44.577 3,0
2003 1.893.927 27,7 19.710 28.926 48.636 2,6
2004 2.269.018 19,8 22.355 32.053 54.408 2,4
2005 2.498.411 10,1 24.576 34.678 59.254 2,4
2006 2.692.022 7,7 26.040 37.056 63.096 2,3
2007 3.151.553 17,0 28.399 39.976 68.375 2,2
2008 3.558.853 12,9 32.148 45.817 77.965 2,2
2009 3.836.349 7,8 35.028 50.731 85.759 2,2
2010 4.101.335 6,9 36.820 54.558 91.378 2,2
2011 4.319.201 5,3 40.973 62.285 103.258 2,4
2012 4.610.493 6,7 45.523 71.512 117.035 2,5
2013 4.787.166 3,8 49.758 81.956 131.714 2,7
2014 4.835.245 1,0 54.105 92.574 146.679 3,0
2015 4.831.042 -0,1 58.655 103.708 162.363 3,4
2016 4.818.633 -0,2 63.046 115.550 178.596 3,7
2017 4.883.451 1,3 68.577 129.858 198.435 4,1
2018 4.996.158 2,3 75.297 145.769 221.066 4,4
2019 5.039.637 0,8 84.818 165.770 250.588 5,0
2020 5.171.894 2,6 84.764 166.948 251.712 4,9
Fonte: Centro Studi e Ricerche IDOS, elaborazione su dati ISTAT
Immigrata (ph. Oscar Corral)

Immigrata (ph. Oscar Corral)

Considerazioni conclusive: la necessità di una nuova attenzione

La lettura congiunta dei dati quantitativi e delle esperienze internazionali, come pure l’analisi delle interviste effettuate, ci restituisce una fotografia ancora un po’ sbiadita, ma sicuramente sufficiente ad indicare che la tematica dell’invecchiamento della componente straniera (o di origine straniera) della popolazione italiana, attualmente ancora marginale, tenderà ad acquisire sempre maggiore importanza in un futuro relativamente prossimo. La crescita quantitativa degli immigrati anziani sarà ovviamente diversificata sia per Paese di provenienza che per regione di insediamento, ma le problematiche ad essa connesse saranno grosso modo riconducibili ad alcuni filoni comuni, così come le soluzioni disponibili per mitigarne l’impatto sui soggetti direttamente interessati e sulle loro comunità familiari.

Nel corso degli ultimi decenni, il fenomeno migratorio in Italia ha portato ad una diversificazione nella composizione della popolazione, e alla necessità di un adeguamento a questa nuova pluralità di prospettive e di esigenze. D’altro canto, anche il progressivo invecchiamento della popolazione ha comportato a suo tempo l’esigenza di ridisegnare, nella misura del possibile, la mappa dei servizi, adeguandola alla nuova evoluzione demografica. Ecco dunque che i due grandi fenomeni sociali del nostro tempo (e, naturalmente, di questa parte di mondo), invecchiamento e mobilità umana, tornano ad intrecciarsi, dando vita ad innumerevoli combinazioni di esigenze e situazioni, che richiedono una gestione sempre più attenta e diversificata e quasi personalizzata, se si vuole preservare il valore della coesione sociale, ed anzi estenderlo ad una pluralità di classi di età e di provenienze che rischiano seriamente di finire emarginate, oppure di essere “costrette” dalla mancanza di risorse economiche o di capitale culturale (White, 2006: 1297) a rivolgersi ad un’assistenza intra-etnica o addirittura intra-familiare. Pur presupponendo (e auspicando) l’invecchiamento il più possibile attivo degli stranieri (King et al., 2016), in primo luogo l’organizzazione e la gestione dei servizi socio-sanitari che si rivolgono principalmente ad una platea di anziani dovranno necessariamente prendere atto di questa trasformazione e assumere un approccio più “plurale” e attento alla nuova componente dell’utenza [11].

Chi si occupa di immigrazione da più tempo ricorderà che, a cavallo fra la fine del ‘900 e l’inizio degli anni 2000, la nuova legge organica sull’immigrazione (la legge 40/1998) coincise con il fiorire di tutta una serie di iniziative “dal basso” per l’integrazione attiva degli immigrati nel tessuto socio-culturale nazionale. Dieci anni dopo, la crisi economica mondiale iniziata nel 2008 portò con sé un ripiegamento su se stessa della società italiana e, negli anni successivi, l’immigrato venne progressivamente identificato con il richiedente asilo. L’insorgere della pandemia da COVID-19 ha poi ulteriormente contribuito a sospingere l’immigrato (nel frattempo trasformato in “migrante” dal discorso pubblico) ai margini dell’attenzione, concentrata ovviamente su altri temi (Della Puppa, Sanò, 2021).

I lavoratori stranieri in Italia si trovano ad invecchiare in un Paese che, dopo aver ampiamente beneficiato del loro contributo all’economia [12], ed avendo in un certo senso contratto un debito nei loro confronti [13], tende a non occuparsene più (sempre che non costituiscano un problema per l’ordine pubblico), e rischiano quindi una vecchiaia difficile, in cui le due fragilità dell’invecchiamento e della condizione di straniero tendono a saldarsi fra loro. Invecchiare, per un lavoratore straniero, è infatti cosa ben diversa che per un autoctono, soprattutto a livello di prestazioni di previdenza sociale. Infatti il quadro legislativo (sia nazionale che regionale) e le recenti iniziative in materia di riforma fiscale non sembrano andare nella direzione di aiutare le posizioni contributive più deboli.

gettyimages-1236884207-2048x2048Prevedere un minimo di 38 anni di contributi per accedere alla pensione (e di 20 per non finire con quella sociale) pone requisiti irrealistici per la maggior parte dei lavoratori stranieri, la cui presenza (pur massiccia) sul mercato del lavoro è però caratterizzata da precarietà e discontinuità. Anche le persistenti limitazioni nella portabilità della pensione (introdotte dalla legge Bossi-Fini nel 2001) tendono a penalizzare l’immigrato che, ad un certo punto della sua traiettoria migratoria, decida (o, come spesso accade, abbia necessità) di rientrare nel Paese di origine, vanificando di fatto la possibilità di muoversi autonomamente. A questo proposito, già diversi anni fa l’allora presidente dell’INPS, Tito Boeri, faceva notare che: «C’è una quota significativa di immigrati che versa i contributi e poi non riceve la pensione perché magari lascia il Paese o perché non ha maturato l’anzianità contributiva. Abbiamo quantificato questo fino a oggi in circa 3 miliardi già entrati nelle casse dello Stato, ma stimiamo che ce ne siano altri 12 che arriveranno. Quindi circa un punto di Pil, che è un regalo degli immigrati alle casse dello Stato. Ogni anno questo flusso, questo regalo, è di circa 400 milioni» [14].

Sono solo alcuni esempi (molti altri se ne potrebbero fare) di come il sopravvenire della vecchiaia rischi, nell’attuale contesto nazionale, di rendere la vita del cittadino straniero piuttosto complicata [15]. A grandi linee, possiamo dire che, fintanto che gli immigrati sono regolarmente inseriti nel mercato del lavoro e in buona salute, riescono a far fronte alle esigenze proprie e della loro famiglia, incluse le rimesse dirette nel Paese di origine, e non devono essere considerati una categoria bisognosa di assistenza. Le cose rischiano però di cambiare con l’approssimarsi della vecchiaia e l’inizio del pensionamento. Sarà dunque necessario, in secondo luogo, porre decisamente l’accento sulla regolarità contributiva dei lavoratori stranieri, oltre che su specifiche misure di carattere inclusivo all’interno del sistema pensionistico.

Da ultimo, non è possibile non rilevare che gran parte di questi “trattamenti differenziali” è riconducibile al nodo irrisolto della cittadinanza. È chiaro che se l’accesso alla cittadinanza italiana fosse regolato in maniera meno restrittiva ed etnocentrica, buona parte degli ostacoli finora descritti verrebbe a cadere [16]. È dunque più che mai necessario mettere finalmente mano ad una riforma inclusiva della cittadinanza, che superi finalmente una legge (la l. 91/1992) nata già vecchia trent’anni fa. Questo anche in prospettiva, dato che, ovviamente, gli attuali lavoratori stranieri in età produttiva sono gli anziani pensionati di domani.

In definitiva, tutte le proposte accennate in questa parte conclusiva sono di fatto riconducibili alla necessità di riconoscere ed accettare il fenomeno immigratorio come parte integrante della contemporaneità italiana, e farlo a 360 gradi, considerando quindi lo straniero in tutto l’arco della propria vita, da bambino, da studente, da lavoratore, da anziano. In una parola, da cittadino. Soltanto in questo modo, (inter)agendo su un piano di parità, sarà possibile smussare le asperità di cui è ancora disseminata la strada dell’integrazione ed evitare l’insorgere di nuove.

Dialoghi Mediterranei, n. 54, marzo 2022
[*] Una versione ridotta di questo testo è in corso di pubblicazione all’interno di un volume edito da Franco Angeli editore.
Note
[1] Uno studio realizzato nel 2012 per conto del BAMF: Schimany, P., Rühl, S., Kohls, M., Ältere Migrantinnen und Migranten – Entwicklungen, Lebenslagen, Perspektiven, Forschungsbericht 18, Bundesamt für Migration und Flüchtlinge, 2012, rappresenta uno dei pochi tentativi di mettere a fuoco la problematica in maniera esaustiva, con una casistica che può risultare utile anche al di là della specifica situazione tedesca.
[2] Al contrario, è invece l’invecchiamento degli emigranti italiani all’estero ad essere stato oggetto di vari studi, che hanno esaminato le diverse problematiche connesse al fenomeno (Ganga 2006, Bolzman, Fibbi, Vial, 2006, White, 2006, Bolzman, Vagni, 2016, Karl, Ramos, Kühn, 2016)
[3] A questo proposito non va comunque dimenticato che la migrazione è nella maggior parte dei casi, una decisione che viene presa da tutta la famiglia.
[4] Oltre che dalla letteratura, questo fenomeno è stato rappresentato anche dalla documentaristica. Si veda ad esempio “Country for old men”, di Pietro Jona e Stefano Cravero, un documentario del 2017 (reperibile su zalab.org), che racconta le storie di anziani statunitensi alla ricerca di una vecchiaia tranquilla in Ecuador.
[5] Accanto a questi, ci sono anche da considerare i circa due milioni di irregolari stimati dall’Osservatorio Nazionale sul Lavoro Domestico. Con la regolarizzazione del 2020 sono state presentate oltre 220.000 domande di emersione per lavoro domestico.
[6] Per inciso, va anche notato che, proprio a partire dagli anni ’70 del secolo scorso, i paesi dell’Europa meridionale e mediterranea sono diventati essi stessi paesi di immigrazione.
[7] Desidero ringraziare le sei persone intervistate per la loro disponibilità, e in special modo Arminda Hitaj, mediatrice interculturale di Udine, e Franco Pittau, presidente onorario del Centro Studi e Ricerche IDOS di Roma.
[8] Le modalità di indicazione del nome (solo primo nome, iniziali, etc.) sono quelle decise degli intervistati stessi, che in alcuni casi hanno chiesto di essere identificate con uno pseudonimo
[9] Le cifre presentate in questo paragrafo si riferiscono ai cittadini stranieri in senso stretto, e non alla categoria dei “nati all’estero”, spesso presa in considerazione dagli studi internazionali. Restano quindi fuori dal computo i cd. “immigrati non stranieri”, e cioè tutti coloro che, giunti in Italia da stranieri, hanno in seguito acquisito la cittadinanza italiana (attualmente, oltre un milione di persone) e che, soprattutto in età avanzata, possono presentare criticità analoghe a quelle dei cittadini stranieri in senso stretto.
[10] Per la precisione, 45,7 a fine 2019 e 45,9 (dato provvisorio) alla fine del 2020.
[11] Senza peraltro ricadere nell’errore della Svezia che, stando alla ricerca, ha di fatto dato vita alla «problematica costruzione sociale degli immigrati anziani come alterità etnica, culturale e socio-economica», costruendo una “categoria sociale caratterizzata da esigenze speciali” (Torres, 2006: 1345).
[12] A fronte di 15,4 miliardi di euro versati dai lavoratori immigrati nel 2019 a titolo di contributi previdenziali, sono state pagate pensioni per 1 miliardo ai lavoratori non comunitari. In termini più generali, sempre nel 2019, a fronte di circa 29 miliardi di entrate da parte dei contribuenti stranieri, le uscite dello Stato per l’immigrazione sono state di poco superiori ai 25 miliardi, originando quindi un saldo positivo di ben 4 miliardi (Dossier IDOS 2021, p. 317 e ss.)
[13] A questo proposito, King (2017, p. 196) nota che, “uno stato promuove l’immigrazione di manodopera, riconoscendo così de facto che i lavoratori migranti danno un prezioso contributo economico, eppure quello stato non onora pienamente il suo impegno a riconoscere che i migranti alla fine si ammaleranno e/o invecchieranno e avranno bisogno di un trattamento almeno pari a quello ricevuto dai cittadini del paese ospitante” .
[14] https://www.blitzquotidiano.it/economia/pensioni-boeri-da-immigrati-15-mld-di-2326814/
[15] Prescindiamo qui, anche per motivi di spazio, dalla sorte di coloro che, spesso non per volontà propria, lavorano in maniera irregolare o di quanti, disoccupati, si trovano a confrontarsi, fra l’altro, con le forti limitazioni per anzianità di residenza imposte da una misura in teoria universale come il Reddito di Cittadinanza.
[16] Il tema della cittadinanza è vasto e complesso, ed esula dall’ambito di questo studio. Per chi volesse approfondirlo, rimane fondamentale e ancora attuale il testo curato da Giovanna Zincone, Familismo legale, come (non)diventare italiani, Laterza 2006. Per analisi più recenti (e maggiormente centrate sul fenomeno migratorio), si vedano anche Ambrosini, Altri cittadini, Vita e Pensiero, 2020 e Attanasio, Immigrazione: ripartiamo dalla cittadinanza, in “Dialoghi Mediterranei”, n. 49, maggio 2021, http://www.istitutoeuroarabo.it/DM/immigrazione-ripartiamo-dalla-cittadinanza/
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Paolo Attanasio, dopo quindici anni di lavoro in Italia e all’estero nel settore della cooperazione internazionale, si dedica ormai da diversi anni allo studio del fenomeno migratorio e all’attività di ricerca e consulenza nel settore. Dal 2002 è redattore del Dossier statistico immigrazione, e dal 2007 referente regionale del Centro Studi e Ricerche IDOS, prima per la provincia autonoma di Bolzano, e attualmente per il Friuli Venezia Giulia. Ha al suo attivo diverse pubblicazioni e rapporti di ricerca, come pure la partecipazione a numerosi progetti di integrazione economica e sociale degli stranieri. Nel 2018 ha pubblicato, con Antonio Ricci, il volume Partire e Ritornare, uno studio sulle migrazioni fra Italia e Senegal.

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