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L’identità normativa delle religioni tradizionali

  

sacrificio di Isacco

Il sacrificio di Isacco, di Caravaggio, Galleria degli Uffizi, 1594-1596

di Luca Parisoli

Ho subìto il fascino de Il ramo d’oro di James Frazer, ho subìto il fascino del positivismo antropologico anche senza pormi il problema di formularne la natura fondamentale: ero affascinato dalle descrizioni minuziose, da una erudizione apparentemente sconfinata, da una narrazione che mi compiaceva, forse per una somiglianza di fondo con quella ben più caustica di un Mandeville o di un Hume. Ero affascinato e basta, anche se in quegli stessi anni universitari ero profondamente colpito dalle cinque vie di san Tommaso, quelle che nel progetto di questo filosofo medievale conducono verso Dio. Non fu la mia fede cattolica a farmi mettere in discussione Frazer, non fu la mia frequentazione degli scolastici medievali: avrebbe dovuto, ma solo oggi riesco a comprendere questa incompatibilità concettuale. Fu invece un grande filosofo che non aderiva a nessuna confessione, anche se oggi molti riconoscono in lui la pulsione profonda di una tensione verso l’analisi del sacro: fu la lettura delle Ricerche filosofiche di Ludwig Wittgenstein, della questione celebre che affronta il problema di cosa significhi seguire una regola.

Credo che l’articolo di Marco Ventura apparso lo scorso 10 luglio sul Corriere della Sera sollevi molti nodi concettuali, ed uno di questi sia tale da evocare l’opposizione tra Frazer e Wittgenstein: un’idea che emerge è quella per cui non si parte da una super-religione per arrivare a disegnare un luogo di culto conforme alla sua natura, quanto si parte da un luogo di culto, da un dato di fatto che si viene a fare esistere, per favorire l’emersione di una super-religione. Se la religione non fosse un fenomeno normativo, se il positivismo di Frazer catturasse la realtà, allora il progetto potrebbe sollevare tanti problemi, ma il suo quadro epistemologico fondamentale sarebbe corretto. Tuttavia, credo da un lato che la religione sia un fenomeno essenzialmente normativo e che dall’altro Frazer utilizzi un quadro epistemologico di cui Wittgenstein ha mostrato la debolezza strutturale.

Si tratta di due nodi concettuali che vanno affrontati insieme, e che insieme mi pare mostrino che l’identità normativa sia caratterizzante ogni comunità religiosa, e più in generale ogni gruppo umano, e che tale identità non possa né essere descritta con metodi di pura osservazione esterna al gruppo umano che si riconosce in essa, né possa essere determinata per puro procedimento meccanico-fisiologico, senza conquistare l’adesione dei partecipanti al gruppo verso un tessuto normativo che li costituisce come gruppo. Perché un gruppo umano si costituisce tramite un’identità normativa?

Una risposta organica è stata offerta nei decenni passati da Pierre Legendre, attraverso quella che lui ha chiamato ‘antropologia dogmatica’, recuperando il carattere normativo dell’aggettivo e del sostantivo ‘dogmatica’, ancora qualche tempo fa familiare ai soli giuristi, ma che oramai sembra essere consegnato alla storia della lingua non solo nel linguaggio comune ma anche in quello dei giuristi. Oggi l’aggettivo ‘dogmatico’ solleva piuttosto la dimensione di un atteggiamento acritico, privo della tensione verso l’analisi concettuale che permette di affrontare un problema senza pregiudizi. L’antropologia dogmatica non è di questa natura, ed è una provocazione intellettuale da parte di Legendre quella di avere scelto una parola che si presta al fraintendimento, in esplicita rotta di collisione con le vie della Modernità, con quelle élites che lui chiama il Management industriale, che sono più diffusamente evocate nel linguaggio ordinario sotto le etichette di mondializzazione e globalizzazione. L’idea di Legendre, che in realtà recupera nel linguaggio psicoanalitico contemporaneo una concezione assai antica, è che l’uomo si costituisce attraverso la parola con l’Altro, ossia con una dimensione esterna al proprio io. Non si tratta del linguaggio inteso in senso cartesiano come caratteristica dell’essere umano, anche perché su questo piano si potrebbe ritornare alla concezione di Lattanzio, un Padre della Chiesa degli esordi del IV secolo, secondo il quale non è il linguaggio che ci distingue dagli animali non-umani, bensì l’esperienza della religione. La tesi di Lattanzio può essere ampiamente equivocata: basta fossilizzarsi su un concetto angusto di religione, per esempio la sola religione è quella che si istanzia in un culto ∂, questo gruppo di esseri umani non praticano tale culto, quindi non sono veramente esseri umani. Si tratta di un concetto brutalmente riduttivo, che confonde la legittima apologetica (la mia religione è migliore delle altre) con la stipulazione linguistica che impedisce il riconoscimento di un fenomeno comune a tutti gli esseri umani.

James G. Frazer

James G. Frazer

Io propongo invece di intendere Lattanzio alla luce del discorso contemporaneo, ossia di Legendre: le due tesi sono diverse, ma quella di Lattanzio è una specificazione di quella di Legendre. L’Altro può veicolare molte realtà concrete (una proiezione della mia mente, un soggetto umano che assume il ruolo di Altro, una pluralità di soggetti umani…), e tra queste realtà vi è anche quella di un Dio personale e trascendente: l’antropologia psico- analitica non prende partito per una determinata concezione relazionale con l’Altro, ma ovviamente include tra le sue possibilità anche la relazione con un Altro che ha i tratti di un Dio personale e trascendente, caratteri delle tre religioni menzionate nell’articolo di Ventura. Il punto è che se il soggetto si costituisce attraverso l’Altro, si tratta di una relazione normativa, e non descrittiva: descrittivo sarebbe come toccare un acquarello rosso e ritrovarsi con la mano tinta di rosso, ma questa non sembra proprio la caratteristica del rapporti con Dio in queste religioni (e in qualunque altra). L’Altro è fonte di una normatività che ci permette di pensarci come unità individuali, di riconoscerci quindi in relazione con altre unità umane individuali, e di costituirci, se lo desideriamo, come gruppo umano determinato (non dimentichiamo che il desiderio, secondo Lacan, è conforme alla legge del Padre, altrimenti è godimento e non già desiderio – un modo di esprimersi che si adatta perfettamente, in ambito cattolico, alla relazione dei beati con Dio). Ancora di più, questo approccio di antropologia lacaniana non tocca solo i gruppi religiosi, bensì qualunque gruppo umano: per Legendre, la società è un Testo, ossia una dimensione testuale che l’Altro affida ad un gruppo umano che si riconosce in quel testo e attraverso l’interpretazione di esso dipana la sua presenza e la sua azione nel mondo in quanto gruppo umano. Se la Bibbia, il Corano o la Torah sono Testi di gruppi umani religiosi, il diritto romano o quello canonico sono Testi di gruppi umani più ampi, di società che si costituiscono attraverso il Corpus juris civilis oppure il Corpus juris canonici. Ma anche uno sparuto gruppo di indigeni della foresta amazzonica ha il suo Testo, la tesi in questione non è di storia culturale, è di antropologia fondamentale, così come lo era l’affermazione di Lattanzio.

Le società umane sono quindi innervate su una rete normativa, ed anche se le tendenze più recenti sembrano voler rinunciare a questa rete normativa, indubbiamente i gruppi religiosi manifestano ancora, pur nel potente fiorire di concezioni anomiche anche al loro interno, questa dimensione tradizionale. Notiamo subito che se Lattanzio o Legendre hanno ragione, una società che non dipende più dall’altro, che rifiuta qualunque Testo normativo (necessariamente normativo perché viene dall’esterno, non sono io che fingo di seguire una regola che io stesso ho partorito), non potrebbe darsi un assetto alternativo, dovrebbe invece degenerare nella fattualità, la cui prima istanza è la violenza. Quando Legendre scriveva tanti anni fa, prima dell’esplosione del terrorismo come nuova strategia di guerra a partire dalla data simbolica dell’attentato alle Torri Gemelle, che l’Islam ritornerà con il coltello alla bocca, non formulava nessun giudizio sulla natura intrinseca dell’Islam, né sulle mire economiche del mondo ad influenza nord-americana, il regno del Management industriale. La sua considerazione era esclusivamente culturale: dalla sua esperienza diretta in Africa nell’ambito dei programmi di istruzione Unesco negli anni ’60, constatava che il mondo occidentale pretendeva di cambiare brutalmente i modi dell’insegnamento scolastico, imponendo un modello completamente estraneo alla cultura locale, alla testualità di quelle società. La globalizzazione e la mondializzazione nel frattempo hanno fatto passi da gigante: pensiamo alle cosiddette ‘primavere arabe’, una lettura di fenomeni di società altre che viene condotta esclusivamente con i criteri propri, e non quelli dei soggetti umani coinvolti in quei fenomeni. La globalizzazione promette la pace, in realtà assicura la guerra: non economica, bensì culturale, ma non intesa in senso sofisticato e salottiero come inferiorità degli uni rispetto agli altri, bensì come difesa della propria identità sotto pena di sentirsi dissolti nel nulla (posso cambiare identità normativa, ben altra cosa è subire l’assalto di chi mi assicura che si può rinunciare ad ogni identità normativa).

Pierre Legendre

Pierre Legendre

All’interno di questa complessa rete normativa rientrano anche le liturgie dei riti e dei culti, quella dimensione che Lattanzio, grande ammiratore della filosofia classica, rimproverava ai suoi interlocutori non-cristiani di non avere saputo inserire all’interno del discorso filosofico; un’osservazione cui Giamblico replicò producendo la dimensione della teurgia come parte di un sistema filosofico, un’impresa intellettuale che prosegue sino a Proclo e che merita la massima attenzione, anche se bisogna constatare quello che invece era presente nel cristianesimo, ossia la devozione popolare – si pensi alla parabola di Giuliano l’Apostata, partigiano di una rinascita del paganesimo che aveva molto sul piano intellettuale, ma che tra i fedeli sinceri annoverava praticamente solo lui stesso. Le liturgie dei riti e dei culti erano l’oggetto della passione descrittiva di Frazer, che sostanzialmente riteneva che quelle liturgie potessero essere apprese osservando la loro celebrazione, o meglio leggendo libri in cui si raccontava di avere assistito a quelle celebrazioni, direttamente o indirettamente. Ma se le liturgie sono un oggetto normativo, allora la pretesa di Frazer è vana.

Che le liturgie siano un oggetto normativo, mi pare caratteristica di ogni religione: siano esse depositate in un canone, oppure trasmesse oralmente, il fatto costitutivo della normatività non cambia, così come parliamo di un diritto positivo e di un diritto consuetudinario. Le credenze religiose possono essere un fatto privato, così come accadeva nell’antica religio romana, in cui la sfera pubblica vedeva dispiegarsi la religione, mentre in quella privata le credenze non erano soggette a codificazione; non è così nelle religioni come le intendiamo comunemente oggi, in cui le credenze private si devono conformare ad un canone per essere riconosciute come parte di un’identità religiosa. Così nel cattolicesimo chi considera che il Catechismo sia fallace o composto da proposizioni false, ebbene costui non è cattolico. A noi interessa però la liturgia, in sé e per sé pubblica: in questo senso, non importa neppure che abbia ragione Assman, per il quale il politico precede il religioso – cosa che ritengo equivoca, oppure che valga la tesi per cui il religioso preceda il politico. In ambedue i casi, la liturgia è una manifestazione pubblica codificata, e lo spazio liturgico è funzionale alla messa in pratica delle regole liturgiche.

Ma se si comprende che le liturgie non sono manifestazioni che si dipanano senza una regola che le precede, dalla quale regola possono discostarsi ed allora sono liturgie difettose, oppure che quella regola possono istanziare adeguatamente – ed allora sono liturgie conformi, allora entra in scena la riflessione di Wittgenstein su seguire una regola. A partire dal gioco degli scacchi, oppure dall’aspetto della cabina di comando di una locomotiva a vapore – piena di leve di ogni foggia, Wittgenstein considera che nessun insieme di osservazioni, per quanto prolungato e dettagliato, può fare emergere le regole seguite da chi partecipa ad un gioco, oppure nel nostro caso ad una liturgia. Osservare il comportamento α è solo osservare il comportamento α, non potrà essere mai l’osservazione di una violazione se non conosco la regola violata. E quando l’osservatore pretende di avere dedotto la regola dalla sua osservazione minuta ed estesa – per esempio, un certo tipo di comportamento è sempre sanzionato, in realtà l’osservatore costruisce lui stesso la regola, e non già l’osserva. L’unico modo per conoscere le regole seguite dai partecipanti al gioco (alla liturgia) consiste nel chiederlo a loro stessi, ed avere fiducia, sino a prova contraria, della loro sincerità.

 Ludwig Wittgenstein

Ludwig Wittgenstein

Cosa significa quindi costruire un grande spazio liturgico per tre confessioni differenti? Una prima ipotesi può significare che si costruisce una nuova identità religiosa, normativa, che supera ed ingloba le altre tre; questo sarebbe allora uno spazio liturgico per una nuova religione, più vera ed adeguata delle altre. Mi pare che questa lettura non trovi nessun aggancio nell’impresa, che pare non proporre nessun nuovo canone normativo: una super-religione tradi- zionale non potrebbe che convertire i fedeli di altre religioni, e farli aderire al nuovo canone. Mantenere gli spazi liturgici precedenti nel nuovo contesto significa assenza della volontà di superarli con una nuova catena normativa.

Una seconda ipotesi è che questo grande spazio liturgico proponga la confluenza di due confessioni nello spazio liturgico di un’altra: questa ipotesi pare infondata, perché allora sarebbe corretto invitare i fedeli delle due confessioni (qualunque esse siano) a partecipare ai riti e ai culti dell’altra religione negli spazi usuali. Non ci sarebbe una nuova super-religione, bensì una religione già esistente migliore delle altre, e non ci sarebbe bisogno di costruire uno spazio liturgico in attrito stridente con la migliore religione.

Una terza ipotesi è quella della creazione di uno spazio anomico, in cui ogni religione esercita provvisoriamente il proprio canone normativo, per poi rinunciarvi ed abbracciare l’anomia, una versione diversa dell’atteggiamento di Frazer, che amava i primitivi che descriveva, ma non poteva fare a meno di considerarli primitivi, mentre seguivano regole quanto lui, solo regole differenti dalle sue.

Questa terza ipotesi mi pare in linea con la dominanza culturale della globalizzazione e della mondializzazione, e mi pare proprio il progetto che sta dietro allo sforzo architettonico: la sua dimensione tragica è che l’anomia è la negazione di ogni possibile liturgia, e quindi si offre una promessa liturgica che in realtà nasconde la negazione di ogni liturgia, e la cui dimensione egualitaria non sta nel riconoscere valore a qualunque sistema liturgico, ma negarlo radicalmente a ciascuno. Questa è un’ottima premessa per vedersi poi reagire contro qualcuno con il coltello alla bocca, non perché sia intrinsecamente cattivo, ma perché queste sirene suicidarie possono convincere alcuni ad affidarsi all’eutanasia anomica, ma chi non se ne convince non potrà che lottare in nome dell’istinto di sopravvivenza, dato che la morte ‘dolce’ è sempre una morte.

Per questo insieme di ragioni penso che il progetto architettonico in questione di spazio liturgico sia funesto: da un lato, se le confessioni religiose sono moribonde, ossia non trovano più esseri umani disposti a riconoscersi nella loro identità normativa, allora è inutile agevolarne il decesso; dall’altro, se almeno una di queste tre confessioni religiose è vitale, allora significa cercare di ferirla a morte, seppure con il sorriso della tolleranza. E un animale ferito a morte è disposto a tutto pur di continuare a vivere. Dopo le prodezze pedagogiche compiute dalle organizzazioni internazionali in terra d’Islam, sarebbe ora di imparare a rispettare l’altro nella sua identità normativa, e non già come vincitori che impongono il proprio credo anomico.

Dialoghi Mediterranei, n. 22, novembre 2016

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Luca Parisoli, insegna Storia della filosofia antica e Storia della filosofia medievale presso il Dipartimento di Studi umanistici dell’Università della Calabria. Ha pubblicato intorno alla storia del pensiero francescano medievale nella sua dimensione normativa, sulla razionalità non-classica come strumento della filosofia cristiana, e sulla filosofia pratica nel contesto giusnaturalista. Il suo ultimo libro è Gioacchino da Fiore e il carattere meridiano del movimento francescano in Calabria, Il Testo Editor, Davoli Marina (CZ), 2016.

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