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Le storie di vita e il raccontarsi tra bisogno e piacere

Conversazione, Henri Matisse)

Conversazione, Henri Matisse

di Alessia Bonsignore  

Nell’ultimo decennio, la narrazione ha goduto di una fama senza precedenti. Sarebbe logico pensare che l’interesse verso il tema vada di pari passo con la chiara cognizione di cosa sia la narrazione. Tuttavia, persiste una duplice interpretazione per cui si considera la narrazione, da un lato, come mezzo di riorganizzazione delle esperienze e dall’altro come mezzo di produzione di oggetti comunicativi come storie e racconti. La complessità nel definire la narrazione deriva dal suo fare riferimento a fenomeni diversi in differenti prospettive, e di conseguenza potremmo affermare che la narrazione non abbia una definizione assoluta ma che sia una nozione, un significante, il cui significato dipenda dal nostro piano di analisi.

Ad ogni modo, la narrazione risulta essere una delle principali forme della comunicazione umana, qualsiasi individuo pensa e si esprime in forma narrativa. Perchè riscontriamo la centralità della narrazione nella descrizione di eventi della nostra vita rispetto ad altre forme di comunicazione ed espressione? La risposta a questa domanda potremmo trovarla nell’etimologia della parola stessa. La parola “narrare” deriva dal latino gnarus che ha in sé sia il significato di “conosciuto” quanto di “consapevole”. Un individuo narra inevitabilmente ciò che “ha conosciuto”, gli eventi vissuti, ma, durante l’atto stesso della narrazione, diviene più consapevole di Sé, delinea i confini della propria identità, e di come questo Sé sia evoluto a causa degli eventi.

La memoria, René Magritte)

La memoria, René Magritte

Tra le capacità cognitive attribuite alla narrazione, vi è anche quella di influenzare la costruzione dell’identità: le strutture narrative costituiscono l’impalcatura fondamentale che sostiene il processo di formazione identitaria. In tal modo si sottolinea come l’autocoscienza derivi anche dalla narrazione e, quindi, conduca inevitabilmente all’interiorizzazione delle proprie esperienze. Gregory, nel suo La natura sistemica dell’uomo. Attualità del pensiero (2009) sottolineava come l’esperienza che non passa attraverso la riflessione, non sia proficua, e che ciò di cui l’individuo ha bisogno sia cercare di costruire un significato. Il logos umano, il pensiero e la parola, sono rappresentati in questo caso rispettivamente dal ricordo delle esperienze e dal linguaggio che, insieme, attribuiscono senso agli eventi e forniscono un’identità al soggetto nel suo percorso di presa di coscienza. Bruner (2002) sosteneva che la costruzione di una storia struttura la nostra visione del mondo nella narrazione e nel racconto di sé, dando forma alla nostra esperienza delle relazioni con noi stessi, gli altri e le cose del mondo.

Le storie di vita hanno, infatti, non solo come obiettivo quello di dare un ordine al corso effettivo degli eventi, ma anche quello di comprendere come l’individuo abbia processato tali eventi (Znaniecki, 1987). Weber (2003), dal canto suo, ribadiva che le scienze sociali dovessero integrare “spiegazione” e “comprensione” perchè solo tale binomio avrebbe permesso la conoscenza scientifica dell’oggetto sociale e tale concetto trovò espressione attraverso l’impiego delle storie di vita, poichè esse permettono la comprensione del senso dell’azione sociale e, la loro spiegazione, permette all’osservatore di uscire da se stesso per cogliere il senso soggettivo dell’esperienza umana. Inoltre l’osservatore e chi viene osservato sono avvantaggiati dal reciproco rapporto, poichè la comunicazione è ciò che impedisce alla realtà di farsi evanescente, essendo «il senso della realtà un prodotto dell’incontro sociale»; in ogni conversazione «l’attore diviene un funzionario dell’establishment cognitivo, sostenendo attivamente l’identica posizione … quella secondo cui esiste una struttura della realtà, che tale struttura può essere percepita e descritta ad altri e, quindi, che parlare … e ascoltare … sono cose ragionevoli da farsi» (Goffman 1987: 260).

L’intervistatore è avvantaggiato due volte in questa relazione comunicativa, poichè ha il fine di raccogliere lo sforzo di introspezione, registrare la migliore comprensione di sé che l’intervistato raggiunge attraverso il racconto. Berteaux è tra gli studiosi che hanno contribuito al rilancio delle storie di vita come strumento di indagine, avendo proposto l’impiego di uno specifico approccio, l’approccio biografico, che integrava osservazione e riflessione. Attraverso l’approccio biografico vi è il radicale ribaltamento della “sociologia scientifica” secondo la quale gli esseri umani sono «ridotti allo stato di oggetti per permettere alle scienze umane di divenire obiettive» (Berteaux 1980: 219). Gli uomini non vengono più percepiti come oggetti da misurare, ma come informatori, e secondo Berteaux ciò permetteva di rinunciare alla distanza tra la disciplina e il suo oggetto di studio, riscoprendo il valore sociologico delle testimonianze e avvicinandoci ad una maggiore comprensione dell’Altro.

Decalcomania, René Magritte

Decalcomania, René Magritte

Ma dal punto di vista antropologico, quanto ci è permesso lasciarci coinvolgere? Quanto è possibile avvicinarci all’Altro? Ruth Behar, antropologa cubana, di famiglia ebraica, emigrata negli Usa, sostiene che antropologia significhi farsi carico degli aspetti emotivi, dei dubbi etici e metodologici strettamente collegati al fare etnografia, poiché essere (etno)antropologici significa cogliere il punto di vista nativo ma senza diventare nativi. Behar in The vulnerable observer parla di vulnerabilità come esposizione del sé, poichè non si possono esprimere dubbi, pensieri ed eventi senza rendersi vulnerabili, tanto più che l’osservatore influenza il corso dell’evento osservato tanto quanto l’osservazione influenza il comportamento di un elettrone, in quanto l’osservatore non assiste mai ad un evento per come si sarebbe svolto in sua assenza. Ovviamente, scrivere in modo vulnerabile comporta dei rischi poichè potremmo lasciarci sopraffare dalle emozioni, ma è un rischio che vale la pena correre, da studiosi. Il primo lavoro di un antropologo, in generale prima, e applicato alle storie di vita poi, è proprio quello di sforzarsi di sentire l’Altro, viverlo, nella sua complessità emotiva e culturale; entrare nell’alterità significa cambiare il proprio posizionamento rispetto ai propri modelli morali di riferimento, i valori individuali. 

Ma chi è l’Altro? Secondo Husserl (2017) l’alterità è un qualcosa che l’individuo “deduce” dal Sé, poichè segue il principio innato della natura umana nel classificare e segmentare qualunque cosa; in questo caso si giunge alla creazione e individuazione di somiglianze e differenze e, dunque, alle categorie del Sé e l’Altro. Ed è attraverso queste due coordinate che si costruisce e racconta l’esperienza umana. La relazionalità Sé/Altro si realizza nel rapporto tra l’antropologo (o il ricercatore in generale, essendo le storie di vita indagate a livello interdisciplinare) e l’intervistato, in cui si attiva una costruzione intersoggettiva di significati in cui l’intervistato condivide il proprio bagaglio di esperienze, schemi culturali, categorie linguistiche e sistemi valoriali, mentre l’antropologo accede a nuove modalità di interpretazione e all’ampliamento dei propri campi conoscitivi, mettendo dunque in avvicinamento due sfere individuali.

Il processo di interazione e connessione con l’Altro stimola il ricercatore a un ascolto attento, favorendo la libertà individuale all’interno delle relazioni. La capacità e la volontà di ascoltare, prima ancora di etichettare un individuo con uno status sociale, richiedono di riconoscere la persona nella sua essenza, considerandola come un essere complesso. Infatti, il desiderio di ogni narratore è che la propria esistenza venga genuinamente riconosciuta da chi ascolta il suo racconto (Jedlowski, 2000). Anche Ricoeur parla dell’importanza del “valere”, la necessità del soggetto di consenso da parte degli altri, senza i quali non potrebbe essere riconosciuto come individuo e, dunque, non esisterebbe.

Infatti, le storie di vita dovrebbero essere un mezzo per lasciare uno “spazio di esistere” all’Altro (o Altri), uno spazio per dare voce a un altro individuo che, con l’aiuto dell’antropologo, riesce a trasformare ricordi, memorie ed eventi in occasione di riflessione e analisi. Ad ogni modo, in questa relazionalità, il ricercatore si trova a vivere diviso tra il rapporto umano, l’immersione empatica negli avvenimenti e nelle emozioni del narratore da un lato, e l’interesse scientifico nel cogliere gli aspetti della vicenda esistenziale di quell’individuo, dall’altro. Bruner riteneva che «[…]se la narrazione deve diventare uno strumento della mente capace di creare significato, richiede del lavoro da parte nostra: leggerla, farla, analizzarla, capirne il mestiere, sentirne l’utilità, discuterla» (Bruner 2001: 56…).   

La persistenza della memoria, di Dalì

La persistenza della memoria, Salvador Dalì

La memoria è un altro elemento che inevitabilmente svolge un ruolo essenziale nella narrazione delle storie di vita. La memoria, in particolare quella autobiografica, è una caratteristica unica della specie umana, la memoria del Sé interagente con gli Altri. Essa dipende da un processo di recollection, la memoria episodica collegata all’esperienza consapevole del ricordo, e uno di familiarity, la memoria semantica inerente all’esperienza del conoscere. Tuttavia, riportare episodi della propria esistenza alla coscienza è un atto consapevole, ma la ricostruzione degli episodi è un qualcosa che dipende da tanti fattori: il ricordo emotivo, e la conseguente connotazione positiva o negativa che associamo al ricordo, la percezione di noi stessi e dell’Altro.

Tuttavia, la memoria autobiografica non è soltanto mera rievocazione dei ricordi ed eventi vissuti, ma è, al tempo stesso, consapevolezza di aver vissuto determinati eventi: la rappresentazione, dunque, non solo di ciò che è stato ma anche di ciò che si pensa e prova riguardo a tali eventi, e quindi la capacità di decidere cosa si vuole ricordare e cosa invece cercare di dimenticare. O ancora meglio, la possibilità di decidere cosa raccontare e cosa omettere. Raccontarsi, sovente, non è un processo semplice o privo di dolore.  I falsi ricordi e i ricordi traumatici sono l’aspetto forse più disturbante della memoria umana. Sono esito di ricordi alterati nel tempo o il prodotto dell’aggregazione di più ricordi in un unico solo, tanto realistico quanto falso. I ricordi traumatici possono, invece, adulterare il contenuto di un racconto a causa di un contesto di sofferenza. 

Mi piace concludere questo breve contributo con il “manifesto” epistemologico di Pietro Clemente che rendere giustizia alla bellezza delle storie di vita, augurandoci che queste assumano nel contesto italiano sempre più visibilità e impiego: 

«Io amo l’antropologia che nasce dalle etnografie ‘singolari’, dalle storie della vita che l’antropologo ricolloca in contesti culturali specifici, ma con la consapevolezza che le singole storie rifanno continuamente i ‘contesti’, e vi è quindi un’apertura interpretativa larghissima e confini mobili e inquieti, un corredo metodologico straordinario per lavorare sul mondo di oggi. Personalmente transitando piccoli mondi e diverse storie ho capito che l’antropologia culturale, almeno quella che piace a me, non studia le leggi generali delle culture ma il modo in cui, dentro le singole vite, una cultura viene appresa, giocata, interpretata, trasformata. Per me la cultura ormai non è nulla senza gli individui che la vivono e per i quali essa è un corredo senza il quale non potrebbero esistere, ma un corredo che agiscono in modi diversi a seconda dei luoghi e dei tempi, e in modi che – a partire dal dibattito teorico che oppose ancora negli anni ‘40 Ernesto De Martino alla scuola di Durkheim – potremmo chiamare di ‘libertà individuale’. È questa ‘libertà’ che produce in noi che leggiamo o ascoltiamo ‘lo spettacolo meraviglioso’ e spesso imprevisto, di una vita raccontata dall’interno di una cultura, e di una cultura raccontata da dentro una vita» (Clemente, 2013: 16).
Dialoghi Mediterranei, n. 63, settembre 2023 
Riferimenti bibliografici 
BEHAR R., The vulnerable observer, Beacon Press, Boston, 1996
BERTEAUX D., L’approche biographique: sa validité méthodologique, ses potentialités, in «Cahiers Internationaux de Sociologie», Vol.69, Presses Universitaires de France, France, 1980 
BOVONE L., Storie di vita come lavoro riflessivo: di una generazione e di una cultura, Pubblicazioni dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, Roma, 1994 
BRUNER, J. S. , La cultura dell’educazione. Nuovi orizzonti per la scuola, Feltrinelli, Milano, 2001 
BRUNER J. S., La fabbrica delle storie: Diritto, letteratura, vita, Laterza, Bari, 2002 
CLEMENTE P, Le parole degli altri. Gli antropologi e le storie della vita, Pacini Editore, Pisa, 2013 
GOFFMANN E., Forme del parlare, il Mulino, Bologna, 1987 
GREGORY B., La natura sistemica dell’uomo. Attualità del pensiero, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2009 
HUSSERL E., Meditazioni cartesiane, Orthotes, Napoli, 2017 
JEDLOWSKI P, Storie comuni. La narrazione nella vita quotidiana, Mondadori, Milano, 2000 
WEBER M., Il metodo delle scienze storico-sociali, Feltrinelli, Milano, 2003 
ZNANIECKI F., II valore sociologico dell’autobiografia, La Goliardica, Roma, 1987. 

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Alessia Bonsignore, giovane laureata in “Lingue e Letterature – Interculturalità e Didattica” presso l’Università degli Studi di Palermo, ha discusso la tesi sperimentale di laurea in Etnoantropologia, dal titolo “Processi migratori: raccontarsi attraverso le storie di vita”, una raccolta e analisi delle storie di vita di Migranti Stranieri Non Accompagnati di centri di prima accoglienza di Palermo e provincia. Aspirante insegnante della lingua italiana agli stranieri, continua la sua ricerca nell’ambito delle migrazioni e dell’etnoantropologia.

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