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Le ragioni dell’ascolto

lntellettuale al caffè   di  Orietta Sorgi

L’intellettuale al caffè. Incontri con testimoni e interpreti del nostro tempo, è il titolo di una serie di conversazioni radiofoniche, curate da Sergio Palumbo e Loredana Cacicia e mandate in onda da Rai Sicilia nel 1991. Si tratta di una miniera di documenti inediti, restituiti attraverso la viva voce di letterati e artisti siciliani, che ripercorrono la propria vicenda esistenziale e il rapporto strettissimo con i luoghi delle origini.  Già nel titolo della rubrica emerge inoltre – in tutta evidenza – il ruolo dell’intellettuale al servizio della società civile, nel più ampio senso gramsciano: il richiamo al caffè come luogo di ritrovo illuminista per la dissertazione di argomenti letterari, rende appropriatamente il senso di una cultura vista come rigore morale e impegno civile nel processo di liberazione da varie forme di oppressione politica e sociale.

In questo volume con due Cd audio allegati – edito dal Centro regionale per il catalogo e la documentazione nel 2013 – vengono pubblicate le prime puntate dedicate rispettivamente a Leonardo Sciascia, Vincenzo Consolo, Gesualdo Bufalino e Ignazio Buttitta. Quattro grandi esponenti della letteratura siciliana contemporanea si ritrovano così a dissertare, interrogandosi su temi come l’insularità, il destino del dialetto, la passione civica, la scrittura e la memoria. La breve introduzione che precede il dialogo e la lettura di alcuni brani inediti, accompagnati dalle osservazioni di vari critici interpellati, rimanda principalmente, come si è detto, all’ambiente, alla formazione e all’opera di ogni autore. Più di qualsiasi accurata trascrizione, l’ascolto di queste voci, con i diversi timbri, inflessioni e cadenze, lascia trasparire il gusto del ragionamento  reso attraverso un parlato informale.

Su tutte un unico referente, una sola matrice culturale: la Sicilia. La Sicilia poverissima della guerra e del dopoguerra, oppressa dalla questione meridionale e dalla mafia, minacciata dalla ricostruzione postbellica nel segno di quell’industrializzazione nazionale, che avrebbe fortemente compromesso la vitalità del mondo contadino.

Nella prima intervista del 1986 dedicata a Leonardo Sciascia, tre anni prima della sua morte, lo scrittore di Racalmuto invoca la ragione di stampo illuminista nell’interpretazione dei fatti sociali contro ogni timore di oscurantismo irrazionalista, così tipico dei nostri tempi. Di fronte a tali pericoli, Vincenzo Consolo si appella alla scrittura, da un lato fortemente radicata nella cultura delle origini e ancorata al sociale e all’ impegno civile; dall’altro concepita come puro esercizio stilistico. In quanto siciliano, Consolo dichiara con fierezza di appartenere agli scrittori di tipo verticale, che devono fare i conti con la propria storia, una storia densa, cumulativa, e profondamente segnata dalla diversità. Ad una marginalità geografica, ad una condizione di separatezza e di povertà economica, si contrappone in Sicilia, come felicemente ricorda Alberto Moravia a proposito dell’America latina, una ricchezza letteraria che è data dalla confluenza di diversi apporti. Così i Bizantini nel Medioevo, quando intuirono che l’avanzare dei barbari avrebbe comportato la perdita delle proprie risorse, si rifugiarono nella classicità. Questa condizione periferica, di emarginazione ha aperto l’Isola ad altre tradizioni culturali, sottraendola a linguaggi codificati e dotandola di una maggiore ricchezza espressiva. Da qui il fiorire della scrittura, di un linguaggio barocco, surrealista, fortemente poetico, ma non per questo sganciato dalla realtà e dai problemi sociali.

Anche Gesualdo Bufalino, coltissimo e impenetrabilmente schivo, insiste sul tema della scrittura, assegnando ad essa un potere simbolico e terapeutico che, unito alla memoria, finisce col divenire linguaggio universale. Se il mondo di ieri è scomparso, occorre recuperarlo, reiventarlo in un’azzardata utopia che lo proietta nel futuro: così la scrittura di Bufalino volge lo sguardo al passato, ma nello stesso tempo si colloca all’avanguardia, dando prova di ardite sperimentazioni sul ceppo del dialetto originario. La scrittura è anche monologo dell’autore con sè stesso, in assoluto stato di isolamento. La pubblicazione di un manoscritto è forse il primo segno di corruzione alla purezza incontaminata di uno scrittore solitario, condizione privilegiata per la creatività artistica.  La scrittura di Bufalino è anche sostanzialmente esercizio della memoria, che riemerge attraverso i ricordi narrati, in tal modo liberandosi del contingente, del divenire ed esorcizzando la morte. La Sicilia appare dunque una grande officina letteraria, una sorta di monumento funebre che trascende la realtà fenomenica e la rarefazione del tempo.

La lunga vita di Ignazio Buttitta riapre una delle pagine più intense della storia italiana del Novecento: partito con i ragazzi del fronte durante il primo conflitto mondiale, si ritrova a combattere il fascismo fra i partigiani della Resistenza nel Norditalia, dove rimarrà in seguito  con la sua famiglia. Il rientro in Sicilia lo vede impegnato accanto al movimento contadino nella lotta per la conquista della terra, contro la proprietà agraria e il potere mafioso. Nel giorno dell’intervista, in occasione dei suoi novanta anni festeggiati ad Aspra, borgo marinaro poco distante da Bagheria, confesserà di non aver paura della morte perché ha potuto godere la vita: i suoi cassetti pullulano ancora di versi manoscritti, tutti recenti,  di attualità, che attendono di essere stampati.

Pur da prospettive diverse, Sciascia, Consolo, Bufalino e Buttitta possono dunque definirsi protagonisti di un eterno ritorno alla Sicilia. Col distacco e la lucidità di Sciascia, dell’ homme de lettre che trascorre in Francia la sua età matura, di Consolo ormai da tempo residente a Milano, di un Buttitta novantenne nella sua casa di Aspra, reduce dalle esperienze giovanili della guerra, della prigionia e della resistenza partigiana. A questa condizione di andirivieni dall’Isola si sottrae solo apparentemente Gesualdo Bufalino, che resterà sempre nella sua Comiso come trigghia di scogghio. Anche se, a livello simbolico, la sua scrittura si pone anch’essa come un andare perenne oltre i confini locali, in quanto attinge dalle risorse stilistiche della propria terra per poi trasporle su un piano universale.

Ma c’ è un ulteriore elemento che accomuna l’attività di questi quattro autori nel concepire la vita come cultura e la cultura come militanza e libertà assoluta da ogni forma di pregiudizio mentale. «L’ intellettuale faccia quello che vuole» – dirà Sciascia nel corso dell’intervista – perchè proprio facendo quello che vuole scoprirà di avere un ruolo oppositivo nei confronti di ogni potere precostituito. «Non si può stigmatizzare il ruolo dell’intellettuale – sarebbe come ricadere in forme totalitarie di fascismo». «Senza la folla non riesco ad aprire la bocca» – aggiungerà Buttitta, richiamando la forza educatrice dei suoi versi, recitati in piazza, oralmente, a stretto contatto col popolo.

La poesia dialettale è dunque una forma di riscatto, espressione privilegiata di un cantore che vuole liberarsi da ogni forma di dittatura, dal fascismo, o, ancor peggio, dallo stalinismo o dalla mafia nel Sud d’ Italia.  Il dialetto è ricchezza, potenza espressiva, è una forza vitale che accomuna tutti i dialetti del mondo, che  per questo sopravviveranno alla crisi di cui al momento sono investiti.  È questa la speranza ottimistica del Poeta, che affida al suo verso il compito di andare lontano, fuori dai confini locali, riuscendo a tutti chiaro e comprensibile.

I profili di questi grandi maestri della letteratura, restituiti attraverso l’ascolto delle conversazioni radiofoniche, inducono a qualche riflessione. Nel loro argomentare essi sono mossi da una duplice aspirazione, che li spinge da un lato a fare i conti con le proprie radici e a preservare dall’omologazione l’identità e la diversità siciliana; dall’altro ad aprirsi all’Europa e alle correnti più vitali della letteratura, dalla remota periferia in cui operano e che si converte per questo in un osservatorio critico sulla società.

La Sicilia diviene piuttosto il luogo emblematico di una condizione esistenziale, una metafora, direbbe Sciascia. Una periferia che si fa centro, dunque, una nicchia da cui si guarda il mondo con una sorta di diffidenza intellettuale e superiorità morale. La vocazione mittleuropea e cosmopolita di questi scrittori della provincia, sembrerebbe contraddire la retorica sicilianista di chi attribuisce alla cultura insulare un ruolo statico, quasi immobilista. Abbarbicata come le ostriche di Verga ad uno scoglio o scettica nel guardare al cambiamento, come i Gattopardi nel romanzo di Tomasi di Lampedusa dove tutto parrebbe risolversi, quasi per magia, in uno stato di perenne immobilità.

 Dialoghi Mediterranei, n.4, novembre 2013

 

 

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